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Autore: Sylphs    01/01/2023    1 recensioni
Cenerentola rielaborata in chiave horror, con un colpo di scena su una delle protagoniste più conosciute delle fiabe.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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~~Fanciulla di cenere, fanciulla di ossa

 

“Se solo la mamma fosse qui…”
Era diventato un mantra, una filastrocca da sussurrare mentre si percorre un sentiero verdeggiante, un’oscura preghiera che ti accompagna sotto le coperte – se avesse posseduto delle coperte – una melodia ammaliante, delirante, intrisa di disperazione e di desiderio.
“Se solo la mamma fosse qui…”
Ella se lo ripete all’alba, quando si trascina nelle cucine che puzzano di decadenza e di fatica, tutta dolorante per aver dormito sul nudo pavimento di pietra, nei pressi delle braci morenti del camino, e mette l’acqua a bollire per il tè. Se lo ripete mentre dispone tazze, teiere e vettovaglie su tre vassoi d’argento opaco, mentre taglia la frutta in spicchi perfettamente simmetrici per Madame Tremaine e riempie di biscotti, pasticcini e torte i piatti delle sue figlie, mentre il profumo si solleva in scie crudeli che le solleticano le narici, le avvitano lo stomaco stretto e le inondano la bocca di saliva. Ha provato a prendere di nascosto uno zenzerotto, o un babà, o anche solo una ditata di panna, ma loro si accorgono di tutto, e allora sono guai.
“Questo non è per te, sciocca cenerella! Non abbiamo denaro, sudicia cenerella, ed è tutta colpa tua, quindi tu avrai gli avanzi!”
Quegli avanzi che sono briciole, frammenti troppo scarni di una bontà che le stuzzica la punta della lingua e le si nega, che la lascia ogni volta insoddisfatta, inappagata, famelica più che se avesse digiunato. Briciole, e bucce, e rimasugli semiliquidi che dipingono arcani motivi sulla maiolica polverosa e crepata dei piatti.
Ella lecca, risucchia e mastica quel poco che c’è da masticare, e se i topi vengono a rubarle la sua parodia di pasto, li strangola con dita luride, li spella con coltelli arrugginiti che lasciano ciuffi di peluria aggrovigliata attaccati ai filamenti di carne – oh, la carne! – e li cuoce malamente sulle braci morenti del camino, divorandoli prima che le sue aguzzine possano sorprenderla.
“Cosa sono quelle orribili macchie rosse sul tuo grembiule, misera cenerella?”
“Ho preparato l’arrosto, Madame, per il vostro pranzo”.
“Le domestiche non si presentano a tavola sporche di sangue e di cenere”.
I topi che non mangia, perché hanno troppa poca carne sulle ossa, perché sono ossuti e angolosi e consumati come lei, dopo che li ha soffocati li appende in soffitta come se fossero panni da asciugare, li guarda dondolare con le lingue di fuori e gli occhietti vitrei, marcire giorno per giorno, e ci parla.
“Se solo la mamma fosse qui” sussurra ai suoi amici. “Se solo fosse qui…”

Sua madre era la strega più talentuosa e più dotata di un’epoca piena di maghi e di streghe talentuosi e dotati. Finché c’era stata lei, Ella non conosceva il significato della parola “impossibile”, perché nulla era impossibile a casa sua. A casa sua, il fuoco ardeva perenne nei camini senza consumare la legna, oggetti, mobili e suppellettili sgambettavano in giro ed erano sempre ansiosi di servire i loro proprietari e provvedere alle loro necessità, le foglie secche che dai cedri cadevano sul viale si trasformavano in monete d’oro, d’argento e di bronzo non appena toccavano terra e i quadri erano dei gran chiacchieroni, e avevano tanti buoni consigli da dare. Alcuni bisognava coprirli con drappi di porpora e velluto, quando si desiderava un po’ di silenzio.
“Non potresti disincantare la villa?” chiedeva suo padre, il profano, nascondendo il disappunto crescente dietro un tono d’implorazione timorosa. “Solo per qualche giorno”.
Sua madre gettava indietro il capo e prorompeva in una risata che era come la sinfonia di tanti strumenti diversi, colma di benevola condiscendenza per quell’uomo che sembrava considerare alla stregua del suo cane prediletto: “Perché mai, mio caro? Così non dobbiamo pagare domestici, né faticare in alcun modo. Così tutto ha più senso”.
Ella capiva perfettamente cosa intendesse dire. Ella amava la sua casa traboccante di magia, la corrente arcana ed elettrica che percepiva scorrere nei muri, nei pavimenti e nei soffitti come convogliata in miriadi di arterie sfavillanti che collegavano ogni cosa al nucleo pulsante di quell’energia sovrannaturale, sua madre. Ella amava i quadri parlanti, le candele che si accendevano da sole rischiarandole il cammino, i tappeti dispettosi che la facevano inciampare a tradimento, i libri illustrati che si sfilavano dagli scaffali e le scivolavano tra le mani, i piatti che si riempivano del cibo che più desiderava.
Ad Ella non importò quando la vecchia poltrona di chintz viola prugna scattò all’indietro mentre stava per sedersi e la fece finire malamente a terra, con il fondoschiena in fiamme. Non le importò, quando chiese delle uova marinate e se le ritrovò davanti marce, pregne di un odore che per poco non le rivoltò lo stomaco. Non le importò neppure quando le tende della sua cameretta le avvolsero il collo sottile e tentarono di strangolarla. Sua madre percepiva il problema e accorreva a salvarla, schioccando le dita e facendo tornare inanimati gli oggetti ribelli.
“Non aver paura, fringuello mio” la confortava, cullandola tra le braccia. “Quando dai la vita a qualcosa, al principio è facile piegarla al tuo volere. Ma poi cresce, osserva, impara, e inizia a bramare la libertà. È allora, che occorre sostituirla”.
“Non potresti liberarla?” domandava pian pianino Ella. “Magari smetterebbe di essere cattiva, se avesse quello che vuole”.
“Liberarla?” mamma rideva con la stessa indulgenza che destinava al marito. “Oh, non sarebbe saggio, usignolo mio. Non puoi sapere cosa c’è nell’anima di una creatura, quali pulsioni si annidano sotto la sua pelle di stoffa o di porcellana. La magia instilla la vita, ma come quella vita si articola non lo può decidere. E noi non vogliamo correre il rischio che le tende della tua stanzetta se ne vadano in giro a strangolare poveri indifesi, vero?”
La bimba si affrettava a scuotere la testa in segno di diniego, ma ciò che non confessava a sua madre era che a quelle tende di broccato blu elettrico, con ricami di stelle, soli e mezzelune dorati in perpetuo movimento, aveva voluto bene. Quando era più piccola, si serravano ben bene per tenere alla larga i temporali di cui aveva il terrore, si spalancavano affinché l’alba la inondasse col suo chiarore, la circondavano in un abbraccio caldo e consolatorio e univano gli astri in costellazioni di volta in volta diverse. Era convinta che anche le tende l’amassero, e non ne aveva dubitato allorché le costellazioni ricamate avevano smesso di essere animaletti, fiori e farfalle e avevano iniziato a diventare pugnali, lacrime, fiamme di una rabbia crescente. Il vibrante, fiabesco blu elettrico si era tinto di un osceno rosso scuro che ricordava il sangue rappreso, e ancora non ne aveva parlato alla mamma nel timore di perdere un amico prezioso.
Ora, allo schiocco di dita della donna, s’erano afflosciate in un triste mucchietto che aveva ripreso il suo colore originario, ma più spento, opaco, morto di quanto fosse mai stato prima. Stelle, soli e lune erano inchiodati in posizioni statiche, e le erano venute le lacrime agli occhi, lacrime che la mamma aveva cancellato con un bacio.
“Non essere triste, colombella mia. Avrai altre tende, ancor più belle, entro domani, e saranno tende che assorbiranno la luce del sole e della luna e la comporranno, sul tessuto, in immagini meravigliose”.
Erano quelle idee stupende e fantasmagoriche che cacciavano immediatamente via il rammarico e la malinconia di Ella e le restituivano il sorriso. Sua madre era così, geniale, ultraterrena, e lei sapeva che finché ci fosse stata, niente le avrebbe fatto davvero del male.
“E quelli cosa sarebbero, rospetto?” la provocò maligna la damina nel quadro sopra il suo letto, indicando i marchi bluastri sulla sua gola. “Cosa sarebbero?”
Ella raccontò tutto alla mamma, e il giorno dopo, oltre alle tende nuove, vide che il gazebo fiorito dove la damina sedeva a bere il tè era sporco di lunghe striature scarlatte, che una delle piume del suo cappellino ammiccava solitaria sul marmo e che c’era una nuova fanciulla nella tela, tutta sorrisi e parole di miele.
Non si chiese mai in che modo la mamma l’avesse messa nel dipinto.

Quella casa non è più casa sua, da quando sua madre è scomparsa nelle viscere della terra.
Il soffio magico che la possedeva, la corrente che le faceva formicolare la punta delle dita, prudere il naso e rizzare i peli sulla nuca, s’è prosciugata in favore di un vuoto che l’annichilisce inesorabilmente. Gli oggetti, la mobilia, sono morti ed esanimi, la polvere li ricopre come un sudario spesso, e lei è costretta a lucidarli, a pulirli, a farli sembrare vivi senza che lo siano. Non importa se brillano tanto da restituirti la tua immagine riflessa, non torneranno mai i compagni servizievoli e gentili di un tempo, saranno sempre freddi sotto i suoi polpastrelli nerastri. Cucina pietanze che non s’avvicinano neanche lontanamente ai manicaretti deliziosi della sua infanzia e che le costano critiche continue.
“Il riso è scotto, Cenerentola. Quando ti deciderai a bollirlo a sufficienza?”
“Questo arrosto è troppo duro, Cenerentola. Per poco non mi spezza un dente!”
“Si vede che sei cresciuta in mezzo alla magia più diabolica. Una buona a nulla fatta e finita!”
Ella rammenta il giorno in cui suo padre ha chiamato l’uomo magro affinché disincantasse la casa. Era stata una pretesa della sua futura, nuova sposa, che aveva dichiarato che non avrebbe vissuto lì fintantoché non fosse stata eliminata anche la più piccola sacca di magia. La volta che era giunta in visita, era divenuta pallida come una morta quando la teiera le aveva versato il tè, che s’era, tra l’altro, ineducatamente rifiutata di bere, aveva cacciato un grido al saluto garbato del maresciallo in uniforme del quadro nel corridoio, era saltata su sé stessa mentre l’appendiabiti cercava di toglierle il mantello, serrandoselo addosso possessivamente, e aveva guardato lei, Ella, con un odio atavico e insopprimibile solo perché le era scappata una risatina.
“Non tollero tutto questo” aveva sibilato a suo padre. “Devi risolvere la situazione, immediatamente. Le mie figlie non metteranno piede in questo… questo antro malsano!”
Suo padre, con quella profana ignorante e cieca, era tutto accomodante e servile, le aveva promesso di uccidere la casa senza batter ciglio ed era rimasto sordo alle accorate proteste di Ella.
“La mamma l’ha resa magica per noi! Non puoi farle questo, non puoi rimuovere quel che resta di lei e obbligarci a vivere in una… una carcassa!”
“Tua madre è morta” le rispose glaciale. “È morta, lasciandoci a carico delle diavolerie che finiranno per ammazzarci nel sonno, ora che non è più qui a controllarle”.
“Io potrei farlo al suo posto” azzardò Ella, ma non ci credeva veramente.
Ella non aveva ereditato il talento di sua madre. Ella aveva una certa attitudine alla preparazione di decotti e filtri, era in grado di captare la magia e riconoscerne l’intensità, ma le sue doti si arrestavano lì. Non bastavano certo a fare di lei una strega. Era una profana, come suo padre, con una vaga, inconsistente scintilla di magia. Si era sforzata di far divampare quella scintilla, aveva sperato che la magia fosse chiusa in qualche angolo recondito del suo cuore e che, con l’impegno, con la perseveranza, l’avrebbe sbloccata, ma non era mai successo.
“Oh, non avertene a male, tortorella mia” diceva soave sua madre. “Io ho abbastanza magia per tutti”.
“Perché hai sposato un profano, mamma?” le domandò una volta, pensando colpevolmente che forse, se avesse avuto entrambi i genitori maghi, il suo potenziale sarebbe stato quantomeno decente.
“Per godere di un po’ di tranquillità. Perché non gli venisse mai in mente di rubarmi i miei segreti, e di scavalcarmi. Voi siete le mie adorate bestioline. Di voi, io mi fido e sempre mi fiderò”.
Fu quello, il suo errore fatale.

