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Autore: Spoocky    28/12/2022    1 recensioni
Post "Verso Mauritius". Tom Pullings rimane ferito in uno scontro a fuoco e questo suscita reazioni diverse in Jack e Stephen.
Partecipa all'Advent Calendar del Gruppo Hurt/Comfort - Fanart & Fanfiction.
Genere: Guerra, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: i personaggi appartengono agli aventi diritto, non certo a me, che vorrei solo rendere un modesto omaggio al mio autore preferito.
Anche se so che questo susciterà l'ira funesta di un certo qual tal Comitato che già sento appropinquarsi minacciosamente.


Buona lettura ^^
 
Il cielo era sereno ed un sostenuto vento di Ponente gonfiava le vele della Boadicea, sospingendola verso casa. Al termine della campagna delle Mauritius, Jack Aubrey ed il suo equipaggio erano ansiosi di rientrare in Patria. Chi per godere della generosa paga, chi per rivedere la famiglia, come lo stesso Jack, reintegrato nel grado di capitano dopo lo scioglimento della sua squadra.
Aubrey era addirittura impaziente di arrivare a casa, cosa, per lui, del tutto inusuale. 
Il motivo di tanta eccitazione era il figlio maschio che non aveva ancora conosciuto, essendo nato durante la campagna. Era tanto entusiasta di questo nuovo, sconosciuto, membro della famiglia che ne stava conversando con il tenente Thomas Pullings, presente a bordo in veste di passeggero, mentre passeggiavano sul lato sopravvento del cassero.
Il suo ruolo di capitano della Emma aveva permesso a Pullings di assistere Jack durante la battaglia, permettendogli di raggiungere la vittoria. Un gesto sgradito alla Compagnia delle Indie Orientali, che - pur premiandolo con un aumento della paga da ritirare al suo rientro in Inghilterra - gli aveva tolto nave e comando, costringendolo a chiedere un passaggio al suo superiore, che lo aveva accolto a braccia aperte e gli aveva offerto un alloggio in cambio di aiuto con i turni di guardia e come aiuto nocchiero. 
Il giovane ufficiale gli stava parlando con grande calore del suo piccolo John. Con infinita pazienza, rispondeva alle domande del suo capitano anche, pur con la consueta ritrosia, a quelle concernenti i lati più sgradevoli della paternità. A onor del vero, Jack era già padre di due gemelle ma pensava che, essendo il nuovo arrivato un maschio, la cura del neonato fosse diversa. A dirla tutta, non era competente in fatto di cure neonatali a prescindere dal sesso dell’infante e cadeva dalle nubi ad ogni risposta del tenente.
Camminarono avanti e indietro finché la vedetta sulle crocette dell’albero di maestra gridò: “Vela! Tre quarte a sinistra!”

Jack riuscì a malapena a voltarsi che già Pullings si stava arrampicando sulle sartie per andare a riva. Nel giro di un minuto era già arrivato in cima ed aveva estratto il cannocchiale.
“E’ una fregata olandese, signore!” ruggì dalle ventose altezze “Non sembra una nave da guerra e nemmeno un mercantile.”
Scese quasi più veloce di com’era salito e, una volta atterrato sul ponte, accorse sul cassero per raggiungere Aubrey e gli altri ufficiali.
Jack si era già inerpicato sulla balaustra del cassero e stava osservando il vascello con il cannocchiale. Non impiegò molto per farsi un’idea di cosa si trattasse: “Gli olandesi non incrociano le nostre rotte senza motivo e ha spiegato anche i fazzoletti. Da come ci viene addosso non ha intenzioni pacifiche. Potrebbe essere una corsara, per quanto ne sappiamo.” Ripose il cannocchiale ed indossò la feluca, di traverso, nello stile di Nelson, e ordinò “Battere la generale! Tutti ai posti di combattimento!”
Prese da parte Tom, che gli sembrava smarrito, non avendo un posto preciso in cui essere: “Signor Pullings, scendete di sotto e fatevi assegnare una squadra. Abbiamo bisogno di tutti gli uomini abili.”
“Sì, signore.” Rispose il giovane, e salutò, prima di correre sottocoperta.
 


