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Autore: Fe_    08/01/2023    4 recensioni
Fanfiction interattiva- iscrizioni chiuse
Quando le cose vanno troppo bene, anche i semidei dimenticano i pericoli.
I due Campi sono in pace, addirittura gli scambi sono frequenti e molti figli di dei, una volta cresciuti, decidono di studiare a presso i romani. La pace porta prosperità, la prosperità fa venir voglia di superare i confini: il college di Nuova Roma organizza un viaggio-studio nel vecchio mondo, un anno che i suoi studenti non dimenticheranno.
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Dal testo:
«Dove andate di bello? Dai greci?» Trillò allegra una vocina infantile. Entrambi si voltarono verso un bimbetto di circa cinque anni; era stato lui a parlare dalla destra di Isaac, gli occhioni nocciola erano rivolti ad un animaletto di pezza. «Mamma dice che potrei andarci anche io, da grande, e che è bello. Mi ci portate?»
«Non al campo greco, Andrew. Alcuni semidei andranno molto più lontano, fuori dall’America addirittura, così quando torneranno potranno raccontarvi molte storie nuove.» Rispose il più grande, con la solita voce dolce di quando spiegava. Andrea aggrottò le sopracciglia, e dopo qualche istante allungò le manine porgendogli il peluche, un coniglietto rosa slavato con una cravattina viola ed un sorriso allegro.
«Allora porta Pie, ti proteggerà!»
Genere: Avventura, Comico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1

Prove




Quel venerdì la mattinata era iniziata con pesanti nubi che rotolavano nel cielo, grigie e cariche di pioggia.
        Eugene sapeva che, qualche anno prima, le barriere magiche che proteggevano il campo Giove avevano anche funzione clima-regolatrice, ma già da quando era diventato legionario l’opzione era stata soppressa in modo da lasciar sperimentare ai semidei un mondo più realistico ed imprevedibile. L’aria di fine marzo, già non particolarmente temperata, si era raffreddata ulteriormente con l’alzarsi dell’umidità e poteva benissimo immaginare il proprio naso arrossarsi in segno di protesta.
        Arrancò verso il Campo Marzio, già ingombro di semidei inzaccherati, e si avviò di puro istinto verso il banchetto medico che anche all’aperto aveva il tipico odore dell’alcool per pulire le ferite. Alexander, che si era prestato al turno di guardia, spostò lo sguardo dal telefono di un improbabile giallo che stava guardando ed alzò un sopracciglio, evidentemente confuso dal suo arrivo; solo in quel momento Eugene si rese conto di cosa stava facendo, e lo salutò con una mano.
        «Deformazione professionale?» Chiese Alexander aprendosi ad un sorriso, quindi gli indicò con i soli occhi una ragazza alta e ben piazzata che pareva un’ancora di ordine nel caos di ragazzi armati. «Vai da Lizard, hanno incastrato lei per questo turno di organizzazione.»
        «Grazie. Tutto a posto?»
«Per ora sì, ma la giornata è ancora lunga.»
        Eugene annuì a quelle parole, consapevole che se qualcuno poteva lamentare una cosa del genere era il figlio di Apollo; il soccorso sul campo, per quanto spesso sottovalutato, era probabilmente la linea di difesa più utile per salvare gli arti dei ragazzini iperattivi a cui venivano date spade e lance. Sua madre soleva ripetergli che la loro era una famiglia di guaritori, non di soldati, ma spesso si chiedeva se l’organizzazione del Campo non fosse troppo rapida ad armare i suoi membri.
        Superò le prime combattenti, due ragazze che stavano un poco in disparte rispetto agli altri probabilmente a causa delle armi non esattamente regolamentari che impugnavano: una aveva una lunga frusta nel cui cuoio era intrecciato del bronzo celeste dal colore scuro, segno ancor più evidente della sua appartenenza al campo greco. Nonostante potesse sembrare irragionevole affrontarla, la rossa che le si opponeva sembrava difendersi bene con i suoi pugnali da lancio. Eugene era certo di conoscerle entrambe almeno di vista, anche se non riusciva a ricordare i loro nomi, perché le aveva viste più di qualche volta in infermeria, per controlli o accompagnare qualcuno.
        Poco oltre, invece, due ragazzi che riconobbe come dipendenti del bar di Lizard stessa; la loro presenza giustificava in parte l’espressione seccata sul volto della ragazza, che stava probabilmente già pensando a come sostituirli o rompere loro una gamba con una micidiale ciabattata degna di Maw-Maw. Riconobbe Laisren perché aveva, al solito, un abbigliamento ai limiti del ridicolo: i jeans si reggevano a spille da balia e preghiere tanto erano strappati, e sotto si vedevano solo delle improbabili quanto leggere calze a rete; Eugene aveva i brividi di freddo al solo guardarlo, e si strinse un poco meglio nel suo giubbino imbottito.
        «Gene, mi angelito¹, muoviti o ti farò aspettare così tanto il tuo turno da lasciarti congelare.» La voce di Lizard, ruvida ed improvvisa, lo riscosse dal quel pensiero. «La tua arma di preferenza è il pugnale, no? Gli archi verranno fatti dopo, dato che in uno scontro diretto non si possono utilizzare.»