Dalla morte di sua madre, dall’ingresso in famiglia di Madame Tremaine e delle sue figlie dal volto bellissimo e dall’anima marcia, Ella ha preso a odiare gli specchi con tutta sé stessa, perché gli specchi ti sbattono in faccia la verità, una verità che a quel punto non puoi più ignorare. Li frantumerebbe tutti volentieri, se potesse, afferrerebbe le schegge taglienti, sgattaiolerebbe come un incubo redivivo nelle camere di matrigna e sorellastre e taglierebbe loro le candide gole. Quelle tre, naturalmente, adorano gli specchi, passano ore ed ore a rimirarsi, a godere alla vista di un noioso doppione di loro stesse che ricopia pedissequamente ogni loro mossa ed espressione.
Gli specchi erano diversi, quando casa sua era ancora casa sua. Collegati tra di loro, potevi entrare in quello della sala da pranzo e ritrovarti in soffitta, e intrattenere lunghe conversazioni con la tua immagine riflessa. Tante volte Ella ha fantasticato di incantare quello nella stanza da letto di Madame Tremaine – se solo avesse abbastanza magia per farlo! – e di terrorizzarla a morte. Se l’è figurata, mentre si fa bella arricciando le labbra e provandosi gioielli troppo costosi, che strilla come un’aquila quando il suo riflesso le fa una boccaccia malandrina, e che fugge a gambe levate sotto un profluvio di insulti che è la sua stessa bocca, la sua stessa voce, a sghignazzarle contro. E le sue sorellastre? Loro di specchi ne hanno due, Iris d’argento con un motivo di rose intrecciate, Erica d’avorio e pieno di ghirigori riccioluti, e sarebbe una gioia incontenibile maledirli e far sì che i riflessi delle due si deformino sino a trasformarsi in orridi mostri, in megere sdentate e putrescenti, scioccandole a vita. La bruttezza è ciò che più temono, e l’hanno imposta a lei perché non minacciasse la loro elaborata, artificiosa avvenenza.
Per questo Ella odia gli specchi. Adesso che sono ridotti a vuote superfici di vetro riflettente, le mostrano crudelmente cos’è diventata, la fanciulla di cenere in cui tre profane l’hanno trasformata. Magra come un alberello avvizzito, vestita di stracci che hanno perduto ogni colore sotto la patina spessa di sporcizia e di unto, i capelli rovinati, le dita piene di calli, la schiena curva dopo che passa giornate intere china a strofinare pavimenti, la faccia macchiata di cenere. È la parodia di una strega, quella, le ha osservate spesso, al villaggio, le effigi insultanti che i profani disegnano sui muri delle case, ritraendo maghi e incantatrici come rattrappite cariatidi dalle chiome a cespuglio e sporgenti occhi giallastri, e lei somiglia a quelle immagini più di quanto sia disposta ad accettare.
“Perdonami, mamma” pensa, trattenendo spasmodicamente bollenti lacrime di umiliazione, rabbia e dolore, quando per caso incrocia lo sguardo vitreo e sconfitto del suo abbrutito riflesso. “Perdonami, ho permesso che degli esseri inferiori mi strappassero l’identità a suon di angherie e vessazioni e la ricostruissero a loro piacimento”.
Le hanno persino cambiato il nome che la genitrice le aveva destinato. Nessuno la chiama più Ella, ormai, nessuno ricorda chi era. Lei è Cenerentola, la lacera schiava silenziosa che non alza mai gli occhi da terra, che si aggira per casa come lo spettro di un’epoca perduta, che ingoia qualsiasi ingiuria, che obbedisce a qualsiasi ordine. Che al mattino, risvegliandosi dolorante davanti alle braci ormai spente, ha la cenere amara sotto le unghie, tra le labbra secche, a incollarle le ciglia appiccicose.

Suo padre ha voluto buttare, distruggere o dare via tutti gli effetti della prima moglie, come a negare al mondo e a sé stesso di esserle mai stato legato dal più sacro vincolo esistente, ma Ella è riuscita, in segreto, a conservare pochi e preziosi oggetti, nascondendoli sotto un’asse divelta dello scricchiolante, sudicio pavimento della soffitta, sua nuova camera da letto. Quando la matrigna e le sorellastre dormono, sgattaiola nell’oscurità polverosa, scambia un cenno d’intesa con i suoi amici topi e, mentre sbocconcella uno dei meno marci condendolo con dure croste di pane rattrappito, rimuove l’asse e si gode il suo tesoro.
C’è il violino color rame, che ancora ricorda la ninnananna che sua madre gli faceva suonare per lei ogni sera e che la esegue al suono dell’adeguata parola magica. Non vi è la voce melodiosa della genitrice ad accompagnare la musica un po’ più stridula e soffocata di quanto lo fosse in passato, ma Ella si accontenta, e si lascia andare alle reminiscenze facendosi cullare dalle note familiari.
C’è l’abito che sua madre si era cucita all’arcolaio, un abito semplice, bianco, che però, appena indossato, muta forma in base all’umore del proprietario. Lo ha visto ricadere in sensuali pieghe scarlatte sulle curve generose della mamma, o accarezzarle la pelle con stoffa casta e impalpabile, o coprirsi di fiori, ricami e gemme, perfino mutarsi in camicia da notte o in pratici calzoni da equitazione. Lo accarezza, lo annusa, cerca tracce della madre nel tessuto che tante volte ha rivestito il suo corpo.
E poi, c’è il libro. Un libro di incantesimi incredibilmente piccolo, tanto che potrebbe entrare nella tasca di una giacca, con la copertina di cuoio color vinaccia e un unico, scintillante rubino incastonato proprio al centro. Niente titolo, solo fitte pagine piene di formule e anatemi che Ella legge con il fiato sospeso, e se solo fosse in grado di applicarli, se solo avesse modo di eseguire i prodigi che quel volumetto le promette!
“Questo non è per te, rondinella mia” le ha ripetuto sua madre ogni volta che ha cercato di sbirciarlo da sopra la sua spalla. “I tuoi occhietti sono troppo miopi per poter fare buon uso dei segreti di cui narrano queste pagine. Fu uno dei più grandi maghi del passato a scriverlo, ed è arrivato a me per vie tortuose e impervie”.
“Quali vie, mamma?”
Un enigmatico, appena accennato sorriso: “Posso dirti solo questo, pappagallino: lo vedi, quanto è vivo il rosso del rubino?”
Oh, sì, lo è, Ella lo ammette anche adesso che sono trascorsi degli anni, e la gemma ancora getta barbagli accecanti nel buio della soffitta. Rosso come un cuore grondante, come il nucleo di un vulcano attivo, come una fiamma prigioniera.
“Si racconta che abbia questo colore tanto intenso, perché assorbe il sangue di coloro che lo possiedono e grazie ad esso si rafforza. Il potere degli incantesimi che contiene cresce, e se ne aggiunge di volta in volta uno nuovo, di norma la formula che il prossimo proprietario più brama”.
“Ma come fa ad assorbire il sangue?”
Un colpetto sul suo naso: “Bisogna donarglielo, piccioncina. Donagli il sangue del suo attuale custode, e il libro diventerà tuo. Devi versarlo direttamente sul rubino, altrimenti non funziona. Risulta addirittura illeggibile”.
Ella rabbrividisce, nel ricordare quel dialogo. Quale sangue ha mai versato sua madre perché il libro le schiudesse i suoi segreti? Ci sono un’infinità di cose che non sa su quella donna, e che non saprà mai. Un’infinità di informazioni che la mamma ha portato via con sé, nelle viscere della terra. Il penultimo incantesimo scritto nel minuscolo volume, quello che la donna ha ottenuto quando ne è venuta in possesso, è divenuto un enigma angosciante nell’esatto istante in cui Ella ha finalmente potuto decifrarlo.
“Se è la vita eterna che tu brami,
fabbrica una bambina con delle ossa di topo e una manciata di cenere. Sarà piccina come una bambola, ma non ti scoraggiare: cucila nella tua pancia e giaci con l’uomo che più disprezzi al mondo. Il suo seme aliterà la vita in quel delicato topino e lo trasformerà in una persona vera. Allevala con dedizione, come fosse il tuo unico bene, e un giorno lei ti darà ciò che brami”.
No, no, no, si è ripetuta Ella come un mantra, sopraffatta dall’orrore, coprendosi gli occhi. Lei non è un feticcio d’ossa di topo e cenere, il libro mente, il libro inganna! Ed ingannevole è anche l’incantesimo che è apparso per lei, quando ha sfilato piangendo il tomo dalle mani insanguinate di sua madre, tutto quel sangue che colava sul rubino e ne veniva risucchiato.
“Hai perso qualcosa, ma puoi riottenerlo: va’ sul sepolcro sotto al nocciolo e offri in sacrificio una parte di te stessa. Ciò che è morto tornerà dagli abissi per te, e sarà al tuo fianco per sempre”. 
I morti non possono tornare. I morti sono morti. Innumerevoli maghi e streghe hanno cercato di resuscitarli, e nessuno di loro ha mai ottenuto un risultato soddisfacente, solo temporanei surrogati o mostruosità aberranti che vorrebbero sovvertire la legge più importante della natura. Non bisogna mai imbarcarsi in quell’impresa, l’esito è fatale, lo sa chiunque, e per quanto Ella sia disperata, per quanto riavere sua madre significherebbe far cessare tutte le sue sofferenze e tutti gli abusi che subisce, il pensiero della morte le fa paura. Non vuole morire. Non vuole sprofondare nelle tenebre, con la terra che le entra ovunque e la strangola con dita nere e umidicce.
Eppure… eppure…