La fregata olandese si rivelò, a tutti gli effetti, una corsara.
Nonostante la Boadicea fosse più grande e meglio armata, tentò di sfruttare il vento per porsi in vantaggio su di essa. Fu avvantaggiata da un improvviso giro d’aria che le permise di portarsi sopravvento e dare inizio con la prima bordata ad uno scontro altrimenti evitabile.
La Boadicea terzarolò per affiancarla, altrimenti la sua velatura più ampia l’avrebbe lasciata esposta di poppa. 
Jack aveva speso di tasca propria una piccola fortuna per procurare della polvere per far esercitare le squadre ai cannoni. Esercitazioni che in quel frangente diedero il loro frutto, con le batterie della Boadicea che superavano in velocità e precisione quelle della corsara olandese.
Un’avversaria piccola ma tenace, e Jack, che doveva la sua fortuna ad un’azione parimenti coraggiosa, si trovò ad ammirare l’abilità del comandante olandese e la sua forza di volontà.

Il ponte di batteria, sopraelevato rispetto a quella della fregata, era protetto da un piede di solida quercia, ma i colpi che arrivavano a destinazione iniziavano a fare danni. Schegge di legno, affilate come coltelli e rapide come proiettili schizzavano ovunque.
Gli uomini si destreggiavano agili tra i cannoni roventi, rispondendo rapidi ai comandi decisi degli ufficiali, seguendo l’assetto ormai rodato dalle esercitazioni. Un ingranaggio preciso e ben oliato in cui anche Pullings, forte della propria esperienza, si era inserito senza problemi.
Era proprio nel mezzo del dare un ordine, con il braccio destro teso ad indicare la direzione alla sua squadra, quando percepì un urto violento al torace. Sobbalzò all’indietro ma l’onda d’urto non fu abbastanza potente da farlo cadere. Riuscì a fare fuoco egli stesso, ottenendo di fare un grosso danno alla prua dell’olandese.
Poi, però, la testa gli si fece di colpo leggera e la vista s’appannò. 
Vacillò sulle ginocchia, ma qualcuno l’afferrò prima che potesse cadere. Sentì qualcosa di bagnato e appiccicoso. Abbassando lo sguardo vide il panciotto e i pantaloni intrisi di sangue. 
Fu allora che si rese conto di avere un dolore sordo al petto e alla schiena, e di provare molto freddo. 
Una nebbia fitta e densa gli calò sugli occhi. Sentì le ginocchia piegarsi e delle voci concitate.
Poi più nulla.
 

 
L’infermeria era, data l’imparità dello scontro, molto più vuota di come sarebbe stata in circostanze diverse. Stephen aveva avuto il suo bel carico di lavoro, ma nulla di troppo serio. Contusioni, lacerazioni, e qualche frattura. 
Sentì due voci poderose chiamarlo: “Dottore! Dottore!”
Si voltò di scatto e vide due marinai che portavano un corpo inerte. Gli si strinse lo stomaco quando vide la giacca blu, anche se il corpo era troppo magro per essere Jack.
“Posatelo qui.” Ordinò, sforzandosi di tenere la voce ferma, mentre indicava il tavolo operatorio.
I due adagiarono il ferito con una delicatezza quasi reverenziale e Stephen fu investito da un moto di tristezza quando riconobbe il volto pallido di Tom Pullings.
Con un gesto della mano allontanò i due marinai e si chinò su di lui.
Le sue dita agili sciolsero rapide il nodo della cravatta e passarono a slacciare i bottoni del panciotto, che aprì quasi senza guardare, già impegnato a tastare il suo corpo in cerca della fonte di quell’emorragia tanto copiosa da tingere di rosso scuro l’intera camicia, ormai fradicia.
Senza farsi ostacolare dal pudore, slacciò i pantaloni del tenente e glieli abbassò fino alle ginocchia. Alzò i lembi della camicia, trovando resistenza dove si era incollata alla carne. 
La strappò via e, non suscitando alcuna reazione, sollevò lo sguardo verso il suo volto: i lineamenti erano distesi, ma la pelle esangue era coperta da una patina di sudore algido. Respirava, ma, con ogni atto respiratorio, un nuovo fiotto di sangue usciva da una lacerazione sul lato destro dell’addome, vicino al costato. 
Gli assistenti finirono di spogliarlo e, mentre finiva di preparare gli strumenti, gli applicarono le manette imbottite per legarlo al tavolo. Una precauzione necessaria, anche se il giovane era incosciente, per compensare il rollio della nave. Un assistente ebbe la premura di posargli un asciugamano piegato sotto la nuca e d’infilargli tra i denti il morsetto di cuoio. 
Stephen indossò il lungo grembiule di cuoio e rimboccò le maniche della camicia al gomito. Allungò i labbri della ferita con il bisturi. “Divaricatore.” Agganciò i denti dello strumento ai margini della ferita e li allargò il più possibile.
Era una ferita profonda, qualsiasi corpo estraneo l’avesse causata era penetrato oltre l’addominale obliquo. Inserendo lo specillo, s’accorse che anche il trasverso era danneggiato. Gli parve di vedere qualcosa di scuro, ma un fiotto di sangue gli coprì la visuale. Tom stava perdendo troppo sangue, in troppo poco tempo. 
Dovette rinunciare ad estrarre qualunque cosa fosse e concentrarsi sull’origine del sanguinamento. Riuscì a trovare i vasi sanguigni e ricucirli con filo di refe ma, ormai, il giovane aveva perso circa due pinte di sangue.
 