        «Grazie, cher², non aspetto altro.» Nonostante l’evidente tono sarcastico, Eugene si avvicinò alla giovane donna con un sorriso appena accennato, come se l’implicita minaccia lo divertisse. «Anche se penso di poter resistere più di te. I pantaloncini che indossi sono in jeans, che non tiene il calore nemmeno se glielo chiedi in tutte le lingue del campo.»
        «Se non altro sono carini. Tu hai cosa, due volte il tuo peso addosso? Devo ricordarti che Persefone è già venuta a romperci le palle?»
«Mai abbastanza, fa freddo ancora. Dai, con chi devo far sta pagliacciata? Dammi due pugnali e qualcuno che non mi maltratti troppo, finito qui devo studiare.» Eugene allungò una mano prima ancora di finire la frase, perché Lizard lo aveva anticipato abbastanza da prendere le armi richieste, lunghe metà del suo avambraccio e con l’impugnatura fasciata di cuoio vecchio. Sotto le dita era morbido, levigato da decine di mani, e una volta stretto gli restituì una flebile traccia di calore.
        «Kai, Eugene.» Mentre ancora soppesava i coltelli, ai due si era avvicinato un ragazzo alto con un’assurda massa di lunghi ricci biondi. «Eugene, Kai. Combattimento pulito e tutte cose, se vi rompete qualcosa correte da Alexander prima che arrivi io a darvi il resto.» Fatte le presentazioni, Lizard li congedò per andar da due ragazze, una delle quali teneva l’altra bloccata dalla schiena. Quella a terra aveva vistosi capelli blu e, nonostante non fosse peculiare come poteva sembrare lì al campo, il moro vi riconobbe comunque una figlia di Apollo che studiava medicina come lui.
        Eugene si voltò verso il suo avversario: aveva il vago ricordo del ragazzo, qualcosa che aveva a che fare con l’étouffée di gamberi di sua nonna, ma aveva completamente cancellato i quindici centimetri che dividevano i loro occhi. Si passò stancamente le dita tra i capelli, nella vana speranza di dare un senso alla zazzera nera che si stava facendo di nuovo troppo lunga, poi portò il secondo pugnale alla mano libera e strinse il manico, per nulla pronto ad arrendersi e lamentarsi.
        Dopotutto, la stazza non era tutto. E non avrebbero di certo mandato solo i migliori combattenti… c’erano altre due prove, no?


Il combattimento sembrava tutto meno che un combattimento.
        Solange saltava, parava e colpiva, ma l’intera coreografia le suonava come una danza la cui musica erano risate; Berenice, un improbabile martello da guerra tra le mani, era un’avversaria che offriva una sfida divertente e non impossibile: la torta al caramello che aveva sacrificato a suo padre doveva essere servita, in qualche modo.
        «Destra, Nice! Destra!» Esclamò allegramente, procedendo senza lo spazio di un secondo a colpire con il pugnale che teneva in quella mano; la mora scartò di lato con un sorriso, solo le punte della lunga treccia ad incontrare la lama.
        «Vuoi cambiarmi il look?»
«Mai toccare i capelli e i vestiti di una figlia di Afrodite?» Ribatté Solange scherzosa, guadagnandosi una linguaccia dalla stessa. Berenice fece per caricare un colpo, ma il terreno ancora un poco scivoloso le fu nemico e finì per cadere su un ginocchio. Probabilmente il colpo era stato attutito dall’erba umida, che le avrebbe al massimo sporcato la ginocchiera dell’armatura leggera che entrambe indossavano, ma Solange non impiegò più di un secondo per lasciar andare i pugnali. Caddero a terra con un rumore sordo.
        «Nice?!» Le si avvicinò senza riflettere, posandole le mani sulle spalle e controllando d’istinto il suo viso in cerca di indizi di dolore. «Ti fa male?»
        Berenice alzò il viso e le prese il polso, torcendolo con una mossa brusca dietro la sua schiena. Solange non poté che seguirla con lo sguardo, gli occhi verde-azzurri ingigantiti dalla sorpresa, finché l’altra non scomparve dietro la sua schiena; si ritrovò a terra, le braccia bloccate, mentre la mora la teneva immobilizzata.
        «Sei una bugiarda peggio di… di… peggio di Cersei! Bugiarda e manipolatrice!» La accusò, anche se non c’era rabbia nella sua voce. Berenice rise di quelle parole, poi le schioccò un bacio sulla guancia.
        «Lo prendo come un complimento. A me Cersei piaceva, sai?»
«Dai Nice, a nessuno piace Cersei.»
        «Signorine, gradite anche tè e biscotti?» Lizard le interruppe con un sospiro seccato, abituata alle bizzarrie di entrambe. Solange aveva l’impressione che le apprezzasse molto di più singolarmente, mentre quando erano vicine la loro carica energica fosse eccessiva per la figlia di Menta, quindi le rivolse un sorriso di scuse.
        «No, capo!»
«Non chiamarmi capo.»
        «Certo, capo!»
«Vuoi essere spostata con uno dei Visser?» Lizard aveva sempre un tono vagamente materno, anche nelle minacce, e Solange si limitò a sorriderle senza davvero capire come un cambio di partner potesse risultare una minaccia. La mora inclinò il capo in direzione di Isaac che, imbottito come un pupazzetto, stava provando delle semplici figure di spada con un ragazzetto minuto ma abbastanza ben piazzato che non sembrava troppo convinto delle sue azioni.
        «… sì, sembra assolutamente terribile.» Commentò a bassa voce verso Berenice, che rise del suo tono privo di inflessione. All’occhiataccia dell’esaminatrice, scattarono entrambe sull’attenti.