Suo padre andò incontro ad una fine deludente e insipida, la fine che più si addice ad un profano della sua risma, che non era mai stato capace di apprezzare fino in fondo il talento e la genialità della moglie, anche se non le si era mai ribellato per pavidità.
Un giorno decise di recarsi ad una ricca fiera e chiese alla figlia e alle figliastre cosa volessero in regalo, dichiarando che avrebbe speso qualsiasi cifra. Ella comprese subito cosa si celasse dietro tanta generosità: finora, era sempre stata sua madre a coprirla di regali fantasmagorici, suo padre non aveva mai provato ad imitarla perché conscio che i suoi non avrebbero mai potuto competere. Adesso desiderava prendersi la sua rivincita, rivendicare un suo diritto, sfoggiando il denaro al posto della magia.
Ma nemmeno tutto il denaro del mondo può eguagliare la magia.
“Voglio splendidi vestiti alla moda” pretese Iris, avida.
“Io perle e gemme” si aggiunse in fretta Erica.
L’uomo annuì e si volse verso la figlia, sollecito: “Tu, Ella? Che cosa vuoi?”
Non mi comprerai così facilmente, profano. Io non dimentico come hai sostituito la mamma.
Dunque, Ella rispose con sfida: “Il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno”.
“Che cosa?” strepitò Iris, sgranando gli occhi con incredulità e scherno. “E che te ne fai di un rametto secco?”
“Forse una qualche diavoleria magica” sibilò Erica, gonfia di sospetto e astio.
Ma gli occhi di suo padre avevano avuto un guizzo, ed Ella intuì che lui aveva capito. Lo vide accusare il colpo e, dopo quel primo momento di vergogna e stupore, raffreddarsi considerevolmente nei suoi confronti. Un po’ ne soffrì, ma non volle tornare sui suoi passi.
Io non ti tradirò né scorderò, mamma.
“Bene” scandì suo padre. “Così sarà”.
Uscì a cavallo nella brughiera, sotto un cielo d’un giallo malsano che prometteva temporale, colpito dalle raffiche implacabili di un vento gelato, tra grosse, purulente macchie di fiori di lavanda. Ella lo guardò scomparire al galoppo con un curioso senso di oppressione al petto, un presentimento nefasto che le contorceva le viscere. Alle sue spalle, Iris si esercitava nel canto, Erica nel ricamo, e Madame Tremaine beveva tè lamentandosi dell’incuria dei domestici.
“Cos’è quella faccia vacua, ragazzina?” all’epoca la matrigna ancora non la chiamava Cenerentola, non osava, ma trovava comunque un modo per non dover pronunciare il suo nome. “Invece di guardar fuori dalla finestra, impiega il tuo tempo in maniera più costruttiva! O tua madre non ti ha insegnato a far niente?”
Sentirla insultare sua madre, velatamente e non, di solito faceva montare in Ella una collera sorda e gorgheggiante, ma quel giorno la morsa che le attorcigliava le budella era troppo forte perché potesse concentrarsi su altro.
“Non doveva uscire” sussurrò tra sé, fissando ancora il punto in cui suo padre era scomparso.
“Che cosa?” sibilò Madame Tremaine, gli occhi di serpe che davano un guizzo.
“Papà. Non doveva uscire”.
I maldestri gorgheggi di Iris tacquero bruscamente, e le mani guantate di pizzo di Erica smisero di volare sulla tela. Ella pensò distrattamente che la voce stridula e stonata della prima sorellastra ricordasse il cupo rombo dei tuoni all’esterno, e che i fiorellini viola che la seconda ricamava su un fazzoletto di seta candida fossero identici a quelli selvatici che punteggiavano la brughiera che aveva inghiottito suo padre. Le tornò in mente una delle lezioni di sua madre, e le parve che gliel’avesse trasmessa proprio in un pomeriggio di pioggia, con l’acqua che disegnava geroglifici arcani sul vetro delle finestre.
“Molti di noi hanno la scintilla, tortorella mia. Sta a ciascuno decidere se svilupparla o meno. Eppure, a volte, può capitare che coloro che non hanno mai messo alla prova il loro potenziale operino inconsapevolmente degli incantesimi. Abbi sempre timore degli incantesimi dei profani, poiché vengono proferiti senza controllo, e intessuti nell’istinto e nelle emozioni più sepolte: terribili maledizioni sono state lanciate senza premeditazione”.
In quel momento le sembra che il temporale, il canto straziante di Iris, il ricamo storto e spigoloso di Erica, il guizzo negli occhi di Madame Tremaine, si fondano, ognuno un ingrediente che va a comporre un anatema sciagurato. Le sembra che lei stessa, la sua paura, il suo presentimento oscuro, si amalgamino al resto, lo forgino e lo ispessiscano. Si affonda inconsciamente le unghie nei palmi delle mani, viene percorsa da un lungo, doloroso brivido, e scuote freneticamente la testa, come se bastasse un cenno di diniego a fermare qualcosa che è già cominciato, che non si può più interrompere.
“Non interrompere mai un anatema mentre sei intenta a declamarlo, o a filarlo: il contraccolpo potrebbe uccidere te e causare incalcolabili danni a ciò che hai intorno”.
“È tutto scritto” mormora febbrile. “È tutto scritto”.
“Mamma” fa Iris, nervosa, guardandola come si guarderebbe un animale osceno e imprevedibile. “Cosa va farfugliando questa sciroccata?”
Il lampo è svanito dagli occhi aridi di Madame Tremaine, e il suo volto coperto di cipria si è contratto in una smorfia che lo rende più vecchio, più sciupato, quasi stanco: “Cara, non darci peso. Quelli come lei sono fatti così”.
Un ennesimo tuono rimbomba per la brughiera, alberi e fiori fremono, piegati di lato fin quasi a spezzarsi sotto il furore della pioggia, ed Ella abbassa le palpebre e sente una lacrima umida e calda scenderle giù per la guancia, quasi ode la risata argentina di sua madre grondare dal cielo insieme alle gocce d’acqua.
È poche ore dopo che uno degli allevatori della zona si trascina su un carretto malconcio fino alla loro dimora, e sul carretto è adagiata una sagoma nascosta da una coperta macchiata, e quella sagoma ha la stessa corporatura di suo padre. Del magnifico purosangue dell’uomo, nessuna traccia. Tra le sue dita irrigidite e bluastre, però, è stretto un lungo ramo di nocciolo.
Iris ed Erica strillano e strepitano, rifiutandosi di guardare il viso del morto, mentre Madame Tremaine, seppure pallida come uno spettro, si china su di lui e lo esamina a lungo, dagli stivali infangati al collo fatalmente fratturato, prima di congedare brusca l’allevatore e voltarsi come una furia verso Ella.
“Tu sapevi!” la sua voce è tornata un sibilo. “È colpa tua, non è così? Sei una strega anche tu, proprio come la puttana che ti ha generato!”
“No” bisbiglia Ella, troppo esile, troppo strozzata, e subito dopo riceve un colpo alla tempia che la sbatte piangente a terra. “No…”
“Sì!” ringhia la sua matrigna, colpendola ancora, e ancora, con la copertina di un libro di cucina. “Tu sapevi, maledetta! Volevi vendicarti, perché si era risposato con me! Sai cosa ha detto quell’allevatore? Che tuo padre è caduto da cavallo mentre si sporgeva per prendere questo ramo, da regalare a te! Lo hai chiesto apposta, strega! E adesso di cosa vivremo? Come andremo avanti? Ah, ma non ti libererai di noi, oh, no, non la passerai liscia!” le sue unghie dipinte, affilate, le affondano nel cuoio capelluto, e la trascina scalciante fino alla soffitta. “Tu pagherai per quello che hai fatto! Sarai la nostra serva, e lavorerai quanto ti dirò io, come ti dirò io, finché io lo vorrò!” 

Sono passati tre anni, ed Ella è ancora una serva. Ella è diventata Cenerentola, e lo è ogni giorno di più. Suo padre non è sepolto sotto un nocciolo, nel folto di una foresta, ma in terra consacrata, nel piccolo camposanto del villaggio. Suo padre era un uomo stimato e rispettato, e simili uomini hanno diritto ad un sepolcro lucente e dignitoso, perso tra centinaia di sepolcri uguali.
Ella si inoltra spesso nel bosco per portare un mazzetto di fiori selvatici sulla tomba della mamma, quando albeggia appena e non rischia di essere scoperta, mentre non ha mai fatto lo stesso per suo padre. Non lo odia, però neppure lo ama. E non gli perdona di aver rinnegato la moglie e di aver fatto entrare in casa quell’altra, dal cuore avido e freddo e dalla mente piatta, lineare, priva di fantasia. Non glielo perdona, no, no, e non glielo perdonerà mai.
Madame Tremaine ha indossato il lutto per un anno, un anno di tende tirate, candele da accendere e spegnere, abiti scuri, reclusione forzata, e così le sue figlie, con l’aria scontenta e contrita di chi si arrende ad una punizione ineluttabile. Il buio, la foggia austera e tetra dei vestiti, l’imprigionamento tra le mura domestiche, le ha rese particolarmente crudeli e desiderose di sfogare la noia opprimendo lei, Ella, Cenerentola, con mille dispetti, mille soprusi, mille faccende che, a sentirle, non svolge mai nel modo giusto.
Ella obbedisce e china la testa, avvolta in un torpore spesso come un sudario, che lentamente soffoca qualsiasi palpito possa mai avere.
Se solo la mamma fosse qui…

Madame Tremaine non si è mai confidata con lei, né lei con Madame Tremaine – la considera alla stregua di un verme o di una macchia di sporcizia impossibile da lavar via, e non si scambiano confidenze con qualcosa di così ripugnante – ma Ella l’ha ascoltata spesso imbastire la drammatica, infelice storia della sua vita con qualunque uomo che è venuto in visita, dal sacerdote, allo strozzino, all’ex socio in affari di suo padre, per finire addirittura con l’attempatissimo sindaco, confinato in una sedia su ruote che un giovane domestico deve sospingere ovunque lui voglia.
Li accoglie nel salotto grande con addosso una veste seducente quel tanto che basta a restituire un erotico effetto di vedo-non-vedo senza essere troppo volgare, gli occhi enormi e affranti e il labbro tremulo, offre loro una tazza di tè con pasticcini oppure, nel caso del socio in affari e dello strozzino, un cordiale dalla scorta del defunto marito, e poi piagnucola, si tampona palpebre perfettamente asciutte coi fazzoletti che le porgono imbarazzati e affascinati, si struscia e si ritrae, li sfiora con apparente casualità, si rovescia enfaticamente all’indietro esponendo le forme ancora sensuali.
Ella, che di tanto in tanto passa mentre è intenta nelle sue faccende, silenziosa come un’ombra ma attenta ad osservare tutto, non pensa che il visitatore di turno ascolti per davvero quanto la sua matrigna dice, è troppo preso ad ammirarla mentre una fasulla angoscia la divora e la ritorce, mentre ansima e singhiozza come fosse colta da un parossismo di estasi disperata. Il socio in affari di suo padre, il più ardito, a volte osa addirittura circondarla con le braccia e darle dei viscidi colpetti sulla schiena, sussurrarle “Suvvia, suvvia, Madame, si faccia animo!” mentre le pupille scintillanti vagano impudiche alla scollatura della donna.
“Lo so, lo so, debbo essere forte per le mie figlie” bisbiglia quella, ricomponendosi. “Ma versiamo in una situazione difficilissima da quando il mio secondo marito, che Dio lo abbia in gloria, se n’è andato. Che una donna lavori è fuori discussione… eppure non vedo altro modo di mandare avanti la casa, abbiamo già venduto tutti gli oggetti di valore. Se sapeste quanto è tremendo, milord, ritrovarsi sola in questo mondo, e per ben due volte!”
Si rifanno gli occhi a guardarla e non esitano a toccare se l’occasione si presenta, ma nessuno l’ha chiesta in sposa. Per quanto attraente, docile e fascinosa si mostri, ha perso due consorti, il che, in un villaggio piccolo e superstizioso come quello, viene visto come un marchio della malasorte: quegli uomini hanno troppa paura di cadere vittima della sciagura che sembra assalire chiunque finisca nel talamo di Madame Tremaine per correre il rischio, e quando si congedano e la lasciano lì, drammaticamente imbellettata, scoramento e fragilità svaniscono all’istante dal suo volto, esso torna a farsi di marmo, di ghiaccio, di terracotta, duro e amareggiato e disilluso, e immancabilmente il suo sguardo scova Ella.
“Tu!” latra, la voce secca come un colpo di frusta. “Aiutami a svestirmi, subito. E sbrigati, Cenerentola, sembri sempre stordita, ce lo hai il cervello oppure no? Ah, ma cosa avrò mai fatto per meritarmi una piaga come te? Dovrei buttarti in strada a morire come un cane randagio, però sono troppo civile, troppo timorata per farlo… e quella faccia, a che cosa la devo? Hai anche il coraggio di mettere il muso, povera idiota? Di guardarmi male? Ma lo sai che la tua maleducazione è davvero senza limiti? Lo sai…”
Ella immagina rane, rospi, scarafaggi, serpenti, vermi e lumache uscire a fiotti dalle labbra vermiglie della sua matrigna, invadere il salotto zampettando sotto ai pochi mobili rimasti, strisciare ovunque, mentre Madame Tremaine si afferra la gola e boccheggia, soffocata dalle sue stesse cattiverie. È qualcosa che sua madre farebbe accadere, e con estrema facilità.
Ma lei no. Lei, non ne ha la forza.
“La magia è in ognuno di noi, tortorella mia”.