“Come sta, fratello?”
Stephen chiuse con delicatezza la porta della cabina di Pullings: “E’ una brutta ferita. Qualunque cosa l’abbia colpito è andata troppo in profondità. Prima che riuscissi ad estrarla aveva già perso molto sangue. Non ho potuto continuare, l’avrei ucciso.”
Jack gli pose una mano sulla spalla e la strinse: “Non è colpa tua. Sono certo che tu abbia fatto tutto il possibile. Pensi di riprovare?”
Stephen strinse le labbra, e si sfilò gli occhiali per stropicciarsi gli occhi: “Non nell’immediato. Ha perso troppo sangue: due pinte solo sul tavolo operatorio. E’ meglio lasciarlo riposare qualche giorno e dargli il tempo di riprendersi.” Esitò un momento prima di proseguire, con la voce ridotta ad un sussurro “Devo essere onesto con te, fratello: rischia di non passare la notte.”
Il volto di Jack, già teso, s’incupì ancora di più e parve soffermarsi a riflettere, prima di chiedere, con una punta d’esitazione: “Posso vederlo?”
Con un cenno del capo, Stephen si fece da parte, lasciandogli libero l’accesso all’alloggio del giovane.

La cabina era già piccola di suo ma, alla fioca luce di una lampada, sembrava ancora più angusta. Lo scrittoio era stato riposto in modo da occupare meno spazio possibile, i libri e gli strumenti nautici, trattenuti sugli scaffali dalle reti di cima, erano riposti con cura per fare spazio agli strumenti del dottore. Rotoli di bende pulite, garze, ampolle di medicinali e il necessario per la cura del ferito erano sparpagliati su ogni superficie a portata di mano, seguendo il caotico senso dell’ordine di Stephen.
Pullings giaceva composto nella sua branda.
Bonden e Killick, che avevano voluto metterlo a letto di persona, gli avevano infilato la camicia da notte, ma l’avevano allacciata senza stringerla, perché potesse respirare con più agio. In tal modo, le garze che gli avvolgevano il torace, trasparivano appena sotto il lino leggero. Gli avevano rimboccato le coperte sul petto e accomodato le braccia nella posizione più naturale possibile, sicché pareva stesse dormendo, anziché essere incosciente per la ferita.
Il respiro era lento e regolare, si sentiva appena. Il volto era pallido e scavato, gli occhi infossati e cerchiati di scuro. 
Jack gli si avvicinò con cautela, consapevole della delicatezza delle sue condizioni. Giunto al suo capezzale, gli prese la mano che teneva distesa lungo il fianco, senza sollevarla dalla coperta. 
“Ha le mani gelate.” Disse, ancora prima di rendersene conto mentre, senza volerlo, la strofinava per scaldarla. 
“Lo so, fratello.” Gli rispose Stephen, da dove stava poggiato contro lo stipite della porta “E’ l’emorragia, come ti avevo detto. Capisci, ora, perché non potevo continuare?” Per quanto si sforzasse di tenere la voce ferma, Aubrey riconobbe la preoccupazione nel suo tono.
Si limitò ad annuire con un lieve cenno del capo, senza smettere di cercare d’infondere calore nella mano del giovane ufficiale.