        «Liz.» La chiamò la figlia di Venere, allungando in modo languido la vocale e avvicinandosi fino ad arrivare a posarsi teatralmente su Lizard. «Non puoi solo confermare che siamo brave? Bravissime? Perfette per la missione?»
        «Potete andare, se volete. Tanto ho visto abbastanza.» La maggiore si avvicinò appena per sforarle la guancia con un bacio, per poi aggiungere: «Comunque no, sei stata tremenda, cerca di impegnarti con gli esami perché le tue tecniche non funzionano coi mostri. E anche tu, Sol, se verrai presa non sarà per il combattimento. Soccorrere così il nemico, bah!»
        L’ultima parte era stata detta a voce più alta, per raggiungere le orecchie della diretta interessata, ma non solo, e la risata allegra e contagiosa di Chava seguì in maniera assolutamente naturale le parole, strappando a Solange un sorriso che di imbarazzato aveva ben poco. Voltandosi per salutare l’amica e collega, vide prima una massa di deliziosi ricciolini neri e solo in un secondo momento il ragazzo si voltò, concedendole solo uno spiraglio dell’allegra espressione che lo contraddistingueva.
        Non ascoltarla, stella! Le mimò con le labbra, poi tornare a concentrarsi sul suo combattimento: nonostante non fosse così imponente come ragazzo, qualche centimetro sopra il metro e settanta ed una figura slanciata, roteava una grande falce con la stessa agilità e potenza con cui Nice aveva maneggiato il suo martello pochi minuti prima; Sol si perse solo un momento per chiedersi se davvero i romani fossero più militari e compatti dei greci, spesso da loro definiti troppo anticonformisti, perché raramente aveva visto un tale assortimento di armi non regolamentari e lasciati alle bizzarrie individuali.
        «Niente da fare, Sol. La mia vita, l’amore mio, è insensibile alle lacrime della sua anima gemella e non ci darà nemmeno un piccolo vantaggio.» La ricosse Berenice, avvicinandosi e passandole un braccio ben allenato attorno alle spalle. Abituata al tono melodrammatico dell’altra, la figlia di Apollo le si appoggiò addosso con altrettanta teatralità e sospirò.
        «Crudele, Nice! Dovresti lasciarla e trovare qualcuno che ti apprezzi di più.» L’assecondò, guadagnandosi un’occhiata per nulla preoccupata di Lizard. Berenice le rifilò un’infantile linguaccia.
        «Sentito, amore mio? Qualcuno che mi apprezzi!»
«Va bene, va bene, dirò a Maia che ci hai lasciate di nuovo per Sol. Vedi di farlo durare più di dieci minuti stavolta.»
        «Mica la lascio, Maia! Tengo lei e Sol, e lascio te.»


Il terreno, una volta battuto e compatto, mostrava i segni evidenti dei combattimenti della mattina. Philo, dall’alto della sua inesistenza esperienza in battaglia, aveva indossato le sue solite scarpe e la suola consumata rendeva il campo particolarmente insidioso mentre si avvicinava con passo non esattamente sicuro all’istruttore che si erigeva vicino alla griglia degli archi.
        Il giovane uomo aveva un’aria irritata, le braccia muscolose incrociate sul petto, e avrebbe messo una certa soggezione se Philo non lo avesse conosciuto: era un legionario di Roma agli ultimi anni di servizio che gli aveva dato qualche sparuta lezione di spada. Leonard, si chiamava, lo squadrò con gli occhi di un’angosciante sfumatura rossa poi si allungò per prendere un arco appena più corto degli altri.
        «Provalo, prima, ma non dovrebbe essere troppo rigido per te.» L’accento che aveva, duro, rendeva l’americano che parlava quasi buffo e Philo non poté non sorridere a quella burbera dimostrazione di cura. Tirò gentilmente la corda per testarne l’elasticità: anche se sembrava adatto a lui, già lo sapeva, il giorno dopo avrebbe avuto le spalle doloranti. Si era avvicinato all’arco per la sua discendenza divina, essendo un tipo molto poco sportivo, ma si era presto reso conto che anche quello richiedeva una certa forza e un allenamento non indifferenti.
        «Perfetto, grazie.»
«Cerca solo di concentrarti. Poche frecce scoccate che vanno a segno sono meglio di molte sul terreno.» Consigliò, e il figlio di Anteros alzò allegramente un pollice prima di riprendere il suo percorso verso il capo più vicino della fila di arcieri, un’ordinata linea di ragazzi e ragazze, in parte suoi parenti. Tutti, in realtà, a seconda di quanto allargata si voleva considerare la parte divina della famiglia. Il pensiero gli fece spuntare un sorriso sul viso paffuto e gli occhi castani, che già esprimevano una certa contentezza, si illuminarono ulteriormente.
        Accanto a lui c’era ad un ragazzo dall’aria stanca con disordinati capelli scuri, il bianco del camice che spuntava sotto il bordo della giacca come un’assicurazione di fiducia. Lo conosceva solo per il cognome, Delalune, e sapeva che sotto gli strati di abiti mal assortiti che indossava aveva un aspetto molto più esile, ma così conciato sembrava un adorabile orsetto di peluche cucito con gli scampoli.
