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Autore: Orso Scrive    18/12/2022    2 recensioni
Egitto, primi anni del Novecento.
Una squadra di egittologi porta a compimento una scoperta sensazionale ad Abu Simbel, l’antica porta del regno egiziano per chi risaliva il Nilo proveniendo dalla Nubia. Ma la scoperta potrebbe attirare su tutti loro una maledizione che la sabbia dei secoli non è ancora stata in grado di cancellare...
(Storia scritta nel 2017)
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO PRIMO

 

 

Il dottor Henry Thompson non riusciva a credere ai propri occhi.

Eppure, il portale d’ingresso alla cripta, ormai libero dalla sabbia che lo aveva ostruito per oltre trenta secoli, era lì, dinnanzi ai suoi occhi, più vero e concreto che mai. D’altra parte, quando il curatore del British Museum lo aveva spedito in Egitto per saggiare il terreno in vista di una nuova stagione di scavi presso la necropoli di Tebe, nessuno si sarebbe mai potuto aspettare che lui stesso effettuasse una scoperta, per altro in così breve tempo e per un caso davvero fortuito, nonché a quasi cinquecento chilometri di distanza da quella che sarebbe dovuta essere la sua meta.

Osservò l’incisione in caratteri geroglifici sopra l’architrave della porta ancora murata dagli originari suggelli; l’antica scrittura s’era conservata perfettamente ed il dottore, reso abile da anni ed anni di studi, riuscì a decifrarla nel giro di una manciata di minuti solamente, dopo averla ripulita dalle ultime incrostazioni di sabbia. Quella frase lo lasciò un po’ sorpreso, poiché non ricordava di essersi mai imbattuto in qualcosa di simile da nessun’altra parte. Solitamente, sopra gli ingressi delle tombe, si leggevano frasi beneauguranti per l’anima del defunto, oppure inviti ai parenti a compiere i riti sacri affinché il Ba del morto potesse trovare la strada per la Duat, l’aldilà; al massimo, s’invocavano botte e pugnalate per i ladri che avessero cercato di profanare il sepolcro. Questa, invece, era di tutt’altro tenore; sebbene fosse certo di poterla naturalmente tradurre molto meglio dopo un’analisi maggiormente puntigliosa, era sicuro che la frase dicesse pressappoco queste parole, una vera e propria maledizione:

 

«Avete voluto spingere i vostri passi sino alla soglia della tomba del faraone!

Attenti, a dove indirizzate i vostri passi!

Pochi hanno osato varcare questa soglia e nessuno di loro è mai ritornato!

Osiride mi è testimone che siete stati messi in guardia!»

 

Davvero strano. Peraltro, non c’erano neppure dei cartigli che indicassero chi potesse essere, il faraone lì sepolto, come se qualcuno avesse preferito mantenerne celata l’identità.

Il dottor Thompson scrollò le spalle, consapevole che le risposte sarebbero arrivate tutte quante un po’ per volta, s’infilò in tasca il taccuino e, detergendosi con un fazzoletto il sudore che gli imperlava la fronte sotto il casco coloniale, volse le spalle all’ingresso del sepolcro e risalì la scala intagliata nella pietra che i suoi spalatori avevano riportato integralmente alla luce.

Nonostante le apparenze - non un solo muscolo del suo volto impassibile s’era mosso sin dal momento della scoperta - smaniava dalla voglia di aprire la porta per vedere che cosa si nascondesse all’interno dell’antica camera sepolcrale; tuttavia, nel suo telegramma a Londra, aveva fatto solenne promessa al curatore, il professor Summerlee, che non avrebbe proseguito oltre nello scavo fino al suo arrivo, che sarebbe avvenuto alcuni giorni più tardi.

Uscito all’aperto, sotto il caldissimo sole di mezzogiorno, che faceva riflettere la distesa di sabbia e di roccia circostante come uno specchio e rilucere di mille sfavillii le verdi acque del Nilo poco lontano, decise di rientrare nella propria tenda, approfittando della forzata inattività per stendere una relazione dettagliata della sua scoperta, da presentare a Summerlee non appena fosse giunto in Egitto.