Quando Ella si avvolge nel suo mantello consunto e sgattaiola nella brughiera, un mattino, la pioggia viene giù a catinelle, la stessa pioggia violenta e rabbiosa che ha flagellato quei luoghi il giorno della morte di suo padre, ma non può non raccogliere il solito mazzo di fiori per la mamma, non può mancare all’appuntamento. È come se lei la osservasse dall’alto, come se la giudicasse, e la delude già abbastanza piegandosi alla volontà di tre insulse profane, non può farle ulteriori sgarbi. Quelle violette, quelle margherite, quei papaveri e le campanule bianche, hanno un significato profondo: non ha dimenticato la mamma, la serba ancora nel cuore, e le è fedele.
Rabbrividisce e trema sotto al mantello zuppo mentre si sforza di distinguere i fiori nella penombra opprimente e grigiastra, mentre erra nella nebbia affondando nel fango fino alle ginocchia. Quei pochi che individua e che coglie a manciate sono flosci e scoloriti, puzzano di marcio e le si disfano tra le dita livide, ma sono sempre meglio di niente. Sua madre apprezzava i gesti di devozione, anche se miseri. Era la lealtà che c’era dietro ad illuminarla di divertimento e soddisfazione.
Ella ha già composto un bouquet sbilenco e maleodorante, simile ad una poltiglia indistinta, quando un nitrito sordo sovrasta il silenzio della brughiera, il gracidio delle rane e il mormorio del vento, e una grande ombra emerge dalla caligine e rischia di investirla. Urla, terrorizzata, scivola nella melma cadendo a terra e insudiciandosi tutta quanta, ed è come se lo stallone gigantesco apparso sotto la pioggia vada a sbattere contro uno schermo invisibile, i suoi zoccoli si arrestano ad un soffio da lei e la bestia si sbilancia, roteando gli occhi e disarcionando il cavaliere.
Ella sbarra i propri, sgomenta, ancora impaurita, stringendosi al petto il mazzo di fiori fradici e sbriciolandoli definitivamente.
Sono stata io?
Sarebbe troppo bello per essere vero, troppo, troppo…
Il cavaliere ha gridato, forse imprecato, allorché è stato lanciato nella fanghiglia umida dal proprio destriero, e si rialza a fatica, liberandosi dal garbuglio di abiti lussuosi. Ella non ci vede bene e sono entrambi gocciolanti, scarmigliati e sporchi, ma quel poco che riesce a scorgere le mozza il fiato in gola e le inonda di rossore le guance accapponate dal gelo.
C’è il principe davanti a lei, tremante e stizzito, il Principe Enrico, ed è bello come un’apparizione, come un dio incarnato. Ella guarda i suoi capelli folti, schiacciati sulla testa dalla pioggia battente, il suo naso e la mascella virili, il petto ampio, gli occhi di un limpidissimo azzurro che si puntano, contrariati, su di lei, ed ha la sensazione che nel proprio corpo sordido e abbrutito qualcosa si risvegli, terminazioni nervose che non sospettava di avere.
Lo fissa come una bifolca, occhi spalancati, bocca mezza aperta, viscere in subbuglio, e lascia cadere tutti i fiori che con tanta fatica ha raccolto, perché le sue mani dolgono dalla voglia di toccare quello splendore, di avvicinarlo in qualche modo a sé e carpire parte della sua luce. Ha la sensazione che, se riesce a sfiorare il principe, la sua pelle bianca e perfetta, i suoi vestiti di squisita fattura, le sopracciglia dall’arco nobile, allora tutta la sua vita cambierà in positivo, e lei tornerà quella di prima.
Lui la squadra da capo a piedi: “Sei stata tu, poco fa, a respingere il cavallo?”
Ella sbatte le palpebre, dischiude le labbra screpolate, non le esce niente. Continua a fissarlo, sentendosi morire dentro nel vederlo spazientirsi. Le è stato insegnato a tacere sempre, ed ora non sa come superare le sue stesse barriere, come ritrovare una voce che le hanno strappato dalla gola.
Il principe si china in avanti per distinguerla meglio, le arriva un’eccitante zaffata del suo sudore umidiccio, e non le importa del rapido lampo di disgusto sui tratti aristocratici del giovane, a quello è abituata, ormai. Deve sembrargli una bestiola selvatica, né più né meno delle volpi rachitiche e delle talpe tozze che corrono sull’erba intorno a loro.
“Come ti chiami?” le chiede, alzando la voce, forse convinto che non lo senta sotto al battito costante dell’acqua sul terreno. In mezzo al disgusto, nel suo sguardo c’è un’ombra di interesse che fa accelerare vertiginosamente il cuore di Ella.
Parla, parla, parla!
“E…” farfuglia, rabbrividendo nell’udire la propria voce roca, sconnessa, inselvatichita. “Ell… Ell…”
“Cosa?” accigliato, il principe corruga l’ampia e bella fronte e cerca di scrollarsi di dosso la pioggia; goccioline affilate si staccano dai suoi capelli e dal suo manto riccamente ornato e colpiscono la ragazza in piena faccia, ma lei abbassa le palpebre e le riceve con un fremito di pura lascivia, pensando che sono state su di lui. “Hai detto Eleonora? Ti chiami Eleonora?”
Ella esita per un attimo, ma alla fine decide che è meglio assecondarlo, e annuisce con uno scatto frenetico. Che importa se le cambia il nome? Lo hanno già fatto la sua matrigna e le sue sorellastre, e poi Eleonora è molto più bello di Cenerentola, è un nome da fanciulla nobile, aggraziato, elegante.
Il Principe Enrico emette un grugnito vagamente infastidito, eppure la domanda che le pone a quel punto è colma di una strana, profonda avidità: “Sei una strega, per caso? Quella di prima era una… magia?”
Ella esita di nuovo, improvvisamente spaventata, diffidente. Non è saggio dire in giro di essere una strega, in quegli ultimi tempi, soprattutto nei villaggi di campagna, in mezzo al popolino e a dei sacerdoti che tuonano con sempre maggiore indignazione dei diritti che gli incantatori si arrogano ingiustamente. Ma il principe non sembra ripugnato dall’eventualità che lei eserciti la magia, al contrario, gli occhi gli brillano di cupidigia e la incalzano, paiono sperare in una risposta affermativa. Come se l’essere una strega controbilanciasse il suo aspetto lacero e i suoi modi da cavernicola.
Ma lo sono?
No, non lo è. Non è come sua madre. Non lo è mai stata. E quella di prima non era una magia. Lei non possiede magia. Lei è solo Cenerentola.
Io non sono nessuno, sono solo un macilento mucchio d’ossa coperto di cenere.
Forse il giovane infreddolito e trepidante legge l’arrendevolezza e la disperazione sul suo viso, perché il brillio di interesse e di avidità svanisce dai suoi occhi, una smorfia delusa ne prende il posto, e si tira subito indietro, allontanandosi da lei.
Per Ella, è come se una lama appena affilata le penetrasse lentamente, sadicamente nelle interiora, rigirandosi tra i tessuti interni e facendola a brandelli.
“Beh” scatta il principe, domando a fatica il cavallo ancora spaventato. “Fa’ attenzione a dove vai, la prossima volta. Questo castrone vale una fortuna, poteva rimanere azzoppato!”
Ella non ribatte con logica che una collisione tra lei e il destriero avrebbe forse azzoppato quest’ultimo, ma ridotto lei in poltiglia, che era Enrico che le stava venendo addosso mentre coglieva i fiori indisturbata; è abituata a ricevere accuse ingiuste, ad essere sempre la colpevole, e in fondo, sente persino di meritarsele. Abbassa lo sguardo, china il capo e le spalle, e ode il sospiro irritato di lui.
“Queste dannate straccione!” il principe borbotta tra i denti, si ripulisce alla meno peggio dalla melma gettandogliene parte contro, rimonta agilmente sul cavallo e lo sprona, e la nebbia e la pioggia si richiudono sulla sua figura come una cortina di tenebre, lo inghiottiscono, lasciandola più avvilita e intirizzita che mai.

Rannicchiata davanti al camino, stretta nelle sue stesse, magre braccia, quella notte Ella tiene le palpebre serrate ma non riesce a dormire, la fibrillazione la tiene desta; il suo sangue pompa bollente e impetuoso nelle vene, il suo stomaco fa piroette e capriole, i seni pulsano dolorosamente negli stracci e si sente nelle narici, tra le labbra, l’odore del sudore del principe. Sono sensazioni nuove e sconosciute, che la terrorizzano e la eccitano insieme, e ha dovuto lottare strenuamente per nasconderle allo sguardo sospettoso di Madame Tremaine.
“Sei tutta rossa in faccia, Cenerentola” le ha detto mentre serviva la cena a lei e alle due sorellastre. “Che ti prende?”
“La zuppa, Madame” ha risposto in fretta. “Il suo calore mi ha fatta avvampare”.
La matrigna era forse presa da qualche sua faccenda, perché non ha insistito, ma Ella si è sentita i suoi occhi addosso più volte e ha sbrigato le ultime mansioni della giornata il più rapidamente possibile, vietandosi di ripensare al Principe Enrico finché non s’è coricata per la notte sulle dure pietre del pavimento.
Allora, la sua fantasia ha preso il galoppo, e si è espressa con la voce di seta di sua madre.

“Sei una strega?”
“Sì, mio signore, lo sono”.
Sarebbero bastate queste poche parole, mio usignolo, perché i suoi occhi di fiordaliso si colmassero di devozione, il suo cipiglio si sciogliesse in un sorriso radioso, e le sue braccia forti si tendessero verso le tue così deboli, così ossute. Le avresti sentite, quelle braccia, affondarti nella carne, ridarti la vita, e quelle labbra di corallo schiudere le tue e colorirle di nuovo, e quella lingua incandescente leccarti via la cenere dal volto.
Ti avrebbe sollevata, mio tordo, e deposta sul cavallo come il bene più prezioso. Ti avrebbe portata al suo palazzo e coperta d’oro e gioielli, e ti avrebbe offerto in dono le teste delle tre aguzzine. Le avreste divorate insieme, mia colomba, al suono d’arpe e di flauti, e i vostri baci avrebbero avuto il sapore del sangue e della vendetta.
Poi ti avrebbe sposata, mio passerotto, e condotta al talamo, e lì lo avresti fatto tuo corpo, cuore e anima. Le sue dita tra i tuoi capelli, il suo petto contro il tuo seno, le sue gambe allacciate alle tue gambe, la lingua intrecciata alla tua, il membro dentro di te.
Se solo, se solo, avessi risposto nel modo giusto.

“Ma avrebbe voluto una prova” pensa improvvisamente Ella, scuotendosi dal suo sogno ad occhi aperti. “E se si fosse accorto della menzogna, mi avrebbe fatta giustiziare!”

“Se solo io fossi qui” si sente rispondere dalla voce della mamma, e uno spiffero gelido si insinua dalla finestra mezza aperta. “Se fossi qui, mio martin pescatore…”

Da allora, lo sogna ogni notte, e da ogni sogno si risveglia accaldata e ansimante, con l’umido tra le cosce e il sapore travolgente della sua lingua in bocca che si muta in quello acre della cenere. Più disperata, più bramosa, più febbrile della volta prima.
Sono ormai diversi anni che ha avuto il menarca, ma non si era mai sentita realmente donna finché non ha incontrato il Principe nella brughiera. Lui l’ha resa consapevole del profondo cambiamento che ha subìto, del corpo traboccante di desiderio e di fertilità che è cresciuto a dispetto di angherie e privazioni.
Sogna di incrociarlo nella foresta mentre va a raccogliere erbe, radici e funghi, di trovarlo smarrito che conduce a fatica tra gli alberi il suo cavallo bianco, di indicargli la strada e di venire amata sopra ai muschi e ai licheni, di sentire le ruvide felci del sottobosco che le sfregano contro la schiena e le gambe nude.
Sogna di vederlo al pozzo, che si abbevera con l’acqua che gli ruscella giù dal mento forte cadendogli sul petto scolpito di muscoli, e che lui la possieda contro le pietre vecchie e incrostate di edera, che il sole batta a picco sulle loro teste vicinissime.
Sogna di ricevere un invito speciale a palazzo, lei, la stracciona, la serva, la fanciulla di cenere e d’ossa, accompagnato da un abito color oro zecchino, da un velo trapunto di perle e da gioielli che brillano come stelle cadenti, e di divorare pani e cacciagione al desco reale, di essere poi adagiata su un letto a baldacchino dalle cortine avvolgenti e di sentire le unghie del Principe che le lacerano le ricche vesti.
Sogna di condurlo nella sua buia soffitta, tra i topi morti, la polvere, la sporcizia, il degrado di un’anima sconfitta, e che lui conferisca al tutto un aspetto nuovo, una lucentezza nuova, ghermendola su ogni centimetro di pavimento sudicio, tra le tende maleodoranti e sbrindellate, in mezzo alle cianfrusaglie ammassate, i cadaveri dei ratti che dondolano insieme a loro.
“Se solo” borbotta spiritata, svolgendo le sue faccende con una frenesia distratta che le fa commettere non pochi errori e meritare infiniti rimproveri. “Se solo, se solo, se solo…”

Qualcuno o qualcosa sembra ascoltare le sue preghiere, perché qualche settimana dopo un araldo reale si presenta impettito in paese e annuncia un proclama al popolino pieno di soggezione.
“Al palazzo reale si terrà un gran ballo di gala che durerà tre giorni e tre notti” scandisce. “Per ordine di Sua Altezza Reale il Principe Ereditario, ogni fanciulla in età da marito, che sia nobile o popolana, è invitata a partecipare”.
Gridolini di gioia prorompono dalle piccole gole di sguattere e ragazze di stalla, di figlie di contadini e bottegai e orfanelle denutrite. Per ognuna è come se si spalancasse una porta dorata, come se improvvisamente arrivasse una ventata che profuma di ricchezze, e possibilità, e nuovo.
Ella, piegata sotto il peso di cibarie che sta portando alla matrigna e alle sorellastre, per poco non lascia cadere il suo fardello, tanto è forte il soprassalto che le coglie il cuore.
“Ogni fanciulla in età da marito… nobile o popolana… il Principe Ereditario… invitata a partecipare…”
Per un attimo s’illude che Enrico lo abbia fatto per lei, per il loro incontro casuale, nella speranza di rivederla. Che sia rimasto colpito al suo stesso modo, che abbia sognato il suo corpicino offeso, i suoi capelli di stoppia, la sua faccia imbrattata di cenere. Poi si obbliga a tornare alla realtà, a porre un freno alla propria follia, e fa una smorfia.
Lui non può volerla. Nessuno la vorrebbe, neppure l’ultimo dei mendicanti, figurarsi un principe. Sarà stato un capriccio, o la prova di una immensa bontà d’animo, oppure semplice, banale curiosità.
Eppure…
Eppure anche lei è invitata. Anche lei potrà vederlo, stare nella sua stessa stanza, respirare la sua stessa aria. E se si togliesse i suoi bigi stracci, se si lavasse via la cenere dal viso, se pettinasse il groviglio di capelli… quando era piccola, sua madre la abbigliava e acconciava come fosse una bambola, e poi la contemplava con un sorriso compiaciuto.
“Sei adorabile, mio cardellino” affermava, decisa. “Adorabile”.
Potrebbe esserlo di nuovo, sforzandosi? Potrebbe ammaliare il Principe? Dopotutto, il vestito magico di sua madre è ancora in soffitta, inutile fino a quel momento, preziosissima risorsa adesso. Nessuno ha mai resistito a sua madre, fintantoché lo ha avuto indosso…
Si avvia sul sentiero che conduce a casa di buon passo, incurante dei ceci e delle lenticchie che le cadono dal sacco e seminano una scia dietro di lei, dell’acqua che trabocca dagli otri e si sparge sul terreno, con le viscere in subbuglio, lo sguardo perso nel vuoto.