        «Ehi, doc!» Lo salutò, e questo si voltò e dopo un momento di confusione rispose al suo sorriso con fare gentile. Ci aveva parlato poche volte, ma gli era apparso disponibile e ben dedicato al suo lavoro, cosa che lo aveva portato a prenderlo in grande simpatia.
        «Oh, ciao. Philo, giusto?»
«Esatto! Ci siamo visti in infermeria, ho appena iniziato il tirocinio.»
        «Ottimo, un paio di braccia desiderose di imparare sono sempre utili.» Il tono era gentile, con un leggero accento del sud che faceva sembrare ancora più approcciabile l’insieme e stonava un poco con la pelle il cui unico colore era dato da una spruzzata di nei; Philo allungò una mano, stirando le dita prima di prendere la prima freccia, e nel gesto si rese conto che persino la sua abbronzatura newyorkese a base di cartelloni e neon lo rendeva più colorito, un sottotono rosato più sano di quello verdastro dell’altro.
        «Se hai bisogno di qualsiasi cosa, non esitare a chiedere. Anche se sembriamo occupati… beh, lo siamo, ma troviamo comunque il tempo di aiutare.» Aggiunse Delalune, senza guardarlo. Tirò con precisione la corda del suo arco, un occhio chiuso, e si prese un secondo per mirare prima di lasciarlo andare e conficcare la punta nella zona gialla adiacente al cerchio centrale.
        «Sì, immagino di aver già iniziato a capire chi è più propenso e chi meno.» Rispose, imitandolo nel gesto. Senza fretta, il figlio di Anteros fece due profondi respiri dal naso e strinse appena le labbra nel vedere la freccia piantarsi nella zona nera. «Il primo giorno un ragazzo non tanto più alto di me mi ha quasi cacciato dicendo di odiare i bambini, ed era in pediatria con una signora incinta che lo ha guardato malissimo!»
        La scena era stata comica e, Philo ne era certo, pensando un attimo alle proprie parole avrebbe potuto decisamente evitare quella gaffe. Non ne era sembrato troppo affetto, segno che probabilmente non era la prima volta, e aveva continuato il suo lavoro come nulla fosse sotto lo sguardo sorpreso di entrambi.
        «Fammi indovinare, spalle larghe, naso importante?» A quella sommaria descrizione annuì, e il medico gli lanciò un’occhiata rapida e scoccò un’altra freccia: centro, anche se non perfetto. «È Ellis. Non farti scoraggiare, nonostante l’apparenza scorbutica è un bravo ragazzo. È figlio del dottor Asimov, se sceglierai di specializzarti in pediatria studierai i suoi libri.»
        Il moro, che avrebbe istintivamente associato il cognome alle tre leggi della robotica, stava per controbattere che pediatria non faceva per lui dato l’alto rischio di essere confuso coi pazienti, ma fu interrotto dall’abbaiare irritato di Leo che ordinò di abbassare gli archi.
        A quelle parole il ragazzo annuì ed entrambi fecero quanto richiesto, poi Philo vide il suo sguardo spostare il focus da qualche parte oltre la sua spalla e aggrottare appena le sopracciglia ordinate in un evidente segno di confusione; seguendo la direzione, il moro notò un adorabile gattino che decisamente non era ancora adulto. Miagolando disperato trotterellava verso il campo d’allenamento, probabilmente cercando casa.
        «Ci alleniamo con bersagli mobili, ora?» Chiese un ragazzo alto con un lungo cappotto nero. Senza nemmeno guardarlo, Leonard si avviò verso il gatto e passandogli accanto gli lasciò uno scappellotto.
        «Se qualcuno infilza me o il gatto non arriverà dai dottori sulle sue gambe.» Aggiunse, quindi si chinò su un ginocchio e tirò su il gattino per la collottola, portandoselo all’altezza del viso. Erano abbastanza vicini che Philo lo sentì fare le fusa.
        «Scusate, Mango è scappato di nuovo.»
«Non lasciarlo con Dracula, allora.» Commentò Leonard, senza nemmeno nascondere la seccatura o cercare di non farsi sentire. Il pretore Novak, che aveva parlato, si avvicinò e prese il gattino in braccio; questo si accoccolò tranquillo, sbadigliò e chiuse gli occhietti, finalmente in pace ora che aveva ritrovato il suo padrone.
        Anche se l’istruttore non era stato molto gentile, il pretore parve non farsene un cruccio: lo ringraziò ed uscì in fretta dal campo, nella direzione da cui era venuto e in cui tirava il filo dorato legato alla sua mano. Philo non dovette nemmeno voltarsi per sapere che avrebbe trovato “Dracula”, un ragazzo in peculiari abiti vittoriani che riconosceva per le frequenti visite in infermeria: lo ricordava perché gli era sempre sembrato altero e distante, quasi incapace di sentimenti, eppure legato alla sua mano il filo d'oro non aveva mai accennato a scurirsi o sciogliersi. Sapeva che sarebbero finiti insieme prima ancora che succedesse, e vederli adottare un gattino come coppia lo aveva lasciato estremamente felice ma non sorpreso.
        «Va bene, se le seccature sono finite, possiamo riprendere. Cercate di non farvi male e, per l’amor di dio, siate più svegli della bestia e non entrate nel campo mentre volano le frecce.»
        Philo fece appena in tempo ad incoccare che qualcuno alla sua destra scoccò e fece un centro perfetto. Non fu sorpreso quando scorse la figura di suo cugino Valentin cercare di farsi piccola mentre una ragazza con lunghi capelli oro pallido si complimentava per quell’ottima prestazione.