Lanciò una rapida occhiata al campo base, un insieme di tende bianche ed impolverate erette tutt’attorno alla tomba, che in quel momento appariva deserto, poiché tutti, archeologi e lavoratori locali, si erano rintanati nelle proprie tende od in quella più grande per il pranzo, poi gettò uno sguardo al maestoso tempio, ancora incapace di credere che potesse essere tutto vero e non, invece, un sogno ad occhi aperti. Alla fine, raggiunse la fresca penombra del suo alloggio, dove poté finalmente togliersi il copricapo e rimboccarsi le maniche della camicia.

Si versò un bicchiere d’acqua da una brocca e si mise a sedere di fronte alla macchina da scrivere, cercando di fare mente locale sul modo in cui iniziare a scrivere. Pensò che, forse, avrebbe fatto meglio a rileggere i propri appunti sul diario che teneva quotidianamente, prima di cominciare a battere la relazione. Afferrò il quaderno dalla superficie polverosa del tavolo pieghevole e, sfogliandolo, ritornò al momento in cui aveva descritto il proprio arrivo ad Alessandria, alcuni giorni addietro. Saltando alcune parti, ritrovò il punto in cui con la sua grafia sottile e sbilenca descriveva il momento in cui s’era imbattuto nell’uomo che gli aveva spalancato le porte a quella straordinaria scoperta…

 

La calca, nel suq, rendeva quasi impossibile riuscire a muoversi.

Qua e là, si levavano i profumi delle spezie più disparate, mentre tintinnii di metallo si udivano provenire dalla bancarella dove una donna dal capo velato stava valutando la robustezza di alcuni tegami di rame che intendeva acquistare. Nei pressi di una fontana, una giovane era invece intenta ad attingere dell’acqua da portare a casa. Ogni rumore, però, veniva rapidamente sommerso dal vociare della folla e dalle urla dei venditori che reclamizzavano le proprie mercanzie.

Thompson si domandò che cosa diavolo lo avesse mai spinto, quel pomeriggio, a visitare il mercato; dopo aver parlato con il governatore ed aver ricevuto il permesso di condurre scavi a Tebe, avrebbe decisamente fatto meglio a rientrarsene in albergo in attesa che il professor Summerlee lo invitasse ad intraprendere lui stesso le prime ricerche oppure a fare rientro in Inghilterra. Il dottore doveva ammettere che, questa seconda ipotesi, lo stuzzicava parecchio. Era stato un abile egittologo, in gioventù, e si era appassionato parecchio alle ricerche lungo tutta la Valle del Nilo; inoltre, era pure uno stimato conoscitore della lingua e della letteratura dell’antico Egitto, nessuno poteva negarlo e lui stesso non ne aveva mai fatto segreto. Ma, oramai, doveva ammettere di avere fatto il suo tempo, per quanto riguardava il lavoro sul campo. Dopo la laurea, a ventidue anni, era partito quasi immediatamente per la terra egiziana e vi aveva in pratica trascorso i successivi trentacinque anni, sposandosi con una donna del luogo, dalla quale aveva avuto la sua unica figlia, Margaret; in compagnia delle due donne, aveva condotto scavi, ricerche e studi in quasi ogni angolo dell’antica terra dei faraoni. Infine, quasi prossimo al compimento dei sessant’anni, con i capelli ormai bianchi, le mani ricoperte di calli e la pelle cotta dal sole e dal vento, era rientrato definitivamente in Inghilterra per riassumere tutte le sue scoperte e le sue conoscenze nella monumentale Enciclopedia ragionata dell’antichità egizia, un’opera in dieci volumi, alla quale da ormai oltre quindici anni stava lavorando quasi ininterrottamente, fermandosi unicamente per quelle occasioni in cui era invitato presso le principali università europee a tenere conferenze. Ne aveva già pubblicati quattro, di quei tomi corposi, e si accingeva a terminare di scrivere il quinto quando il professor Summerlee lo aveva contattato, chiedendogli di andare in missione in Egitto per conto del British Museum.