Pullings era stanco. Terribilmente stanco.
Una spossatezza totale ed incontrastabile gli si era fatta strada fin nelle ossa. Si sentiva la testa leggera, come se stesse galleggiando sul pelo dell’acqua, al limite della vertigine ma il solo pensiero di sollevare una mano gli sembrava uno sforzo insostenibile. I rumori quotidiani della nave, persino il consueto rollio, gli giungevano distanti, ottenebrati da una spessa coltre di nebbia. A pelle, sentiva di essere coperto e avvolto in qualcosa di caldo, ma sentiva un freddo penetrante da cui nulla sembrava poterlo riparare. Ad ogni respiro sentiva una stilettata di dolore lancinante che gli impediva d’inspirare a fondo. Sentiva il ventre rigido e un dolore sordo, costante, gli pulsava sotto la pelle, dove si sentiva costretto da un bendaggio.
Non aveva nemmeno la forza di alzare la testa ma aveva la netta impressione che ci fosse qualcuno accanto a lui. Si sentiva tanto stanco da non riuscire a muoversi ma tentò, nonostante la fatica, di aprire gli occhi. 
Le palpebre erano pesanti e gli occhi erano pieni di lacrime, sicché vedeva tutto annebbiato, ma riconobbe la figura dell’uomo al suo capezzale. Era tutto sfocato, come se davvero fosse sott’acqua. Non aveva ancora aperto del tutto gli occhi e già si sentiva mancare.
“Signore.” Riuscì a sussurrare, con un filo di voce, prima che le palpebre ricadessero sui suoi occhi stanchi. 
Jack si chinò su di lui, poggiando la mano con cui non teneva la sua sul cuscino accanto alla sua testa: “Come vi sentite, Tom?”
Pullings schiuse le labbra e, per un istante, parve sul punto di voler dire qualcosa. Emise solo un debole sospiro, però, prima di essere di nuovo sopraffatto dalla spossatezza.
Jack gli carezzò i capelli con il palmo e gli rassettò le coperte sul petto.
Nell’uscire, si soffermò accanto a Stephen e gli disse all’orecchio: “Faremo rotta sul più vicino fazzoletto di terra.”
 


Nei giorni seguenti, Jack tornò spesso a far visita al suo ufficiale ferito. 
Il giovane, però, non riprese mai del tutto conoscenza. 
Giaceva immobile nel suo lettuccio, pallido come un cencio e con gli occhi chiusi. Stephen, che lo vegliava giorno e notte, riusciva a destarlo quel poco che bastava a somministrargli le medicine o dargli qualcosa da mangiare. Il resto del tempo dormiva, stremato dalla forte emorragia e dalla febbre che nel frattempo era sopraggiunta. Quando gli tergevano il viso o gli umettavano le labbra con la pezzuola umida, socchiudeva le palpebre o dava un lieve gemito ma nulla di più.

Il terzo giorno dopo la battaglia, verso i sei colpi della guardia del pomeriggio, Stephen era assorto nella lettura del proprio diario, che teneva aperto sulle ginocchia. Stava rimuginando su degli appunti da spedire a Sir Joseph, quando si sentì chiamare da una voce flebile. 
Subito ripose il suo scritto e si chinò sul suo paziente. Aveva gli occhi semiaperti, piccoli e lucidi di febbre, ma lo sguardo presente, anche se non del tutto vigile. 
Stephen gli passò l’impacco sulla fronte e gli prese una mano, per aiutarlo a concentrarsi su di lui. Con evidente fatica, la voce appena udibile, il giovane gli chiese: “Cos’è successo?”
“Siete rimasto ferito nello scontro, mio caro. La ferita vi ha causato una forte emorragia, per questo vi sentite debole. Ma non preoccupatevi: starete meglio presto.” Non ebbe il cuore di dirgli che, qualunque cosa avesse provocato la ferita, era ancora intrappolata nelle carni e che avrebbe dovuto riaprirlo per estrarla. Era già molto provato.
Per sua fortuna, il giovane non aveva le forze per concentrarsi su quei dettagli. Si limitò a chiedere cosa ne fosse stato della corsara olandese.
Stephen gli scostò con la punta delle dita alcune ciocche di capelli dal viso e gli sorrise: “Il nostro capitano ha un’altra preda da aggiungere alla sua collezione.”
“Ah. Bene.” Annuì Pullings, con le ultime forze “Bene.”
Ricadde con il capo sul cuscino, sprofondando nel torpore, mentre Stephen finiva di pettinarlo con qualche carezza.
Ai sei colpi della seconda comandata, avvistarono la terraferma.
 