Matrigna e sorellastre vanno in visibilio per il ballo, come c’era da aspettarsi.
“Oh, mamma, pensi che potrebbe scegliermi?” cantilena Iris, agitando le braccia febbrilmente.
“Sì, se la smetti di dimenarti a quel modo” scandisce imperativa Madame Tremaine.
“No, mamma, deve scegliere me!” controbatte Erica, feroce.
“Forse, se impari ad essere più gentile”.
Ella non dice nulla, se ne sta lì a sbirciarle da dietro una ciocca arruffata di capelli, sperando che non la notino, ma puntualmente gli occhi di falco della matrigna la scovano nel suo cantuccio, e sono algidi come l’inverno.
“Cenerentola” le ordina. “Corri dal sarto e commissionagli tre splendidi abiti da ballo per noi. Che quello di Iris sia bianco come la neve, quello di Erica verde come le foreste vergini, e il mio blu come il cielo a mezzanotte. Sbrigati!”
“Sì, Madame” scatta senza alcun cenno di ribellione, volta loro le spalle con sollievo, mentre nella testa si staglia, magnifico, il vestito incantato della mamma, che può essere sia bianco come la neve, che verde come una foresta, che blu come la notte, e in mille altri modi che loro a stento riuscirebbero ad immaginare. Il capo lo tiene abbassato, affinché non si accorgano del sorriso che balena, candido e furtivo, in mezzo alla sua faccia grigia di cenere, o del luccichio lussurioso nelle sue pupille.
“Se solo” muove le labbra a sillabarlo. “Se solo scegliesse me…”

Le sartorie, gli studi delle modiste, le boutique all’ultimo grido e i saloni di bellezza vengono letteralmente presi d’assalto, e nelle settimane successive è tutto un parlare di chiffon e organza, di ricami e gioielli, di acconciature e smalti. Le cucitrici lavorano il doppio di quanto sono abituate, le mendicanti provviste di belle chiome le vendono in cambio di dieci denari sonanti, i calzolai si affannano a creare scarpette di fogge e colori stupefacenti. Ogni ragazza in età da marito è determinata a fare il possibile per essere la prescelta, per catturare il volubile interesse del Principe Ereditario e rubargli il cuore. Perfino la vecchia Margo, che ha fama d’essere incantatrice e poco raccomandabile, si vede comparire sulla porta fanciulline supplicanti che implorano per un filtro d’amore.
Ella si muove tra chiacchiere sovreccitate e risatine complici, tra frecciatine maligne e occhiate d’invidia a vestiti ed accessori reciproci, come uno spettro che nessuno scorge e nessuno ode. Ora più che mai, che tutti sono presi dal ballo reale, non viene notata, e quell’anonimato per una volta la rallegra e la allieta, perché se non la notano non la temono, se non la temono non pensano a come sconfiggerla e sopraffarla, e così facendo potrà incedere in mezzo all’orda di avide cagnette, surclassandole a tradimento, e farsi largo nel loro sconcerto sino al suo amato Principe Enrico. Chi mai potrebbe aspettarsi che proprio Cenerentola, proprio quel mucchietto di cenere e sogni infranti, ammalierà il giovane col suo abito incantato? Nel suo petto non arde solo il bisogno impellente di affascinare l’uomo desiderato, ma anche una segreta brama di rivalsa. Vuole batterle, vuole che si torcano di frustrazione, vuole che i loro visini impomatati avvampino sgraziatamente e le loro manine morbide si contraggano sulle inutili vesti sgargianti. Vuole che soffrano, e che si sentano inferiori, come lei si è sentita inferiore.
Le sue sorellastre, capitanate dalla guida esperta e implacabile di Madame Tremaine, si impegnano quanto e più di tutte le altre per fare la miglior figura possibile.
“La bellezza non è una questione di connotati regolari, figura leggiadra e capigliatura folta, come amano pensare gli ingenui” decreta la matrigna di Ella. “Chiunque può ottenerla, se è disposto a patire la giusta sofferenza, ad essere paziente e a curare ogni minimo dettaglio alla perfezione. E, beh, se può permettersela, naturalmente”.
Ha venduto qualche mobile di pregio, la scultura che a sua madre piaceva tanto e l’arazzo in soggiorno per rimettere a nuovo le figlie, ed Ella deve ammettere che ne è valsa la pena: tutti gli scialbi capelli castani di Iris sono stati rasati per fare posto alla gloriosa parrucca di boccoli biondi acquistata nel più costoso salone da parrucchiere del villaggio, un monumento impressionante che sembra spargere pulviscolo dorato tutt’intorno quando la ragazza scuote la testa. Iris se ne gloria di continuo, asserendo che un tempo quelle erano chiome di principessa, ma Ella, proprio come i topi che appende in soffitta, vede e sente cose che gli altri ignorano, e conosce la verità: la costosissima parrucca della sua sorellastra altro non è che il crine d’oro pallido di una bellissima giumenta color castagna, furtivamente tagliato nottetempo nella stalla dal parrucchiere e arricciato nei boccoli che ora adornano il cranio nudo della ragazza.
Erica, dal canto suo, che è sempre stata un po’ pingue per la sua segreta abitudine di sgraffignare biscotti e tortine quando la madre non guarda, costringe i soffici fianchi in un corsetto ordinato nientemeno che da Nottingham, la capitale, fatto con stecche d’ossi di balena, e le cosce burrose in una terribile giarrettiera che strizza e comprime la carne in eccesso per poi spingerla a forza nei punti giusti, petto e glutei, restituendo la fasulla impressione di una figura da silfide. Così facendo, riesce ad infilarsi nell’abito di due taglie più piccolo che le è stato ordinato, anche se Ella la vede sudare, respirare con affanno e farsi aria a più riprese con il ventaglio. Madame Tremaine le ha imposto di indossare quella biancheria costrittiva giorni prima del ballo, per farci l’abitudine, e per impedirle una delle sue abbuffate: basta che Erica inghiotta a stento un piatto di cibo affinché le manchi il fiato e il suo colorito divenga verde di nausea, una sfumatura che ben si intona al suo vestito.
Ella applica loro maschere di fango e impacchi di olio di cocco, crema di latte e smalto luccicante, le pettina, le imbelletta, stringe i nastri dei loro corsetti sognando di soffocarle, e non può negare che tutti quegli sforzi sovrumani le trasformino, da esserini graziosi ed efebici, in creature di fascino ultraterreno e snellezza impressionante, ma d’altra parte le concorrenti sono tante, ugualmente agguerrite e spesso ugualmente avvenenti. Si chiede se Enrico sia tipo da farsi circuire da quei volti incipriati, da quella beltà artificiale, senza porsi domande su cosa si celi al di sotto, o se invece il suo sguardo sia profondo abbastanza da individuare la falsità. Ricorda quel guizzo avido quando le ha domandato se fosse una strega, e spera.
Non vuole una bambolina. Lui vuole la magia.

Il giorno del ballo, prima di recarsi in soffitta ad indossare il vestito incantato di sua madre, Ella accosta a capo chino Madame Tremaine mentre questa prova una parure di zaffiri splendenti davanti allo specchio, perfettamente intonati al blu intenso del suo abito.
“Madame” sussurra. “Ogni ragazza in età da marito è invitata al ballo. Vorrei venire con voi”.
Gli occhi di serpe della matrigna incrociano i suoi attraverso lo specchio: “Cosa?”
Ella deglutisce, non osa sostenerli: “Vorrei venire con voi”.
“Tu? Al palazzo reale?” ogni parola è infarcita di disprezzo. “Non hai niente di adeguato da metterti e non sai danzare. Ci faresti soltanto sfigurare”.
“Ma il proclama dice…”
“Io dico” la interrompe Madame Tremaine, implacabile. “Io”.
Per la prima volta, un fiotto di ribellione si accende nel petto di Ella: “Voi non siete mia madre”.
L’altra donna rimane impassibile: “Sì, non lo sono, grazie a Dio. Ma sono colei che ti mantiene. Colei che ti permette di sopravvivere. Senza di me, mendicheresti spiccioli e briciole di pane in mezzo alla strada, o venderesti il tuo corpo ai bifolchi. Ricordatelo bene, Cenerentola. Ti crederai anche superiore per via del talento della tua mammina, ma lei è morta, e tu non ne possiedi alcuno. Tu non hai armi, né risorse”.
Quelle sentenze glaciali la colpiscono come schiaffi e coltellate, perché gridano verità. Se sua madre fosse lì metterebbe a tacere quell’arpia sigillandole le labbra con il fil di ferro, la stessa cosa che ha fatto a quella bambina odiosa che aveva deriso Ella in sua presenza – “Brutto manico di scopa, brutto manico di…” – lasciandola a boccheggiare e a soffocare nel suo sangue. Se la mamma fosse lì, nessuno oserebbe offenderla e mortificarla.
Vorrebbe avventarsi sulla matrigna e colpirla con le mani nude, non potendo farlo grazie alla magia, ma si accontenta di ribadire in tono vacuo: “Voglio venire al ballo con voi”.
“Davvero? Allora seguimi!”
In un fruscio di crinoline e taffetà, Madame Tremaine la afferra per un polso e la trascina nelle cucine, ed Ella trattiene il respiro e barcolla sulla sua scia, chiedendosi cosa abbia in serbo per lei.
“Se ci tieni così tanto a farti ridere dietro a palazzo” scandisce la sua matrigna, non senza sadismo. “Saggiamo la tua determinazione”.
Afferra un piatto di lenticchie dal tavolo e, con un gesto stizzoso, violento, le rovescia tutte quante nella cenere del camino, che le inghiotte e le nasconde nelle sue spire color piombo.
“Se in due ore le sceglierai tutte” decreta Madame Tremaine, con il riso nella voce affettata. “Andrai anche tu al ballo”.

Nessuno riuscirebbe mai in quel compito impossibile, le è stato dato apposta perché fallisse e restasse tutta la sera a rotolarsi nella cenere, disperata e sudicia, mentre matrigna e sorellastre si immergono negli ori e nei luccichii del palazzo, godendo della vista e della compagnia di Enrico. Ella capisce in un lampo che non ha speranze, che per quanto frughi nel camino imbrattandosi di grigio fino ai gomiti, tossendo e macchiandosi faccia e capelli ancor più del solito, non farà in tempo.
Non senza magia.
Io non ho magia, non la ho!
Eppure, se rinuncia a quell’occasione, non potrà rivedere mai più il principe. Non avrà mai modo di scoprire se lui potrebbe amarla, e salvarla dalla miseria e dall’abiezione. Annegherà nella cenere e nella sporcizia e nei sogni infranti, dimenticherà chi è, il suo vero nome, sua madre, e sarà Cenerentola per sempre.
Le sue mani tremano mentre prendono dalla cavità nel pavimento della soffitta in cui ha stipato i suoi tesori il libriccino di incantesimi col rubino incastonato. Soffia sulla copertina e la polvere si alza in una nube spessa che la fa starnutire, le pagine scricchiolano quando comincia a sfogliarle, febbrile. Tutte le meraviglie, tutti i prodigi, sua madre li ha presi da lì, è quel tomo che le ha fornito una base su cui lavorare, che l’ha trasformata in una maga formidabile.
Ti prego, ti prego, ti prego…
Anatemi oscuri e formule complicate le scorrono davanti agli occhi, tutti quanti assurdamente difficili, assurdamente fuori dalla sua portata.
Per favore…
Si ferma di colpo, trasalendo; ne ha trovato uno non più facile degli altri, non più abbordabile per lei, al contrario. Ma qualcosa si è agitato nel suo stomaco quando ci ha posato sopra lo sguardo, si è sentita fredda come ghiaccio e calda come fuoco al tempo stesso e il cuore ha accelerato vertiginosamente i battiti. Avverte le tempie pulsare, il respiro mancarle, la gola stringersi in un nodo che è sia doloroso che piacevole e che la fa pensare all’eccitazione che ha provato subito dopo l’incontro col Principe Enrico. Fissa le parole che compongono l’incantesimo, le sente echeggiare nelle sue orecchie e nella sua mente, insieme canzonatorie e magnetiche, e scorrerle nel sangue facendolo pompare e ribollire nelle vene.
“Sei una strega?”
Senza esitare né riflettere, si infligge un taglio lungo e slabbrato sul braccio con un coltello per tagliare il pane e lascia sgocciolare sangue vermiglio in una ciotolina crepata, poi lo mescola a quello nerastro, grumoso ed essiccato dei suoi topi dondolanti e immobili. Mormora una cantilena, agitando la ciotola, e le sembra che il suo corpo frema e sussulti a ritmo, che il suo cuore batta più lentamente e con più forza, e che il suo fiato sia rovente. Sente la febbre arderle sulla pelle, la paura mescolarsi ad una strana, oscura fibrillazione.
Il libro non lo dice, ma sull’onda dell’istinto aggiunge alla cantilena, con voce flebile e rugginosa: “Dolci topolini miei, e voi, ratti, e voi, famelici sorci selvatici, venite e aiutatemi a scegliere le lenticchie. Le più buone me le date, le cattive le mangiate!”
Il sangue viscoso nella ciotola tremola e ribolle, un soffio d’aria innaturale penetra nella soffitta e agita la sua gonna frusta e i suoi capelli arruffati, un penetrante odore come di zucchero bruciato si addensa intorno a lei. Ella vacilla, la testa che gira, le energie che sembrano scorrere fuori dalle sue membra tutte insieme, ma riesce a tenersi in piedi, aggrappandosi al libriccino, al desiderio per il principe e all’odio per la matrigna, vietandosi di essere, ancora una volta, debole. Ora il cuore batte veloce, troppo veloce, quasi le sfonda la cassa toracica.
Con la vista appannata dalla fatica e dallo svenimento in agguato, scorge i topi e i ratti che ha strangolato e conservato, che ha ucciso e poi vezzeggiato, fremere in un universale, innaturale spasmo, e i loro occhi lattiginosi e bianchi spalancarsi nel buio, opachi come nebbia caliginosa. Quelli meno decomposti squittiscono, zampettando galvanizzati, mentre i più putrefatti si muovono a scatti, si trascinano, strisciano, seminando liquami oleosi e impronte insanguinate. Formano, in breve, una processione, un corteo lugubre che sa di marcio e di empio, e che tuttavia si dirige preciso nelle cucine, e poi si tuffa nella cenere, le zampette che raschiano, i musetti che fremono, le narici che si dilatano, mentre le bestie redivive scartano le lenticchie cattive e ammassano in un canto quelle buone.
Ella le fissa, a bocca aperta, il libro penzolante sul fianco, il cuore in tumulto, la stanchezza che ancora rischia di abbatterla, benché le si mescoli un’euforia violenta.
“Ce l’ho fatta… ce l’ho fatta!”
Non ha mai saputo dar vita ad oggetti e mobili come sua madre, né ha mai incantato strumenti in modo che suonassero da soli o ha intrappolato persone in specchi e quadri, eppure instillare la vita nelle sue bestiole, farne delle aiutanti… quello sì, le è riuscito. E in quel momento, ha la sensazione di trovare l’illuminazione, che la sua sia un’epifania a lungo attesa e sopita.
Scoppia a ridere, un riso sguaiato, delirante, gonfio di sollievo e di isteria, le lacrime le ripuliscono il viso dalla cenere e dalla sporcizia, mentre i topi semi decomposti le pongono ai piedi un oceano di lenticchie.