Inizialmente, il dottor Thompson era apparso titubante, di fronte a quella richiesta; aveva passato da circa un biennio i settant’anni, oramai, e non sapeva in quale maniera il suo vecchio organismo avrebbe reagito nel tornare ad esporsi al caldo del clima africano. Ma l’idea di rivedere per un’ultima volta l’Egitto, dopo quindici anni di lontananza, alla fine aveva prevalso, facendo breccia nel suo cuore. D’altronde, si sarebbe trattato solamente di una breve visita, una semplice formalità presso il governatore, quindi sarebbe potuto rientrare nella sua ariosa casetta del Sussex, con la vista sulla scogliera, per tornare a dedicarsi ai suoi libri; allontanarsi per qualche tempo dall’Inghilterra, inoltre, lo avrebbe forse un po’ distratto dal dolore provocatogli dalla recente perdita della moglie, sebbene non fosse sicuro che rivedere i luoghi in cui aveva vissuto tanto a lungo in sua compagnia si sarebbe potuta rivelare la scelta migliore per non pensarla. Comunque, non sarebbe stato solo, poiché lo avrebbero accompagnato i giovani nipoti John e Rachel, i due figli di Margaret, anch’essi ardentemente desiderosi di divenire egittologi come il nonno. E, allora, quale occasione migliore per iniziare la loro formazione, se non una visita all’Egitto stesso? Margaret s’era raccomandata parecchio, preoccupata che potesse accadere qualche cosa ai due figli, ma il ragazzo e la ragazza sarebbero stati al sicuro, in compagnia del nonno e, inoltre, erano ormai abbastanza grandi per saper badare perfettamente a se stessi.

«Diamine!» aveva esclamato il dottore per calmare la figlia. «John ha vent’anni, Rachel quasi diciannove ed io non ne avevo molti di più, quando partii per la prima volta verso l’Egitto, tutto solo. Inoltre, tu ci sei nata e ci hai passato la gran parte della tua vita, laggiù, e non ti è mai accaduto nulla di grave! Stai tranquilla, andrà tutto bene, non so nemmeno perché mi prenda la briga di cercare di rassicurarti.»

Margaret aveva finito con l’accettare, ammettendo che, molto probabilmente, le sue preoccupazioni dovevano essere legate al fatto di aver da poco perduto sia la madre sia il marito, sir Richard Wilson, caduto in guerra e decorato con medaglia d’oro al valor militare. Il vecchio studioso, allora, l’aveva tranquillizzata su tutto e, prima di partire, le aveva raccomandato caldamente di darsi da fare per procedere nella correzione delle parti scritte fino a quel momento del quinto volume della sua enciclopedia, in maniera che, al suo rientro, fosse tutto pronto per poter riprendere il lavoro dal punto in cui lo aveva interrotto.

Oltre alla nostalgia, a spingerlo ad accettare di fare ritorno in Egitto era stato l’orgoglio.

Il professor Summerlee, infatti, gli aveva spiegato di non potersi recare personalmente presso il Cairo a causa di alcuni impegni inderogabili e che, quindi, l’unica altra persona veramente autorevole per compiere quella missione, fra le tante presenti in Inghilterra in quel momento, fosse proprio il dottor Thompson; il quale, pertanto, sentendosi compiaciuto di venire riconosciuto tale dal curatore del British Museum in persona, non aveva atteso poi troppo tempo prima di comunicargli che si sarebbe recato personalmente e volentieri all’appuntamento con il governatore.

E, effettivamente, non aveva compiuto un viaggio a vuoto; con i nipoti, era giunto in nave ad Alessandria tre giorni prima e, da lì, aveva proseguito verso il Cairo. Rivedere quelle terre era stato un colpo al cuore, tanto che non si era sorpreso più di tanto nel scoprirsi a versare qualche lacrima; ma il caldo gli aveva anche tolto il respiro, facendolo boccheggiare. Tuttavia, l’entusiasmo dimostrato dai due ragazzi nel venire a contatto con quella terra incantata, gli aveva permesso subito di scordare le difficoltà ed aveva approfittato dell’attesa d’incontrare il governatore per condurli con sé al Museo di antichità egizie e mostrar loro le ricchezze lì contenute, tra le quali vi erano molti oggetti che lui stesso, in compagnia di moglie e figlia, aveva raccolto durante le tante campagne di scavi degli anni passati. Il terzo giorno, infine, era stato ricevuto dal governatore e, dopo solamente un’ora di colloquio, durante la quale i due uomini avevano quasi esclusivamente rievocato i tempi della loro giovinezza, quando entrambi si occupavano di ricerche archeologiche, Thompson aveva lasciato l’ufficio con in tasca la concessione, firmata e timbrata, per altri cinque anni di scavi presso Tebe.