Alle prime luci dell’alba, Jack scavalcò la paratia di sinistra e scese la scaletta che gli permise di salire a bordo della iole. Barrett Bonden, alla barra del timone, lo salutò con le nocche alla tempia, imitato dal resto dell’equipaggio. Jack ricambiò il saluto con un cenno del capo e si mise la feluca in grembo, accomodandosi di lato per non intralciare Stephen che, armato di orologio, monitorava il polso di Pullings. Il giovane, pallidissimo, era disteso su una lettiga in tela da vele, avvolto con cura in tutte le coperte su cui Killick era riuscito a mettere le mani.
Non riusciva a staccare gli occhi dalla scena: Pullings non dava cenno di vita, respirava appena, ma Stephen restava tranquillo al suo fianco, come se la preoccupazione per le condizioni del suo paziente non lo sfiorasse neppure. 
Quando Aubrey gli aveva chiesto conto del suo atteggiamento, Stephen gli aveva rivolto un mezzo sorriso e una frase in latino, di cui aveva recepito con sicurezza solo la parola “pazienza”. 
Non era rimasto del tutto convinto di quella risposta, e continuava a rimuginarci sopra senza, tuttavia, trovare una risoluzione.
 


In poche ore, gli uomini avevano allestito un accampamento in miniatura e disposto un perimetro di sentinelle al centro del quale si trovava la tenda che avrebbe ospitato il tavolo operatorio di Stephen. 
Le tradizionali casse da marinaio, ricoperte in tela da vele numero otto, erano state preparate subito. Gli assistenti stavano finendo di sistemare le catene imbottite che vi avrebbero trattenuto il paziente quando Stephen vi fece il suo ingresso, seguito da Joe Plaice e Barrett Bonden che trasportavano la barella.
Jack si soffermò sulla soglia con la feluca ancora sottobraccio. 
Rimase a guardare mentre gli uomini adagiavano Pullings sul tavolo del chirurgo, manovrandolo con delicatezza insolita ma con la consueta precisione marinaresca. Lo legarono con le catene, più per abitudine che per effettiva necessità, dato che così incosciente non si sarebbe forse reso conto di nulla, ma senza scoprirlo più del necessario. Rimase finché Stephen, che aveva indossato il grembiule, scostò le coltri per scoprirgli il ventre e cominciò a sciogliere la medicazione, ormai macchiata di sangue. 
Allora se ne andò, richiudendo il lembo della tenda alle proprie spalle. 

Con la coda dell’occhio, Stephen lo vide allontanarsi ma non fece nulla per trattenerlo. Jack era un capitano straordinario e un brav’uomo ma non credeva si sarebbe mai abituato alla vista del sangue che scorreva nelle sue battaglie contro la morte. Né si sarebbe mai abituato alla vista dell’interno di un corpo umano. Soprattutto se quel corpo apparteneva ad una persona che soffriva a causa di un evento di cui si sentiva, almeno in parte, responsabile. 
Lo lasciò andare, dunque, senza distogliere l’attenzione dal suo lavoro.
Il volto esangue del suo paziente era madido di sudore freddo quando si chinò su di lui con la scusa di coprirgli gli occhi con un impacco: “Non temete, mio caro.” Gli sussurrò all’orecchio “Andrà tutto bene.”
 


Appena fuori dal perimetro dell’accampamento, Jack passeggiava avanti e indietro, sforzandosi di nascondere il proprio nervosismo nella postura marziale. La schiena ben dritta e il mento alzato, guardava fisso di fronte a sé, all’apparenza imperturbabile.
Gli uomini che lo seguivano da più tempo, e che ormai lo conoscevano bene, capivano quanto fosse teso - divorato dall’ansia, addirittura – ma si guardavano bene dal farne apertamente parola e si limitavano a svolgere i compiti a loro assegnati senza dar segno di seguirlo con lo sguardo.
Aubrey non lo avrebbe ammesso neanche a sé stesso, ma era sopraffatto dalla preoccupazione. Continuava a ripetersi che Stephen era bravo nel suo lavoro, che lo aveva visto con i propri occhi estrarsi da solo una pallottola dal torace, come se non bastasse l’esempio di Joe Plaice, che camminava e parlava senza problemi nonostante gli avesse asportato un pezzo di cranio per salvarlo da morte certa. Eppure, nonostante le numerose esperienze, non era in grado di trovare in sé stesso quella pazienza di cui Stephen gli aveva tanto raccomandato.
Nel proprio intimo, si sentiva colpevole, nonostante fosse consapevole di aver compiuto un’azione valorosa che gli avrebbe anche fruttato molto al rientro in Patria, per non aver evitato lo scontro. Sarebbero bastate poche manovre, una lieve correzione della barra, e la corsara sarebbe rimasta nella sua scia. Invece non solo non aveva fatto nulla di tutto ciò, ma aveva facilitato l’inizio dalla battaglia. Sebbene si ripetesse che lo aveva fatto per onore e per rispetto del coraggio del comandante olandese, continuava ad autoaccusarsi di averlo fatto solo per orgoglio, mentre sul suo cuore gravavano pesanti le ultime frasi che aveva scambiato con Pullings prima della battaglia, e il suo sorriso mentre gli parlava del figlio che, forse, sarebbe rimasto orfano.
Si sforzava di domare quei pensieri cercando di ricordare la frase esatta che gli aveva detto Stephen ma i proverbi non erano mai stati il suo forte, a maggior ragione quelli latini, ed ogni volta le preoccupazioni tornavano più forti.
 