Quanto è dolce, lo sbigottimento che cancella per un attimo ogni arroganza, ogni veleno, dal viso incipriato della sua matrigna! La fa pensare a come tanti profani hanno reagito alle prodezze di sua madre, con lo stupore inebetito di pecorelle smarrite, l’oscura consapevolezza d’esser coinvolti in qualcosa di troppo grande per le loro deboli menti, le loro deboli mani, i loro deboli cuori. Sente un sorriso pizzicarle le labbra ma non vi è necessità di sorridere, è il piatto colmo di grani buoni che grida il suo trionfo, “Bisogna vincere con classe, cardellino mio” diceva sempre sua madre, e non è solo questo, Ella è cauta, le sofferenze e le umiliazioni e i giudizi hanno posto un freno al suo entusiasmo, e non si vuole giocare subito tutte le sue carte.
“Ho fatto ciò che mi avete chiesto, Madame” dice seria, con gli occhi che le brillano tra le ciocche fruste, occhi baluginanti di strega che, per una volta, Tremaine non riesce a sostenere. “Posso andare al ballo anch’io?”
La sua matrigna sbatte le palpebre una volta, come per mettere a fuoco i grani nel piatto, aver conferma del prodigio, dopodiché il suo sbigottimento si muta brusco, repentino, inaspettato, in un’ondata di furore, nell’astio velenoso degli inferiori messi dinnanzi alla loro inferiorità, e la sua mano curata dà un guizzo fulmineo, si abbatte sul piatto, lo rovescia in un diluvio di lenticchie.
“Hai imbrogliato” decreta con la voce che trema, con una rabbia malferma.
Ella si massaggia il polso, le ha fatto male, ma non lo lascia trasparire. Ha gli occhi che brillano come stelle di mezzanotte e li tiene puntati sulla faccia dell’altra, la vede scolorare e contorcersi e fare smorfie ridicole. Per una volta, non arretra, non bisbiglia, non si sottomette; parla con calma, scandendo le parole.
“Non ho imbrogliato”.
Le arriva uno schiaffo forte, come quello che Madame Tremaine le ha dato quando è morto suo padre, che la rovescia a terra tra le lenticchie, un fagotto lacero di cenere e d’ossa.
“Hai imbrogliato”. Una sentenza che le cala addosso con l’ineluttabilità di ciò che non è logico, che non si poggia su basi razionali, che è asserito per emozione e per questo non può essere confutato. “Sei infida come tua madre. E se anche non lo avessi fatto, non hai vestiti e non sai ballare; dovremmo vergognarci di te. Tu non vieni”.
Dal pavimento Ella solleva gli occhi che brillano come stelle di mezzanotte e ancora una volta li ficca in quelli della sua matrigna, la scorge rabbrividire, ricaccia indietro un altro sorriso che vuol squarciarle le labbra come un colpo di lama. Tu mi picchi, grosso ratto, pensa con un ribollio di vene cariche di magia, ma a ogni botta che mi dai, tanto più piccola ti fai.
“Avete promesso, Madame” dice monocorde. “E una promessa infranta è come una maledizione”.
La rabbia, sul volto pallido e tirato della sua matrigna, si tinge di paura.
“Non ho tempo per le tue farneticazioni” taglia corto con stizza simulata, con ostentata sicumera, e tira calci alle lenticchie per uscire dalla stanza, fa fare loro clacchete clacchete clacchete, un suono beffardo che sa d’incantesimo. “Io e le mie figlie siamo attese a palazzo”.
Ella la guarda uscire con occhi che brillano come stelle di mezzanotte e sente l’oscura fame dei topi in soffitta, ognuno collegato a lei da un filo invisibile, robusto come l’acciaio, nero come la necrosi, non vivo, non morto, eppure in risonanza con il suo animo, ansioso di ricevere i suoi ordini, di esistere attraverso la sua esistenza, finché glielo concede. Tutti quei fili vengono strattonati da postulanti bramosi di servire, bramosi di vendicare, ma dà una tirata netta per riportarli nei ranghi.
“Non ora, mie piccole bestiole” muove appena le labbra, lascia che i passi di matrigna e sorellastre lascino la casa, che il portone d’ingresso si richiuda con un tonfo. “Ogni azione ha delle conseguenze; e noi dobbiamo essere pronti ad affrontarle”.

Quando risale in soffitta e trova ad attenderla una terribile sorpresa, però, le piombano addosso i suoi sedici anni, le sue speranze, i suoi sogni, la sua ingenuità, e il bagliore nei suoi occhi è soffocato da un velo di lacrime di disperazione, di lacrime di collera.
“No!”
Mentre parlava con Madame Tremaine, Iris ed Erica devono essere sgattaiolate nel suo rifugio, aver frugato sotto lo sguardo lattiginoso dei topi nascosti in bui anfratti e umide cavità, essere arrivate alla botola nel pavimento in cui serbava gelosamente i suoi tesori. Cade rumorosamente in ginocchio nella polvere e raccoglie tra le braccia i frammenti squarciati, dilaniati, del violino di sua madre, gli stracci brutalmente profanati del vestito incantato che progettava di mettere per il ballo, che avrebbe ammaliato il suo dolce principe. Nessuna corrente di magia vibra più in quegli oggetti, giacciono morti e spenti e inutili come reliquie, e la brutalità con cui sono stati fatti a pezzi, la crudeltà con cui glieli hanno tolti, le spezzano il cuore. Grida e geme e singhiozza picchiando i pugni a terra e strappandosi i capelli, leva maledizioni stridule e promesse sconclusionate, a malapena bada alle bestiole semi decomposte che lentamente la circondano, strisciando, trascinandosi, fissandola senza vederla, in attesa di ordini. L’odio divampa nero e violento come un uragano e le solleva le chiome come fossero elettrificate, fa tremare pareti e soffitto sollevando ampie nubi di polvere, le cola dalle orecchie e dal naso e dalle labbra in filamenti biancastri e appiccicaticci che distorcono l’atmosfera, cambiano la realtà, risucchiano l’ossigeno.
Solo il libro col rubino si è salvato, il libriccino che ha riposto contro il seno, al sicuro nel corpetto sbrindellato, a contatto col cuore che batte selvaggio.
Nessuno la farà entrare a palazzo così conciata. Il Principe Enrico non la guarderà mai, si farà rubare il senno dalla bionda criniera artificiale di Iris, dalla figura ingannevolmente snella di Erica. Piange e ringhia e sibila e l’odio trabocca così feroce che si mescola a una folle, convulsa nostalgia.
L’incantesimo a me destinato.
Con occhi annebbiati dalle lacrime sfoglia le pagine scricchiolanti, arriva affannosamente all’ultima.
“Hai perso qualcosa, ma puoi riottenerlo: va’ sul sepolcro sotto al nocciolo e offri in sacrificio una parte di te stessa. Ciò che è morto tornerà dagli abissi per te, e sarà al tuo fianco per sempre”.
Dovrebbe tentennare come ha sempre tentennato, inorridire come è sempre inorridita, ma la furia l’alimenta, la sete di vendetta abbatte le remore, l’odio cantilena seducente, il prodigio compiuto sui topi le infonde sicurezza.
Non sono Cenerentola, sono Ella la strega, e non resterò tra la polvere e la sporcizia come un brutto topo bigio.