La stanza era viva, molto più di quello che si sarebbe potuto pensare durante un esame.
        Ovunque si girasse, i suoni rivelavano agitazione, confusione, talvolta persino sicurezza nel modo spedito in cui le penne grattavano sui fogli, lasciando scie colorate che poi da altri occhi sarebbero state interpretate come risposte. Alys scosse la testa, cercando di tagliare tutto fuori e concentrarsi solo sul suo compito.
        In quale anno è stato ucciso John F. Kennedy?
A. 1962
B. 1963
C. 1964
D. 1965

        Era abbastanza sicura si trattasse di una data dispari, perché impari era stato sparargli a quel modo, ma questo le lasciava comunque due possibilità. Segnò ugualmente B, non senza una certa esitazione: anche se il suo istinto e la memoria le dicevano che era la giusta risposta, una parte dei temeva ugualmente di sbagliare un quesito così semplice, il primo poi, avrebbe dato una pessima impressione.
        Fece per passare alla domanda successiva, e finalmente dare il via al suo esame- continuare a temporeggiare non le avrebbe dato il tempo di un controllo finale- quando l’ennesimo rumore la distrasse ancora. Scartata subito l’idea di usare il suo potere per silenziare l’intero auditorium, cosa che l’avrebbe lasciata stremata, si limitò ad alzare gli occhi per vedere una scena che, in un momento diverso, sarebbe stata comica: Felix, appena alla sua destra, era macchiato di inchiostro nero. Il foglio davanti a lui non si era salvato, così come il banco e, seguendo la linea delle goccioline, le scarpe della stessa Alys.
        «Scusi, sorvegliante!» Esclamò il ragazzo nello stesso istante in cui la sua mano saettava per aria. «Mi è esplosa la penna.»
A rispondere fu una ragazzina minuta, tanto bassa da essere poco visibile anche tra il mare di semidei seduti; doveva essere già abbastanza vicina, perché comparve dal nulla con un sorriso davvero poco incoraggiante sul viso dai tratti marcati.
        «Credo tu possa andare a lavarti, e il foglio si può anche buttare.» Si arrotolò una ciocca castana attorno all’indice magro, come a pensare alla prossima mossa, poi annuì. «Sì, sì, vai. Ti inserisco nel prossimo turno, okay? Non credo sarebbe giusto farti rientrare dopo, magari hai un libro in bagno.»
        Felix sgranò gli occhi, voltandosi verso Alys con aria da cucciolo bastonato, e la ragazza gli fece cenno di andare: nella sua proverbiale sfortuna, il fatto che gli permettessero una seconda possibilità era quasi un miracolo. L’amico le alzò i pollici con fare incoraggiante mentre la giovane sorvegliante lo riprendeva, ed insieme si allontanarono verso la porta a passo svelto.
        Lo sentì borbottare “se anche avessi un libro, conoscendomi sarebbe già stato divorato dai fantasmi del bagno…” mentre si allontanava con la moretta, e questa rise di gusto dando il via ad un’improbabile discussione sull’argomento, che venne però soffocata dal brusio concitato che era iniziato con l’esplosione della penna; come un mostro era cresciuto insieme all’impazienza di una massa di ragazzi con ADHD fino a raggiungere il livello di dover essere ripreso dalla professoressa Johnson, una vecchina gentile a cui non aveva mai sentito alzar la voce.
        Presto l’ordine venne ristabilito, ma Alys si ritrovò suo malgrado attirata da un suono proveniente da qualche parte alla sua destra: un rumore leggero e melodioso come campanelle, scandagliò con lo sguardo i banchi più vicini e vide una graziosa ragazza dai capelli bluastri muovere il capo ad un ritmo che solo lei conosceva, come una magia per evocare le soluzioni ai quesiti. Doveva funzionare, perché ogni tanto la vedeva chinarsi sul suo compito e scrivere per diversi secondi prima di riprendere la melodia appena accennata.
        Doveva averla osservata troppo a lungo perché, come attirata dalla presenza silenziosa alle sue spalle, si voltò ed i loro occhi si incrociarono: azzurri come quelli dell’osservatrice, brillavano di una luce che virava al verde e le ricordava il mare nei giorni di sole. Alys, colta sul fatto, abbassò subito il viso verso il suo foglio; vide solo per un attimo la ragazza sorriderle con aria complice e salutarla con la mano, e d’improvviso il suo nome le venne in mente: Sol, una figlia di Apollo che l’aveva trascinata a ballare durante una festa a cui nemmeno voleva partecipare.
        Il bianco verso il quale era rivolta poté poco nel rinfrescare le guance che probabilmente avevano preso una sfumatura di rosso più intenso dei suoi capelli, legati in due trecce ordinate non potevano farle da scudo contro il mondo, perciò iniziò a torturare nervosamente il polsino del morbido cardigan color panna come potesse aiutarla a superare l’imbarazzo.
        Una rapida occhiata le confermò che la ragazza ancora la guardava, con fare gentile alzò un poco il suo compito e la rossa scosse leggermente la testa, facendole un gesto di ringraziamento. Alys non poté fare a meno di sospirare, rassicurata, finalmente abbastanza tranquilla da poter tornare a dedicarsi al test sul quale ancora non aveva scritto nulla di concreto.
        Qual è l'opera letteraria più famosa di Antoine de Saint-Exupéry?