Dopodiché, gli era sorta quella strana idea di rivedere un mercato arabo e, ora, avvicinatosi alla fontana per rinfrescarsi le mani e la faccia accaldate, si domandò da dove mai gli fosse sbucata; sbuffando, ammise che il suo vecchio corpo, dopo quindici anni d’ininterrotto clima fresco e piovoso inglese, stava facendo davvero molta fatica a riabituarsi alle temperature egiziane.

Il caldo era soffocante ed il sole brillava alto, implacabile sfera di fuoco bollente; Thompson sfilò l’elmetto coloniale per passarsi una mano sui capelli radi e bianchi e, in quel preciso momento, ebbe un giramento di testa e si accasciò al suolo. Alcune persone, tutt’attorno, cominciarono ad agitarsi nel vederlo crollare a terra, poi all’anziano dottore parve di udire una voce tuonare: «Portatelo in casa mia!» e si sentì afferrare da braccia robuste che lo sollevarono e lo condussero via.

Mezzo intontito, chiuse gli occhi e perse i sensi.

 

Il dottore fece una pausa nella lettura, ripensando a quei brutti momenti ormai passati; eppure, era stato proprio quello sgradevole incidente a dare avvio ad ogni altra cosa. Se, quel giorno, non si fosse recato al mercato, in effetti, non avrebbe mai saputo nulla e, in questo preciso momento, sarebbe forse già stato seduto al suo scrittoio, in Inghilterra, a continuare la stesura dei suoi volumi, di certo non intento a preparare la relazione di una scoperta incredibile. Riabbassò gli occhi sul diario, facendoli scorrere sulle parole ma in realtà senza leggerle, rivivendo ogni emozione nella propria memoria.

Quando Thompson riprese conoscenza, si ritrovò disteso sopra un soffice divanetto verde, all’interno di una stanza semibuia, rischiarata solamente dalla poca luce che riusciva a filtrare attraverso le imposte serrate contro la calura pomeridiana. Ancora scombussolato, si guardò attorno e notò, poco discosto, un uomo dalla fluente barba seduto con aria pensierosa sopra una poltrona, intento a trarre lente boccate di fumo di tabacco aromatizzato da un narghilè, trattenendole a lungo in bocca prima di rilasciarle. Il dottore provò a sollevarsi, facendo scivolare la garzetta inumidita che gli era stata posata sopra la fronte ma, in questo modo, ebbe un altro capogiro che lo costrinse a rimettersi sdraiato.

L’uomo seduto se ne accorse e, lasciato il suo shisha, si alzò e lo raggiunse, prorompendo con il suo vocione da toro: «Rimani giù, vecchio pazzo!»

Thompson guardò lo sconosciuto e, all’improvviso, lo riconobbe. Sebbene fosse invecchiato e si fosse lasciato crescere una barba lunghissima, ormai ingrigita, quello era certamente Abdul, il suo energico cognato, il fratello minore della sua defunta moglie Fatma; mercante scaltro e furbo, aveva in alcune occasioni collaborato con Thompson e la sorella durante alcuni scavi archeologici, per lo più alla ricerca di qualche pezzo da poter rivendere ai collezionisti.

«Abdul…» mormorò il dottore, provando per la seconda a rialzarsi.

«Ti ho detto di stare giù!» mugghiò ancora l’omone, ponendogli una grossa mano sul petto per tenerlo bloccato. «Pazzo inglese, metterti a camminare sotto il sole del primo pomeriggio alla tua età e toglierti il cappello a quel modo! Ringrazia Allah che ti avevo visto passare e che ti stavo cercando di raggiungere, altrimenti saresti ancora là a cuocerti lentamente in mezzo alla piazza.»

«Ti sono debitore della vita, cognato» bisbigliò allora il dottor Thompson, con un filo di voce. «Se non fosse stato per il tuo intervento…»

«Se non fosse stato per me, adesso staresti già tenendo compagnia a mia sorella in paradiso» ruggì l’arabo, chinando poi il capo nel ricordo di Fatma. «Bah. Ecco, bevi questo, ti farà bene.»