A poche iarde di distanza, Stephen si era di nuovo fatto strada tra i fasci di muscoli che avvolgevano l’addome del tenente. Le suture ai vasi sanguigni avevano tenuto e poté procedere senza complicazioni finché, con lo specillo, non intravide una zona più gonfia ed infiammata del normale. Si armò di forcipe e, con un gesto fluido del polso, estrasse una scheggia di legno larga un pollice e lunga quattro. Senza degnarla di un secondo sguardo, la lasciò cadere in un’arcella e riprese a sondare la ferita. 
Questa volta, non trovò altre emorragie e nemmeno altri corpi estranei. Soddisfatto, procedette a lavare la ferita con acqua calda, aceto e spirito di vino prima di suturare e rinnovare la medicazione. 
Quando si tirò in piedi il sole era già alto. 
Si terse il sudore dalla fronte con il dorso di una mano, procurandosi una strisciata di sangue in pieno volto. Procedette poi a pulire gli occhiali in un lembo della camicia mentre, con la massima tranquillità possibile, spediva Bonden a cercare il capitano per avvertirlo che l’operazione era andata bene.
 


Erano da poco suonati i quattro colpi della guardia del pomeriggio, che Tom Pullings iniziò a muoversi nel giaciglio che gli avevano allestito. Si accomodò meglio sui numerosi cuscini che gli uomini gli avevano messo attorno, come per paura che potesse rompersi, e sbadigliò. Poi, a poco a poco, riaprì gli occhi e mise a fuoco il viso del dottore, che gli sedeva accanto e lo guardava sorridendo.
“Ben svegliato, Tom. Come vi sentite?”
“Meglio.” Sussurrò il giovane, ancora molto debole.
Stephen annuì compiaciuto e lo aiutò con pazienza a sorbire un bicchiere d’acqua: “Mi congratulo con voi, mio caro. La febbre non è ancora scomparsa, ma credo siate finalmente sulla strada della guarigione.” Nel riadagiarlo sul guanciale, si sfilò da una tasca del panciotto la scheggia che gli aveva estratto, ancora intrisa di sangue, “Ecco la causa di tutti i vostri mali.”
Sorpreso, Pullings allungò una mano e la soppesò con attenzione, rigirandola tra le dita. 

La stava ancora studiando quando Jack fece capolino all’ingresso della tenda, come per chiedere il permesso di entrare. 
“Vieni pure, fratello.” Lo accolse Stephen, andandogli incontro “Si è appena svegliato, gli farà piacere vederti.”
A quelle parole, la postura del capitano si rilassò, pur mantenendo la solita compostezza. Tempo di percorrere i pochi passi che lo separavano dal capezzale del suo ufficiale e già sorrideva: “Ben tornato tra noi, Tom. Come state?”
“Meglio, signore. Grazie.” Aveva ancora la voce molto sottile, ma almeno era lucido.
“Ci avete fatto prendere un bello spavento.” Continuò Jack, poi lo sguardo gli cadde sul pezzo di legno che Pullings ancora teneva in mano “Permettete?”
“Prego, signore.” 
La mano del capitano non era smagrita né pallida, eppure tra le sue dita il frammento faceva comunque una certa impressione: “Sicché era questo a causare tanti problemi. Beh, non c’è che dire. Se non altro,” aggiunse nel restituirlo “avrete qualcosa da raccontare a vostro figlio quando torneremo.”
“Mi piacerebbe tanto, signore.” Sorrise il giovane “Ma credo che il mio John sia ancora troppo piccolo per poter capire.”
“Oh, beh, c’è tempo. C’è tempo. Bisogna avere pazienza in queste cose.” All’improvviso, gli parve di ricordare la famosa frase in latino e, fiero di sé, proclamò a gran voce: “Del resto, ’La pazienza è compagna di tutti i dolori.’ Non è vero, Stephen?”
“E’ certamente così, fratello.” Rispose il medico, accondiscendente “Adesso, però, via. Lasciamolo riposare.” E lo prese sottobraccio, accompagnandolo all’uscita.

 
- The End -
  
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