A. Ventimila leghe sotto i mari
B. Notre-Dame de Paris
C. Madame Bovary
D. Il Piccolo Principe

        Alys sorrise, consapevole che nemmeno l’agitarsi del ragazzo alto coi riccioli scuri o l’aria fredda che spirava dalla ragazza in bianco e nero avrebbero potuto farle sbagliare la domanda: prese un respiro profondo prima di stringere la penna e ricominciare con il test.


Il test gli era sembrato molto semplice ad una prima occhiata: solo una lunga serie di crocette. Anche ci fossero state domande che non conosceva, aveva comunque una possibilità su quattro di indovinare, cosa che lo aveva in un primo momento confortato.
        Le lunghe ore di studio con Artemis e Freya, poi, tra una pausa dal bar e un momento rubato all’armeria, erano ancora fresche nella sua mente: l’aria gelida che si alzava dall’amica ad ogni risposta sbagliata, come se confondere Norvegia e Groenlandia fosse chissà quale affronto, o le infinite spiegazioni del suo fabbro do fiducia riguardo numeri e figure astratte. Salvador ancora non aveva ben capito l’utilità di saper trovare un numero incognito, onestamente, ma Artemis era stato così accorato da riuscire a fargli entrare in testa anche qualche formula assieme a grammature e ricette.
        Il dramma era arrivato subito dopo il lieve trambusto che li aveva rallentati tutti: la penna dell’aspirante Augure era esplosa portando un attimo di panico nella stanza, ma quando era stato allontanato la situazione si era calmata e nulla più poteva distrarlo dal test che, lo sapeva, non sarebbe andato bene. Le pareti anonime dell’auditorium, senza nemmeno un poster a decorarle, erano diverse da quelle delle aule a cui era abituato e che talvolta riuscivano a dargli ispirazione per qualche domanda particolarmente ostica.
        Le domande, in buona parte America-centriche, erano in parte sconosciute per lui che viveva negli Stati Uniti da poco più di sette anni e aveva frequentato le scuole primarie in una piccola città del Brasile; le sue lacune erano state raffazzonate in modo da ottenere la sufficienza, ma diverse nozioni richieste non gli erano naturali. Alzando lo sguardo vide che Freya aveva lo stesso problema, nonostante la rigida compostezza lo mascherasse molto bene.
        Salvador si passò le dita tra i capelli scuri, le unghie corte ma ben curate che li separavano come non fossero una massa poco domata di ricciolini corti, in un gesto che tradiva una certa apprensione. Con tutti i movimenti fatti da quando si era seduto al suo posto, quasi perfettamente al centro rispetto alla stanza piena di banchi ben separati, solo in quel momento si rese conto delle occhiate che gli lanciavano di tanto in tanto gli altri studenti e i sorveglianti, quasi temessero stesse copiando: il pensiero era, tuttavia, per lui inconcepibile, nonostante la posta in palio.
        Dove si trova la capitale delle Hawaii?
A. Kauai
B. Oahu
C. Maui
D. Isola di Hawaii

        «Mierda,» sibilò tra i denti, « que coño é essa?³»
Probabilmente era stato meno quieto di quel che sperava, agitandosi piano nella sedia sentì uno spiffero ghiacciato carezzargli la nuca e quando si voltò un ragazzo vestito completamente di nero lo fissava con profondi occhi verdi carichi d’irritazione. Aveva la classica aria del figlio di Marte sempre pronto ad attaccar rissa, cosa che istintivamente suscitò poca simpatia in Salvador.
        Aveva la netta sensazione di averlo già visto, dovette essersi fermato un po’ troppo a riflettere sul perché il viso gli fosse familiare, perché il ragazzo- che nel frattempo era tornato a chinare il viso chiaro sul compito, permettendogli di vedere solo uno scorcio di guancia ed un neo perfettamente tondo sulla mandibola- tonò a guardarlo, fece una smorfia e mimò con le labbra “arrangiati”. Bastò quel gesto a portargli alla mente un livido su uno zigomo sottile, il bel viso del ragazzo davanti a lui rovinato da un occhio nero.
        Salvador abbassò di colpo lo sguardo, non per timidezza ma per evitare che la sua faccia parlasse, com’era solita fare, decisamente troppo. L’ultima cosa che voleva era che il suo carattere esuberante lo portasse a scontrarsi con un atro semidio troppo facile all’ira: nel corso degli anni era successo più di qualche volta, complice la sua abitudine al gossip, e non sempre la sua natura espansiva e genuina lo aveva salvato.
        Si passò il pollice sinistro sul cerotto che copriva la sua ultima ferita di guerra, un piccolo taglio sull’indice che si era procurato maneggiando con troppa leggerezza un pelapatate, arma del demonio, e decise di passare oltre: avrebbe risposto prima alle domande di cui era discretamente sicuro, e poi avrebbe impiegato il tempo restante per pensare alle altre in modo da massimizzare la sua percentuale di successo. Sì, sembrava una buona strategia, anche perché probabilmente con l’andare dei minuti il grattare fastidioso delle penne sulla carta sarebbe diminuito, aiutandolo a concentrarsi meglio.
        In quale giorno cade l’equinozio di primavera?
A. 19 marzo
B. 20 marzo
C. 21 marzo
D. 22 marzo

        Il sudamericano sorrise a quella domanda, segnando con tanto entusiasmo la B da scheggiare la punta della matita. Si limitò a soffiare sul foglio per eliminare le tracce di grafite mentre le labbra carnose non riuscivano ad assestarsi in un’espressione più contenuta.