Con una delle sue manone, afferrò da un tavolino una brocca che conteneva un decotto di erbe raffreddato e lo versò in un bicchiere, passandolo poi all’egittologo.

«Così» disse. «Piano, un sorso alla volta.»

Quando il cognato ebbe terminato di sorbire la tisana, Abdul domandò: «Che diamine ci facevi sotto il sole a quell’ora? Sei impazzito? Dopo tutti questi anni trascorsi nel freddo dell’Inghilterra, avresti potuto lasciarci la pelle.»

«Stavo venendo via dal palazzo del governatore» tentò di spiegare Thompson, ma l’altro l’interruppe, anticipandolo: «Questo lo so bene pure io, quando i miei figli ti hanno deposto sul divano ti è caduto di tasca questo foglio - mostrò in una mano la concessione di scavo - ma quello che vorrei sapere è perché tu sia andato al mercato, invece di rientrartene in albergo a riposare, come dovrebbero fare tutti i vecchi della tua età.»

«Non saprei» replicò l’archeologo. «Sai, ci andavo sempre, con la mia povera Fatma, ed è stato lì che ci siamo conosciuti. Ero in Egitto da un paio di mesi, dovevo acquistare le provviste per il campo base e vidi questa ragazzina che faticava a portare delle grosse ceste. Allora, mi offrii di aiutarla… forse, inconsciamente, volevo rivivere quei momenti.»

«L’unica cosa che hai rischiato di vivere è il tuo funerale» brontolò Abdul. «Dovevi proprio venirci tu, in Egitto, a farti dare i permessi, vecchio? Mi risulta che tu sia andato in pensione.»

«Ero l’unico che potesse e, poi, John e Rachel desideravano vedere queste terre, quindi li ho portati con me.»

L’omone sembrò illuminarsi e la barba gli fremette.

«I bambini di Margaret? E ora, dove sono? Avrei voglia di rivederli, quei piccoletti.»

«Erano bambini quando tu li vedesti nel tuo unico viaggio in Inghilterra» precisò il dottore. «Ormai, hanno entrambi quasi vent’anni. Si sono recati sulla piana di Giza ad ammirare le piramidi e la Sfinge. Vorrebbero ripercorrere i passi di loro nonno.»

«Speriamo che non diventino altrettanto pazzi!» mugghiò il prozio dei due aspiranti egittologi. «Comunque, sono felice di rivederti, vecchio. Pensa che volevo scriverti io stesso di venire a trovarmi in Egitto. Sai, ho trovato una cosa e tu sei l’unico a cui sarei disposto a mostrarla.»

Stuzzicato nella sua curiosità e rinfrancato dalla bevanda ingerita, Thompson, questa volta, riuscì a sollevarsi un poco e ad appoggiarsi ad un gomito.

«Di che cosa si tratta?» domandò.

«Adesso te la mostro» rispose l’altro, avvicinando una seggiola al divano e mettendosi a sedere. «Sai, non ho mai smesso di interessarmi alle antichità, dopo la partenza tua e di Fatma e, quindi, ho continuato a svolgere qualche piccola ricerca qua e là. Certo, ormai scavare non è più come una volta, ci vorranno permessi bollati anche solo per andare al gabinetto, di questo passo, ma qualche cosa sono riuscito a trovare egualmente. Nulla d’importante, s’intende; per la maggiore, specie al confine con la Palestina, ho rinvenuto numerosi scarabei di pietra. Solitamente, sono così rovinati che non so che farmene, dato che i turisti non li compererebbero mai, quindi li porto al Museo; per i viaggiatori, mi faccio costruire da un abile artigiano alcune belle riproduzioni.»

«Ci mancherebbe solo che ti mettessi a vendere antichità!» protestò Thompson, inorridendo al solo pensiero.

«Come se non lo avessi mai fatto» replicò Abdul senza alcun rimorso. «Non t’immagini neppure quanta roba sia riuscito a sgraffignarti da sotto il naso, quando scavavamo insieme.»