Quando arriva alla tomba sotto al nocciolo il sole sta calando oltre la linea dell’orizzonte e l’aria è gialla e malaticcia come quando è morto suo padre, densa di oscuri presagi e di magia che vuol venire a galla, plasmando la realtà. Le macchie di lavanda sono viola e purulente come lividi, la brughiera verde e marrone e grigia di torba, e quella stessa torba si solleva in zolle umide al passaggio di Ella e le fluttua alle spalle in uno strascico gocciolante di putredine, materia morta, materia sua che la riconosce ed è attirata da lei come la falena da una luce. Ella può percepire tutto ciò che giace nella terra, volpi e talpe e toporagni e salamandre e conigli che hanno smesso di respirare, ma non di avere un’utilità. Potrebbe infondergli un’anima di cartapesta con uno schiocco di dita, tessere un filo nero e marcescente dall’aria e legarglielo al collo perché le ubbidiscano, perché si strappino alle loro tombe senza nome, il bisogno è urgente e viscerale, ma ha un altro obiettivo, uno molto più tremendo, e non si attarda per creature insignificanti. A lei, del resto, bastano i topi: le zampettano dietro in un lungo corteo e il fruscio delle loro zampette è così rassicurante, lo squittio rugginoso delle loro gole decomposte così dolce.
“Ci siamo quasi, tesori miei” promette e l’odio le cammina a fianco con passi lunghi che lasciano impronte scure, ferali, nella torba, impronte di predatore affamato, di predatore rabbioso. “Ci siamo quasi”.
Giunta all’ombra violacea del nocciolo s’inginocchia nel fango e poggia una mano sul terreno, lo sente entrare sotto le unghie e sottolineare ogni ruga sul suo palmo, ogni poro della pelle. È così pregno di morte, eppure così pregno di vita perché la morte porta la vita, niente è altrettanto rigoglioso, niente dà al mondo altrettanto nutrimento. Sua madre giace là, sotto la sua mano, imprigionata in un sonno eterno, pigiata tra i vermi e le radici aggrovigliate e la terra nera e grassa. Sopra la sua fossa sono cresciuti dei funghi, un cerchio perfetto di sette funghi bianchi come neve appena caduta. Ella è contenta che si trovi in quella tomba senza nome, protetta dalla natura che non segue altre regole dalle sue; se l’avessero sepolta nei loro cimiteri, tra le ante di un cancello e le mura erette dagli uomini, se l’avessero mescolata ai loro corpi pesanti, ai loro vermi, alla loro necrosi, sarebbe stato come ucciderla di nuovo.
Il libro le sta aperto davanti, il sole ammicca in un ultimo bagliore sanguigno, l’aria greve, umida, rinvigorente, le entra nei polmoni in folate gonfie di magia, e quella stessa magia si accumula sulle punte delle dita, sulle labbra che si schiudono, nel ventre che si allarga e risucchia ogni cosa e ha fame di possederlo, cambiarlo, stravolgerlo. Ella rimane confinata nel suo sparuto corpo di sedicenne, di fanciulla vessata che dorme nella cenere e si rotola nelle ossa, ma ha al contempo l’impressione di espandersi, scagliarsi fuori dai confini deludenti della sua forma terrena, allargarsi a comprendere l’intero universo in ogni sua più piccola parte, di capire che c’è un flusso al di là di ogni cosa, una corrente inspiegabile che le menti semplici chiamano Dio, a cui hanno dato un volto a loro immagine e somiglianza, ma che non saranno mai in grado di definire, che li sconquasserà e consumerà e rinvigorirà senza concedersi, macinandoli nelle sue gigantesche pastoie, replicandoli ancora e ancora e ancora in un ciclo infinito. Per qualche strana ragione le vengono in mente i suoi topi quand’erano vivi, il loro frenetico moltiplicarsi, e sorride perché Madame Tremaine, le sue sorellastre, suo padre, forse persino il Principe, sono esattamente la stessa cosa, topi guidati dall’impulso primordiale di riprodursi che annaspano in Qualcosa che è appannaggio di pochi eletti, da cui soltanto pochi eletti possono trarre qualche esile filamento per piegarlo ai loro scopi.
“Mai prendere con troppa superbia, mio piccolo pappagallino” diceva sua madre. “Sii sempre grata alla Forza da cui attingi, se mai arriverai a farlo. Prova a prendertela con violenza, e Lei ti schiaccerà come fossi una formica; ma ringrazia di quel che ti è stato dato, paga il prezzo se hai l’ardire di chiedere di più, e vedrai un mondo oltre il mondo”.
Ella tesse fili robusti che non si spezzino nell’arduo tentativo che li attende, dipana una ragnatela con costanza e determinazione, e ogni bozzolo che trae da ciò che chiamava aria e che invece è Qualcosa di più, lo tira a sé con gratitudine, con deferenza, assicurandosi che le venga concesso. Sente subito che c’è una contropartita, che le tempie e il collo grondano di sudore, la stanchezza le appesantisce le membra e il fiato fatica a uscire, ma anche se gli occhi bruciano e il naso sanguina, anche se la vagina butta fiotti vermigli come se avesse il menarca e le unghie si orlano di rosso, continua paziente a tessere i suoi fili, li insinua sotto i funghi bianchi e la terra marrone, li aggancia strettamente al corpo divorato dai vermi, consumato dal tempo, e se sente di essere sul punto di svenire e che le forze le mancano, recide i fili che ha legato ai topi e li aggiunge agli altri, incurante delle bestie fedeli che crollano morte. 
Molti, troppi, si spezzano, ma altri vengono creati apposta per sostituirli e quando avverte che qualcosa si muove, che qualcuno si muove, geme e ridacchia e sbava in un parossismo di esultanza e, a furia di strattoni, sanguinando come un animale macellato sulla tomba sotto al nocciolo, convince sua madre ad emergere dal proprio loculo, a scavarsi la via con le unghie e la magia e a tornare a lei, una testa di capelli lunghi e gocciolanti che sbuca come fosse anch’essa un fungo limaccioso, mani scheletrite che premono sul terriccio e le sterpaglie per spingere fuori un corpo rinsecchito, un corpo lacero, coperto di stracci, d’una donna di cenere e d’ossa che della maga potente dei ricordi di Ella conserva una traccia sbiadita. Sua madre ha la guancia destra scarnificata, un buco nero che si spalanca in un volto di mummia antica, i denti scintillanti in una bocca senza più labbra, orbite vuote dove prima ardevano gli occhi, il colorito bluastro di un annegato. È così grande, così complessa da muovere, ma risponde al suo richiamo e la sua magia è rimasta intatta, diversa da quella di Ella, in grado di compiere meraviglie che le sono precluse come le sue meraviglie sarebbero precluse alla madre.
Voleva la vita eterna, le vien da pensare con un sorriso storto, e la vita eterna ha ottenuto, anche se è diversa da ciò che si aspettava.
La donna ricoperta di fango e di melma, coi lunghi capelli appiccicati, gli abiti a brandelli, la carne che si stacca dalle ossa in chiazze maleodoranti come quella d’un serpente che fa la muta, schiocca il collo per puntare le orbite su Ella e non pronuncia accuse, non maledice, neppure la tratta con la condiscendenza bonaria che le ha sempre mostrato. Ella temeva che l’avrebbe avuta in suo potere nella morte come l’aveva avuta in vita, ma la morte appartiene a lei, tira lei i fili, ed è il contrario, è sua madre che obbedisce, è sua madre che tace, e quel ribaltamento, quello scambio, la fa sentire più grande, più maestosa, più forte. È come scrollarsi di dosso la cenere e permettere alla pelle di respirare liberamente, come uscire dagli stracci e rivelare cosa celano. È come allontanarsi dal camino, dalla soffitta, dalla casa che era di sua madre e poi della sua matrigna, e incamminarsi nel mondo, costringerlo a gridare il suo nome.
“Chiedi,” con voce sepolcrale le dice l’apparizione e larve bianche le sgusciano tra i denti, colano in un fiotto sul terreno, entrano ed escono dalle cavità che si aprono sulla guancia e negli occhi e nel busto. La melma verde-marrone che ricopre sua madre è così spessa che fa somigliare anche lei ad un grosso verme informe, gonfio di magia. “E ti sarà dato”.
Ella ha smesso di tremare, di temere, di avvertire la stanchezza. Ella sorride sotto un cielo scuro, le stelle riflesse negli occhi.
“Scrollati, mamma, stammi a sentire” pronuncia con vigore. “D’oro e d’argento mi devi coprire!”
Sua madre leva una mano di scheletro, la agita con goffa scompostezza – com’era aggraziata, una volta, quanta teatralità in ogni gesto – eppure il prodigio si compie ugualmente. Via il sangue, via la cenere, via il sudore e gli stracci, eccola in un abito d’oro e d’argento, in due scarpette trapunte di seta e d’argento, le perle tra i capelli.
Sapeva che ci sarebbe stato un prezzo, ma che importava? Stava andando a divorare il suo stesso sogno perché si avverasse.

Come le parve bello, Enrico, e allo stesso tempo vuoto. In attesa di essere riempito. Quei suoi occhi cilestrini, quel suo ampio petto di maschio, l’alone di ricchezza e avvenenza che sprigionava e che attirava tutti quanti nelle sue vicinanze, esercitavano ancora un fascino irresistibile su di lei, la voglia di toccarlo e di farsi toccare, di morderlo e farsi mordere, di possederlo e farsi possedere, ma vedeva quanto fosse miope e impotente, quanto gli sfuggisse il senso stesso della realtà e godesse d’un potere meschino come quello d’esser figlio di re, di ereditare una corona, di spingere uno stormo di oche ad accapigliarsi per l’onore di un ballo e un baciamano. Era come un bambino, qualcosa di piccolo e fragile e sciocco con cui giocare, con cui trastullarsi, fino a romperlo, o a plasmarlo nella forma desiderata.
Così sua madre aveva visto suo padre? E anche lei, dal momento in cui aveva imparato la magia, aveva sentito che le sarebbe bastato tendere una mano per reclamarlo? Ella non si sentiva più inferiore, né sentiva lui irraggiungibile; Ella si fece largo tra le sue rivali nell’abito d’oro e d’argento, con le scarpette di seta e d’argento e le perle tra i capelli, e si vide riflessa nelle larghe pupille del principe, una creatura di sogno, il puzzo di morte che la circondava confuso col profumo delle possibilità che avrebbe offerto a chi le fosse stato accanto.
Enrico le era venuto incontro, l’aveva presa per mano, ipnotizzato, aveva voluto ballare solo con lei. Se qualcun altro glielo chiedeva, la stringeva più forte, le si aggrappava, e rispondeva con una vocina stantia di bimbo capriccioso “È la mia ballerina”. Ella rideva e rideva, una danza dopo l’altra, i volti illividiti di matrigna e sorellastre che apparivano ai margini del suo campo visivo in lampi fugaci, inconsistenti, dolcissimi. Era come ebbra, nessuna fatica, nessuna insicurezza, nessun rimpianto per tutte quelle fanciulle ignorate che tanto avevano penato per attrarre l’attenzione dell’erede. Un giorno c’era stata lei, in un angolo, a guardare, a soffrire, a rimasticare le voglie, e adesso che la ruota era girata, non avrebbe avuto pietà.
“Me ne vado” annuncia a mezzanotte spaccata, e la costernazione nello sguardo di Enrico la diverte.
“No, non andare” la supplica. “Dimmi chi sei”.
“Fa’ durare la festa fino a domani” gli risponde leziosa, tra l’oro e l’argento. “E forse te lo dirò”.
Poi si scioglie dalla sua stretta, si fa inghiottire dalla folla, lo lascia al suo desiderio frustrato, alle sue domande, ai fremiti, come lui ha fatto con lei nella brughiera.

“Maledetta lei!” stride Erica, liberandosi del corsetto e delle giarrettiere e di tutta la sua deliziosa gabbia costrittiva, la carne bianca e adiposa che esplode straripando.
“Maledetta lei!” ripete Iris, strappandosi a manciate la lussureggiante parrucca, i capelli così corti e scialbi al di sotto.
Madame Tremaine non dice niente ma le sue labbra sono un sottile filo rosso che Ella potrebbe divertirsi a strappare, se gliene venisse la voglia.
“Maledetta chi?” chiede con falsa innocenza, di nuovo coperta di cenere, di nuovo mucchio di esili ossa.
“La principessa”. Odio dolce come miele a colorare le voci delle sorellastre, a distorcere i pallidi visini, a piegare le mani in pugni artigliati. “La principessa misteriosa che ha rubato il cuore del principe!”
Ella nasconde la risata che le sale da dentro dietro una maschera vacua, perché la vittoria ride a chi sa aspettare e i tempi non sono maturi per reclamare la sua vendetta. Quando lo farà, si assicurerà che sarà tenera come carne d’agnello, sanguinosa come un massacro. Quando lo farà, di quei tre insetti non sarà rimasta che cenere.
Gli occhi di Madame Tremaine la guardano fisso, oscurati da un sospetto incalzante a cui la matrigna non dà voce. Ha paura, povera creaturina inerme, come tutte le prede che percepiscono al fiuto il predatore, ed Ella risucchia quella paura come risucchiava scarafaggi e ragni quando non aveva altro con cui nutrirsi, come risucchiava brandelli rinsecchiti di carne di topo.
“Ci sarà festa anche domani” annuncia semplicemente e smette di guardarla, occhietti opachi che fuggono via. “Devi iniziare subito a lavare, stirare e lisciare i nostri abiti da ballo”.
“Obbedisco, Madame”. L’angolosa colonna vertebrale le scricchiola come un ramoscello nodoso quando si china giudiziosamente. Al riparo delle ciocche fruste e aggrovigliate dei suoi capelli, brilla un sorriso tutto denti giallastri. “Obbedisco”.