        Ricordava perfettamente la conversazione avuta con Laisren a proposito di sua madre, la dea Persefone, che per Salvador era- a volte ancora stentava a crederci- una sorellastra: nonostante lei portasse la primavera in modo ufficiale il 21 marzo, la data del solstizio era un giorno precedente. Si appuntò mentalmente di ringraziarlo in qualche modo per quel punto, forse sostituendolo un giorno al bar per le pulizie, prima di passare al quesito successivo.


Alle ore dodici e qualche secondo la porta si aprì, precisa come un orologio. Valentin vide con la coda dell’occhio una ragazza in bianco e nero parlare a voce bassissima mentre usciva ma voltandosi verso di lei, non c’era traccia di un eventuale interlocutore.
        L’unica cosa a cui riusciva a pensare era Serafim, un ragazzo che gli aveva dato di tanto in tanto lezioni di violino e parlava con i fantasmi; la questione gli dava i brividi, perciò si limitò a scostare lo sguardo e cercare di rendersi invisibile. La cosa, forse a causa del suo metro e ottanta abbondante o della sua progenie di figlio dell’amore, finì per essere del tutto impossibile: la ragazza gli passò accanto zittendosi e lanciandogli una lunga occhiata imperscrutabile, i tacchetti lucidi di vernice che scandivano il tempo lento del transito.
        Valentin, il viso chino come potesse sparire nella sedia, sentì la punta delle orecchie scaldarsi mano a mano e quasi si pentì di aver tagliato i ricci castani così corti da scoprirle, lasciando che quel piccolo ma evidente segnale d’imbarazzo così visibile. Prese un paio di respiri per prepararsi a quel che stava per succedere e, quando riaprì gli occhi, un paio di scarpette da bambolina comparve nel suo campo visivo. Nere su calzette bianche, avevano un bizzarro tacco color oro imperiale che lo lasciò stranito.
        «Valentin Nikkelsen? Oh, deve esserci stato un errore.» Commentò, e anche la voce si abbinava bene all’idea di adorabile che la ragazza davanti a lui dava. «Spero tu non abbia aspettato troppo, avresti dovuto essere prima della signorina Noir.»
        «Non preoccuparti, sono appena arrivato.»
«Meno male. Accomodati pure allora, e se non ti senti bene posso andare a prenderti un tè.» Offrì gentilmente. Valentin alzò lo sguardo per trovare una figurina minuta con lunghe trecce castane, che avrebbe scambiato per una ragazzina se non l’avesse vista qualche volta in facoltà dietro al pretore Morin per cui aveva un’evidente cotta. Scacciò il pensiero con una scrollata di spalle, e la ragazzina annuì come fosse una risposta alla sua domanda quindi riprese: «D’accordo, allora possiamo entrare ed iniziare. Non preoccuparti, è solo un colloquio informale, per parlare un po’ di te e del viaggio.»
        Il ragazzo si alzò, quasi titubante nel rendersi conto che lei gli arrivava a stento alla spalla; anche pur non apparendo imponente nel complesso, vicino alla bambolina di cui non sapeva ancora il nome si sentiva enorme e gli scatenava un istintivo senso di protezione. La seguì nella stanza senza proferire parola, gli occhi nocciola incollati ad una coppia di piercing a forma di fiocchetto che facevano capolino sulla nuca; per quanto impossibile, sembrava quasi che la pelle chiara luccicasse appena di luce propria.
        «Ah, che maleducata.» Si fermò di colpo, e Valentin quasi le finì addosso tanto brusco fu il gesto. «Tu sei greco, perciò non mi sono mai presentata. Il mio nome è Angelika.»
        «Valentin, ma puoi chiamarmi Val.» Rispose d’istinto, scansandola e andando a sedersi. La vide posare un sostegno rigido con alcuni fogli sulla cattedra, e questa volta fu innegabile: la sua mano emetteva un lievissimo bagliore freddo. La ragazza, una volta girata verso di lui, seguì la traiettoria del suo sguardo e arrossì leggermente.
        «Scusa. I vantaggi di essere figlia di Luna, sai, mica qualcosa di utile.» Aggiunse, posandosi con la schiena sul tavolo, e il moro annuì con la comprensione di chi capiva perfettamente il suo disagio.
        «Almeno è carino, sei come una stellina.» Commentò, intensificando il bagliore fino a renderlo percepibile anche nella stanza illuminata. Angelika scosse la mano come a cancellare l’imbarazzo, e Valentin quasi si morse la lingua: vent’anni e ancora dimenticava l’effetto che poteva fare sugli altri, l’impaccio che questo creava. Abbozzò un sorriso di scuse.
        «Grazie, comunque, sembri una persona gentile ed è un ottimo passo per creare una squadra che funziona. Qualcuno dei tuoi amici ha provato a partecipare al viaggio?»
Valentin iniziò inconsapevolmente a giochicchiare con la piccola schiona che portava al lobo sinistro ma, quando vide che la bambolina seguiva con gli occhi il suo gesto, si costrinse a portare la mano sotto le cosce per tenerle ferme.
        «Non… non credo.» Probabilmente era un qualche tipo di test, quindi aggiunse: «Serafim ha detto che ci pensava, ma onestamente non credo.»