«Non voglio neppure provarci, ad immaginarmelo. Vai avanti.»

«Be’, negli ultimi anni non scavo più molto. L’età comincia a farsi sentire non solo per te, vecchio. Ma non sono ancora ridotto male come qualche relitto londinese e, di quando in quando, mi faccio ancora un viaggetto lungo il Nilo. Così, un paio di mesi or sono, mi sono imbattuto nella possibilità di dissotterrare l’ingresso di una sepoltura sconosciuta.»

«Una sepoltura!» esclamò il dottor Thompson.

«Una sepoltura intatta, molto probabilmente di un faraone» precisò il cognato.

A Thompson parve quasi di sentirsi nuovamente svenire e fu costretto a rimettersi sdraiato completamente. Una tumulazione faraonica mai violata prima sarebbe stata una scoperta enorme, poiché era risaputo che, le antiche tombe, erano solite contenere immense ricchezze, nella gran parte dei casi, purtroppo, già saccheggiate in tempi remoti; erano molto poche quelle che, nel corso dei secoli, erano riuscite a superare indenni le visite dei ladri. Tuttavia, doveva andarci con i piedi di piombo, poiché non ne sapeva nulla.

«Da che cosa lo deduci?» domandò ad Abdul. «Hai le prove di quanto mi stai dicendo? E dove l’avresti individuata?»

«Dove? Ad Abu Simbel. E le prove te le mostro subito.»

Thompson pensò che al cognato avesse dato di volta il cervello.

Lo guardò alzarsi e lasciare la stanza e, appena fu rientrato, disse: «Non ci sono tombe, ad Abu Simbel. Lì sorgono i templi fatti erigere da Ramses II; e non sono templi funerari. Da dove l’hai presa, questa congettura strampalata?»

«Non è una mia congettura e, soprattutto, non è strampalata: guarda qui» replicò Abdul, passandogli un delicato foglio di papiro.

Il dottore lo prese con cautela tra le mani, accorgendosi immediatamente che si trattava di un frammento antichissimo. Lo esanimò e si rese conto che era scritto in ieratico, una scrittura antica che, in qualche maniera, poteva essere considerata la versione corsiva dei geroglifici. Alla scarsa luce della stanza, tuttavia, non gli riuscì di decifrarlo.

«Di che cosa si tratta?» domandò, certo che Abdul gli avrebbe saputo fornire una risposta.

«L’ho avuto da un vecchio, il capo di una famiglia di tombaroli che, fino a non molti anni or sono, s’introducevano di nascosto nelle tombe per trafugarne qualche tesoro» spiegò l’arabo. «Questo frammento, che dovrebbe appartenere al Nuovo Regno, probabilmente al periodo della ventesima dinastia, proveniva da un luogo di cui il tombarolo s’è ben guardato di rivelarmi l’ubicazione, quasi sicuramente dall’archivio di qualche tempio, però. L’ho tradotto io stesso: come vedi, non ho dimenticato i tuoi insegnamenti, vecchio. Si tratta del pezzo di un rapporto giudiziario riguardante lo stato di conservazione di alcune tombe. È interessante soprattutto il fatto che si faccia riferimento alla tomba regale, rimasta del tutto intatta, presso il tempio di Per-Ramesses-Miamon. Ti dice nulla, questo nome?»

«È l’antico nome del tempio maggiore di Abu Simbel» rispose subito l’egittologo, senza celare il proprio tono dubbioso. «Ne sei certo?»

«Come del fatto che alla notte faccia sempre seguito il giorno. E, in ogni caso, se non ti fidi delle mie capacità di storico, puoi sempre tradurlo tu stesso» rispose Abdul.

«Va bene, va bene… poniamo che sia davvero come dici tu» ammise Thompson. «Che cosa ti farebbe pensare che la tomba sia ancora intatta? Sono trascorsi migliaia di anni da quando questo rapporto venne messo per iscritto.»

«Be’, non mi risulta che si abbiano mai avuto notizie di una tomba, sotto Abu Simbel. Inoltre, proprio ai tempi della ventesima dinastia, Abu Simbel cominciò ad uscire dall’influenza egizia, il che avrebbe potuto comportare la caduta nell’oblio di questa tomba. O mi sbaglio?»