Torna al ballo che sua madre le ha fatto un nuovo vestito, argenteo e scintillante come luce lunare, diafano come una tela di ragno e con ricami altrettanto complessi che si rincorrono ovunque, sulla gonna, sul bustino, sul colletto, sulle maniche, tortuosi arabeschi che tessono in una trama incomprensibile la storia del suo trionfo. Sul capo, in mezzo all’acconciatura elaborata, luccica un diadema d’argento e anche quello ha la forma d’una piccola, elegante ragnatela, stessa cosa la collana dai mille intrecci che le poggia sul seno. Ella si sente ragno piuttosto che topo, adesso, erto al centro d’una tela gigantesca, una tela vibrante di magia, le zampe che non smettono un istante di torcere e stuzzicare i fili, le schioccanti mandibole che secernono sfavillanti rivoli di seta, e chiunque incontri in quella ragnatela ci cade, in quella ragnatela si dibatte, ogni contorsione che avviluppa di più gli appiccicosi fili alla carne, ogni gemito soffocato dalla disperazione. Si scorge riflessa negli occhi del principe, gonfi di lussuria, gonfi di stupidità, e non trattiene un sorriso quando lui si fa largo nella folla, tra le dame ignorate, e le prende le mani con reverenza.
“Sei tornata”.
“L’ho promesso”. Il sangue le canta nelle vene. “Una promessa infranta è come una maledizione”.
Danzano un paio di valzer, ma stavolta, Ella non si crogiola nell’invidia delle altre, nell’ammaliamento del cavaliere che la tiene tra le braccia forti di maschio. Si alza sulle punte delle scarpette di cristallo per sussurrargli qualche parola e lui si accende, stravolto di fame, annuisce e la scorta a braccetto nelle lunghe ombre del giardino, sotto il chiarore di una luna che niente può contro l’oscurità della notte. E’ un parco grande, quello del palazzo reale, un labirinto di siepi e panchine e roseti in cui perdersi è facile come respirare, ed è con rapidità malandrina che si sottrae alla stretta del principe e corre nel buio, tra le foglie e la ghiaia, attenta a non seminarlo, facendosi inseguire.
“Fermati!” lui ordina con la cadenza di chi è abituato ad essere esaudito, ha la frustrazione di un bambino a cui viene negato il giocattolo. “Fermati!”
Ella ride e lascia che quella risata lo guidi attraverso la muraglia della vegetazione, tra le rose e il mughetto, la piracanta e le dalie dai mille colori. Sfiora con le dita quelle corolle sgargianti, quei petali morbidi, e li vede incartapecorirsi e annerire, ogni foglia e fiore e pianticella che tocca avvizzisce e muore. È anche quello un sentiero, a modo suo, un sistema perché lui non la perda, e infatti le tiene dietro.
“Fermati!” annaspa furibondo. “Fermati!”
Ella finge di perdere una delle scarpette di cristallo, lo ode chinarsi a raccoglierla, trovare la direzione giusta grazie a quella traccia della sua presenza. Nella sua voce risuona una nota più fragile, una nota impaurita.
“Fermati…”
Non lo ha ordinato, stavolta, lo ha supplicato, tenero virgulto cresciuto in una gabbia dorata di carezze e devozione, testolina coronata che ha avuto tutto ciò che lei poteva solo sognare tra le pareti di una soffitta, in mezzo allo squittire dei topi che le mordevano le caviglie, al brulicare d’insetti che le strisciavano sul giaciglio, eppure Ella si ferma, le tenebre che la coccolano e la nascondono come una muraglia nera, la sagoma imponente del castello, con le sue luci artificiali e il suo fasto di facciata, abbastanza lontana perché nessuno li senta, perché nessuno li veda. Gira su sé stessa in un fruscio di seta impalpabile come tela di ragno e la mosca è lì, affannata e col respiro rotto, scarmigliata e rossa in volto per l’umiliazione e la collera, la scarpetta stretta tra le dita. Le ricorda suo padre, in quel momento, e quanto fosse inutile; quanto non l’abbia mai difesa, né confortata, né capita. Sua madre era un mostro, probabilmente, ma tra mostri ci si comprende. Tra mostri ci si accetta, e ci si ama d’un amore che sa di marcio, su cui crescono i licheni e inverdisce la muffa.
Il principe la scorge a malapena nell’oscurità affamata, ma impallidisce come tutte le prede naturali al cospetto del predatore ed Ella può leggere il suo pentimento, come all’improvviso maledica la lussuria e l’incoscienza che lo hanno portato lì, tra le ombre, nella tela del ragno, una scarpetta di cristallo in mano.
“Cosa sei?” chiede in un soffio strozzato, da animale al macello, ma Ella stringe un pugno guantato di seta e gli toglie fiato ai polmoni, serra l’altro e gli arresta il battito cardiaco. Lui sussulta, una, due, tre volte, come una marionetta a cui hanno reciso i fili – o a cui vengono impiantati – diventa cianotico per qualche secondo sciropposo come melassa, poi l’ultima luce in quella notte senza stelle, la luce della vita nei suoi occhi, si spegne ed eccoli a fissare la luna senza vederla, sbarrati e lattiginosi.
È ancora caldo, nessuna rigidità nelle membra, e ad Ella non costa alcuno sforzo farlo rialzare, un po’ goffo e pesante, la testa ciondoloni, le braccia che pendono lungo i fianchi. In un tempo vicino ma lontanissimo, ha sognato che la possedesse, ma adesso sogna molto di più, perché può ottenere molto di più. Nessuna arroganza sul bel viso del principe, nessuna convinzione d’essere migliore degli altri solo perché ha preso il primo respiro in un palazzo piuttosto che in una catapecchia. Il respiro è soltanto un soffio effimero e cessa per tutti, anche quelli che esalano l’ultimo in un castello piuttosto che in una stamberga.
Le tende la mano ed Ella la prende, le preme le labbra già fredde sulle labbra brucianti. È un bacio che si dà da sola e che si gusta con la bocca aperta e la lingua che stuzzica quella inerte del principe, le mani che gli corrono sulla schiena forte e i capelli lanuginosi. Non può opporsi e non può deluderla, e tutto sommato è meglio così; la sua breve vita le ha insegnato che tutti finiscono per deluderti, fintantoché respirano.
Il principe morto si mette in ginocchio ai piedi di lei, fanciulla di cenere, fanciulla di ossa, e con una delicatezza che non avrebbe mai avuto quando ancora aveva l’anima la aiuta a calzare la scarpetta di cristallo. Il viso è rivolto verso l’alto, verso Ella, e privo d’espressione come un calco d’argilla, ma sorriderà, se lei lo vuole, si scioglierà, se lei lo comanda, ed è questo l’importante. Non conta ciò che una creatura è, ma ciò che rappresenta. Ciò che può dare,
“Ti amo” le dice con una voce che sa già di terra e di vermi, e quegli occhi come dischi bianchi e privi di luce non servono ad altro che a restituirle il suo riflesso. “Ti amo e ti amerò per sempre, mia dolce, bellissima favola”.
Con quella stessa voce annuncerà alla corte il suo imminente matrimonio con la principessa misteriosa.

Sta all’altare con la corona sul capo e gli splendidi ornamenti della regalità a trasformarlo in un sogno fatto carne, investito del desiderio e dell’adorazione di tutti, una folla di ciechi che dalle panche non nota quanto sia pallido, quanto sia rigido, quanto opachi e lattiginosi gli occhi che rivolge alla sua sposa. Sta all’altare come la marionetta ammaestrata che è, pronto a donarle il regno, pronto ad offrirle il suo cuore putrefatto su un piatto d’argento, ed Ella incede lungo la navata con un abito fatto di seta di fili di ragno, una ragnatela a farle da velo, tracce di cenere sullo strascico per non dimenticare mai da dov’è venuta, per non farsi ottenebrare dalla superbia come è accaduto a sua madre.
Lei non ha avuto un principe, pensa e sorride tra le scroscianti colate d’invidia che le arrivano da ogni parte, invidia che corrode eppure addolcisce come solo un trionfo sa fare, un sentiero di cenere alle sue spalle dove striscia lo strascico, topi morti a occhieggiare dagli angoli bui, dal soffitto della cattedrale e le grondaie che hanno rubato ai piccioni e ai colombi. Lei non è stata regina.
Nessuno nota l’inganno, nessuno scorge brillare la ragnatela attraverso le lame di luce solare che filtrano dalle alte finestre splendenti, i fili che sostengono in piedi il cadavere del loro principe. Povero caro, Ella riflette superando matrigna e sorellastre che fremono d’odio e che l’odio imbruttisce fino a renderle megere, che per tanto tempo l’hanno incatenata e derisa e soffocata nello sporco, nessuno ti amava davvero. La tua anima è persa e nessuno coglie la differenza. Sei sempre stato solo un principe e mai Enrico. Un fantoccio prima, un fantoccio ora.
Quando si posiziona al suo fianco dinnanzi all’altare le labbra bluastre di lui si piegano rigidamente in un sorriso che evidenzia gli occhi infossati e la pelle grigia come uno strato di cenere, la lingua nera e gonfia nella bocca che sa di terra e vermi e marciume. Ha rallentato la sua decomposizione, ma le basta che la sposi e che le dia il suo regno; ci sarà un nocciolo anche per lui, allora, funghi bianchi come neve e sterpaglie e torba a crescergli sopra, a proliferargli addosso. Tutti coloro che Ella ha ucciso avranno un nocciolo, e la natura selvaggia con cui fondersi.
“È una follia!” improvvisamente stride Madame Tremaine, nel momento in cui la cerimonia è al suo acme. È balzata in piedi come una furia, patetica e debole e assolutamente incapace di rassegnarsi alla sua inferiorità, come tutte le prede. Stringe un polso a Iris e un polso a Erica con dita di ferro e ignora le loro smorfie contrite, non ha occhi che per la sua figliastra ripulita dalla cenere. “Quella è una strega!” la indica a tutti, solleva mormorii di costernazione. “Una subdola incantatrice, esattamente come la madre, che ha irretito il principe con un trucco! Non dovete credere a questa farsa! Non dovete farne la vostra regina! È una strega! È una…”
I topi hanno atteso a lungo, ed Ella mantiene le sue promesse. Sciamano all’improvviso fuori dai loro anfratti, si riversano nel biancore e nel lusso della cattedrale tra le urla di raccapriccio degli astanti, ma è solo Madame Tremaine che puntano. Le sono sopra in un attimo, incuranti delle sue grida, incuranti del suo dibattersi di insetto girato sulla schiena, e la rovesciano sul pavimento, la ricoprono come un sudario sbrindellato di membra rachitiche, zampe fameliche, dentini aguzzi che strappano, rosicchiano, azzannano. La matrigna di Ella rantola e singhiozza, sgroppa furiosamente per staccarseli di dosso senza riuscirci mentre le fanno a brandelli il viso, le spolpano i fianchi, le succhiano il sangue dalle vene sottili.
“Madre!”
Iris ed Erica fanno per aiutarla, due cagnette che scattano in soccorso della padrona che tiene i loro guinzagli. C’è un colombo dalle ali logore e dalla carne bucata dalla putrefazione che cala in picchiata su ognuna, che si avventa sugli occhi e li cava a suon di beccate, tra il sangue che schizza e la sofferenza che le fa strillare come maiali macellati. Si scontrano, brancolano, sbavano sulle facce martoriate e insanguinate, e non hanno più pupille con cui sferzare Ella, schernire Ella, squadrarla dall’alto in basso. Non riescono neppure ad aiutare la madre che ha cessato di dibattersi e non è altro che un mucchietto di ossa sotto a un tappeto di topi, cenci sparsi e una vera nuziale.
“Erano loro le streghe”. È la voce smorta, ma ancora inconfondibile del principe a risuonare tra le navate, a placare l’isteria degli astanti. Bello e rassicurante come un eroe di fiaba, fissa i sudditi con occhi slavati e sorride ancora con le labbra bluastre, la parodia sfiorita del suo vecchio sorriso che ancora fa palpitare i cuori. Un braccio saldamente agganciato alla vita di Ella, i fili che lo tengono stretto per la sua scena madre. “Erano loro le streghe e, entrando in questo santo luogo, sono state punite”. I ratti squittiscono disorientati cercando altra carne da mordere tra i resti spolpati della matrigna, Iris ed Erica non hanno più lacrime da piangere da quei fori neri che prima erano occhi. “Nessuna strega può stare tra queste pareti e sopravvivere”. Una menzogna così sciocca, illogica e ridicola, come se bastasse un tempio costruito dagli uomini ad arginare la magia che è in ogni cosa e governa ogni cosa, inclusa quella cattedrale che potrebbe far crollare dalle fondamenta in quell’esatto istante, eppure è ciò che gli stupidi vogliono, è ciò a cui gli stupidi si aggrappano per non sentirsi così soli, per non sentirsi così indifesi. “La mia sposa non è affatto una strega” aggiunge quello che era Enrico e ora è solo una maschera di regalità. “Potete vederlo con i vostri occhi”.

“Ti amo” le dirà tra i tendaggi del talamo quella notte, spingendosi dentro di lei al ritmo che lei gli ha dettato, fissandola dietro le cateratte sempre più spesse, sempre più bianche, le pupille ormai svanite. La copre di baci che sanno di marcio, la spoglia con mani di ghiaccio. “Ti amo e t’amerò per sempre, mia regina della morte, mia fanciulla di cenere e d’ossa, mio topolino bigio, mio ragno”.
“Sei stato bravo” gli risponderà lei, serrandolo nel cerchio delle sue cosce striate di sudore e accaldate di vita. “Presto potrai riposare”.

Un mazzolino di fiori di campo ad adornare la tomba sotto al nocciolo, a sfoggiare i petali vivaci in mezzo al cerchio di funghi bianchi, e una mano che preme sul suolo e che fa sussultare le spoglie che giacciono nell’abbraccio geloso e umido della terra, che ad un cenno di Ella sono tornate alla luce per vestirla d’argento e di perle, per donarle scarpette di cristallo e un abito di seta di fili di ragno.
“Hai fatto molti errori, mamma” sussurra confidenziale. “Ma mi hai insegnato più di chiunque altro, ed è a te che devo ciò che sono, ammesso che chi siamo conti qualcosa. Mi hai creato perché ti riportassi alla vita e l’ho fatto, mi hai creduta un topolino innocuo e coperto di cenere e invece ero un ragno velenoso. Ti amo e ti amerò per sempre”. Ratti e colombi e bisce circondano la tomba e osservano, nell’immobilità paziente di chi non ha più respiri da esalare. “Scusa se t’ho ucciso. Giuro che non volevo”. Il suo pugno tremante che le fermava il cuore nel petto, una magia inesperta e incontrollabile che si manifestava senza il suo permesso e poi veniva seppellita dallo shock, lo sgomento che aveva tinto di un pallore mortale il viso di sua madre, il viso della sua creatrice. Ella non ci ripensava mai ma adesso lo fa, perché la morte è al suo comando e non le fa paura. “Sarò potente per entrambe, più di quanto tu lo sia mai stata”.
Il libriccino di incantesimi le riposa sul seno, all’interno del corpetto, e le sussurra idee per plasmare il regno secondo la sua volontà, le dipinge nella mente un futuro sfolgorante e senza cenere, pulito come un gioiello. Sorride tra sé, la terra che le penetra sotto le unghie, che le imbratta l’abito regale.
“Riposa, mamma” canticchia dolcemente. “Riposa… finché non deciderò diversamente”. 

 

  
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