Thompson scosse la testa.

«No, non ti sbagli. Ma da qui ad affermare che là sotto ci sia una sepoltura faraonica del tutto intatta… converrai con me che ce ne corre.»

«Al di là del fatto che possa essere o meno già stata svuotata dai ladri, non ti interesserebbe metterti all’opera su di essa? Sono sicuro che il governatore non avrebbe alcun problema a darti il permesso di fare una ricerca anche laggiù. Nessuno negherebbe un permesso proprio a te, neppure se dicessi di volerti mettere a scavare sulla luna alla ricerca di un obelisco.»

Thompson si vide costretto a dare mentalmente ragione al cognato, poiché era più che consapevole di aver sviluppato una grande fama, come egittologo; tuttavia, non avrebbe potuto iniziare una ricerca ad Abu Simbel sulla base di un solo frammento di papiro che, ad una più attenta analisi, si sarebbe anche potuto rivelare un falso: se non avesse trovato nulla, avrebbe rischiato di divenire lo zimbello di tutti gli altri studiosi. No, non sarebbe mai riuscito, alla sua età, a raccogliere sufficiente coraggio per correre il pericolo di infangare, con un’unica azione avventata, una chiara e solida reputazione accademica, faticosamente costruita in decenni di studi seri e fruttuosi.

«No, Abdul, mi dispiace» disse, quindi. «Non credo di poterlo fare. Peraltro, sono ormai troppo avanti con gli anni per rimettermi a scavare.»

«Bah, non ti riconosco proprio più, vecchio» borbottò l’arabo. «Un tempo ti saresti buttato a capofitto nell’avventura, senza neppure pensarci.»

«Quand’ero giovane, sapevo benissimo di avere dinnanzi a me tutta la vita, per poter rimediare ad un eventuale errore» spiegò lo studioso. «Ormai, invece, non mi restano davanti che pochi anni, senza nemmeno sapere se saranno sufficienti a finire di scrivere e di pubblicare i miei libri. Se facessi adesso una figuraccia, me la porterei fin nella tomba, senza alcuna possibilità di porvi rimedio.»

A quel punto, Abdul si alzò in piedi, facendo scricchiolare la sedia nel momento in cui la liberò dalla sua enorme massa.

«Forse hai ragione, vecchio relitto mummificato. Il sole ti fa molto male, lo abbiamo visto oggi. Credo che, prima te ne ritornerai in Inghilterra, meglio sarà. Adesso, cerca di dormire per un po’. Vedrai che, dopo un buon sonno ristoratore, ti sarai ripreso completamente.»

Il cognato fece un leggero inchino, quindi uscì dalla stanza avvolta dalla semioscurità.

 

Nella sua tenda, Thompson sollevò gli occhi dal diario, fissando la parete di cotone di fronte a sé, sorridendo sotto i baffi bianchi; ripensò al cognato ed al modo escogitato per riuscire ad incastrarlo senza possibilità di tornare indietro.

Dopo averlo lasciato a dormire, infatti, Abdul non s’era ritirato in un altro punto della casa, bensì era corso nel cortile e, messa in moto la propria motocicletta Triumph, un residuato bellico della recente Grande Guerra, era partito scoppiettando verso la piana di Giza, certo che vi avrebbe trovato i due nipoti John e Rachel. E, così, in effetti, era stato. I due ragazzi, pur non avendolo più visto da quando erano ancora piccoli, riconobbero immediatamente in quell’omone barbuto il fratello della loro nonna materna e gli prestarono molta attenzione quando raccontò loro della brutta disavventura accaduta al nonno; dopo averli pienamente rassicurati sulle condizioni di salute di Thompson, li aveva condotti all’interno della piramide di Chefren, mostrando loro, alla luce incerta di una candela, una grande scritta in caratteri latini sopra una delle pareti.

«Sapete che cosa ci sia scritto, su quel muro?» aveva domandato loro.

Era stata la ragazza la prima a rispondere. Rachel, infatti, aveva studiato molte lingue, a scuola.

«È una frase scritta in lingua italiana!» esclamò. «Scoperta da G. Belzoni, 2 marzo 1818.»

«E voi lo sapete chi mai fosse, questo signor Belzoni?» li aveva, allora, interrogati lo zio.

I due ragazzi avevano scosso la testa, quindi l’arabo aveva spiegato loro che si trattava di uno dei primi egittologi, un uomo di forza erculea che, grazie alla propria tenacia, aveva compiuto imprese da altri ritenute impossibili.

«Fra le altre cose, fu lui il primo ad entrare nel tempio maggiore di Abu Simbel, liberandone parte della facciata e l’ingresso dalla sabbia che li ostruiva da millenni. Avete presente, vero, a quale tempio io stia facendo riferimento?»

«Certo!» aveva risposto subito John. «Il grande tempio fatto costruire da Ramses II, durante il Nuovo Regno, per commemorare la battaglia di Qadesh, quello sulla cui facciata si trovano le sue colossali statue!»

«Esattamente. E cosa pensereste, se io vi raccontassi che…?»

A quel punto, Abdul aveva narrato loro di quanto appreso dalla decifrazione dell’antico papiro che già aveva mostrato a Thompson e della concreta possibilità d’imbattersi in una tomba nascosta proprio sotto il tempio in questione; i due ragazzi, ovviamente, si erano fatti immediatamente cogliere dall’entusiasmo e dalla smania di poter essere loro i primi a penetrare in quel mausoleo dimenticato, in quell’eterna dimora del sonno di un faraone, per carpirne gli antichi segreti.

Lo zio, pertanto, li aveva caricati sulla motocicletta e subito condotti nella propria casa del Cairo, facendoli entrare nella stanza in cui Thompson, proprio in quell’esatto momento, si stava risvegliando, ormai del tutto ristabilito. Ovviamente, l’anziano egittologo, posto di fronte alle insistenze dei due nipoti, aveva cercato di opporre qualche resistenza, ma in maniera così debole che, alla fine, aveva finito col cedere e l’accettare.

Da quel momento in avanti, quindi, era stato un susseguirsi di eventi rapidi e concatenati.

Inviato un telegramma a Londra, Thompson aveva ricevuto da un’entusiasta Summerlee un via libera ad iniziare le primi indagini, via libera che si era definitivamente concretizzato nel nuovo permesso firmato dal governatore; quindi, reclutati alcuni scavatori locali ed altri quattro egittologi, presenti in quel momento al Cairo e da subito rivelatisi profondamente attratti dalla possibilità di una scoperta, ossia il dottor Philippe Fournier del Louvre di Parigi, il professor Bernardo Libone del Museo Egizio di Torino, il dottor Jeremy Smith del Metropolitan Museum di New York ed il professor Mazen al-Farooq del Museo del Cairo, e noleggiata un’imbarcazione per fare rotta lungo il Nilo, con a bordo tutto l’occorrente per gli scavi e l’apprestamento del campo base, la spedizione era partita verso il sud, alla volta di Abu Simbel.

Individuare il punto esatto in cui scavare, per Thompson, non era stato difficile; anni ed anni di esperienza, uniti alla convinzione che, proprio lì, potesse esserci una tomba, lo avevano indirizzato verso un luogo esatto, a qualche decina di metri dalla facciata del tempio maggiore. E non si era sbagliato, infatti: i suoi scavatori, lavorando duramente sotto il sole cocente, erano riusciti in brevissimo tempo a liberare prima uno, poi due gradini, infine l’intera scalinata che conduceva all’ingresso ancora murato della tomba. Questo fatto, aveva donato a tutto il gruppo di archeologi grandi speranze sul poter entrare in una sepoltura mai profanata in precedenza; ma la trepidazione andava calmata, in attesa che tutti fossero presenti e pronto a mettersi all’opera.

Adesso, pertanto, non rimaneva altro da fare che pazientare, attendendo l’arrivo del professor Summerlee da Londra, prima di poter finalmente procedere tutti insieme all’apertura dell’antica e misteriosa tomba per rivelarne tutti gli enigmatici arcani. L’attesa sarebbe stata lunga e snervante, per quegli uomini, consapevoli di trovarsi in prossimità di una grandiosa scoperta; ma il dottor Thompson aveva dato al curatore del British Museum la propria parola e non se la sarebbe mai rimangiata.

 
   
 
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