        In realtà il ragazzo non era esattamente un suo amico, ma tra gli abitanti del campo era uno dei pochi che avrebbe quasi potuto considerare tale: si erano incontrati per sbaglio nell’aula degli strumenti, abbastanza spesso da rendere entrambi abbastanza confortevoli da scambiare qualche parola, e nei mesi di quella strana convivenza avevano parlato un po’ durante le lezioni che gli dava, anche se più spesso il ragazzo si occupava del suo pianoforte e Valentin strimpellava la chitarra.
        «Oh, Sera?» Se all’inizio l’idea di nominare un altro semidio gli era sembrata una mossa saggia, lo stupore dipinto sul viso di Angelika gli fece venire qualche dubbio. «Beh, complimenti. Avevo l’impressione che non gli piacessero troppo le persone vive.»
        Il commento gli strappò una risatina, e il moro annuì a conferma di quelle parole. Tutto sommato, i romani gli avevano dato l’idea un campo estremamente ben organizzato e pieno di persone più rigide ma tranquille di quelle a cui era abituato, unico vero motivo per cui aveva avuto il coraggio di tentare l’avventura: l’idea di partire, per quanto affascinante, era leggermente macchiata da un lato pratico che al Campo Mezzosangue lo avrebbe decisamente scoraggiato.
        «È calmo, e gentile, e andiamo d’accordo. Basta trovare il giusto argomento.» Quella non era una bugia, vide la ragazza addolcire l’espressione già mite ed incrociare le braccia sul petto magro.
        Il resto del colloquio procedette in modo estremamente rilassato, Valentin quasi non si accorse del trascorrere del tempo e quando la ragazza gli consegnò un foglio con diverse informazioni tecniche ebbe la netta sensazione che fosse andata bene. Normalmente non amava parlare di sé, preferiva decisamente farsi valere coi fatti, ma la conversazione con Angelika era fluita in modo naturale nonostante le domande che facevano intuire il suo vero scopo.
        Lasciò la stanza con il cuore leggero e un certo appetito e, dato che entrambi andavano verso la mensa, accettò anche l’invito a pranzo, pensando che di lì a poco forse i suoi pasti sarebbero comunque stati molto meno solitari.


Una serie di sedute chiare e scomode era allineata lungo la parete, ma solo poche di quelle erano occupate: una coppietta china così vicina da sfiorarsi con la fronte, lui intento a perfezionare un disegno a matita seguendo le indicazioni di lei, le voci concitate; un altro ragazzo infagottato in abiti larghi che portava addosso il classico odore delle fucine, il viso coperto dai capelli mossi mentre batteva leggero sui tasti di un computer.
        Seymour era accomodata sulla sedia più vicina alla porta, le gambe accavallate, allungò una mano nella tasta in cui credeva di aver infilato la sua lista di cose da fare e trattenne un leggero sospiro non del tutto sorpreso quando si rese conto che nei pantaloni neri c’era solo il cellulare. Lo prese ugualmente, perché nelle note dallo sfondo scuro poteva comunque leggere la sua personale lista delle cose da fare.
        Ore 15.30 colloquio viaggio studio. Edificio principale, aula 2.6
Alzando gli occhi vide l’orologio nella parte superiore dello schermo cambiare e, nello stesso istante, la porta aprirsi. Ne uscirono una ragazza distinta nonostante gli abiti semplici e, dietro di lei, un ragazzo poco più alto con un maglione oversize dal quale spuntava il colletto di una camicia.
        «Grazie principessa, è stato un piacere.» Si sistemò gli occhiali spessi e diede una rapida occhiata ad un portadocumenti che teneva in mano, quindi continuò: «La signorina Hayda è presente?»
        Seymour attese un attimo che la ragazza le passasse accanto, una sensazione di gelida irritazione come una scia e il movimento elegante della treccia scura dietro la schiena, poi si alzò e sistemò il polsino della maglia. Il suo riflesso pochi momenti prima le aveva confermato che il trucco era ancora a posto, esattamente come lo aveva applicato quella mattina quando aveva iniziato la giornata, perciò si limitò ad un cenno prima di seguire quello che doveva essere un coetaneo dentro l’aula in cui si sarebbe svolto il colloquio.
        «Molto piacere.» Disse solo, allungando una mano e rispondendo con sicurezza alla sua stretta di saluto. Le loro pelli, vicine, avevano una sfumatura piuttosto simile ma non identica, dovuta più ad una sana vita all’aperto che non ai geni mediorientali come nel caso di Seymour. Gli rivolse un sorriso cortese e quello ricambiò con un ghigno che prometteva guai, guadagnandosi un istintivo moto di simpatia.
        «Puoi chiamarmi Royal, stiamo per diventare migliori amici perciò mi pare il minimo.» Lanciò un’ulteriore occhiata ai fogli, annuendo. «Un’altra greca, anche se visto il tuo atteggiamento sobrio non avrei mai pensato a quella hippie di Iride. Accomodati pure.»
        Vide con la coda dell’occhio la ragazza con la treccia avvicinarsi a quello che scriveva e iniziare a parlottare, colse solo qualche frammento mentre entrava e nulla di quello che disse la incoraggiò riguardo il suo esaminatore: quello che gli era apparso come un ragazzo amichevole venne etichettato come terribile bugiardo, fastidioso e misogino. Non seppe mai come continuava ad appellarla, perché Royal chiuse la porta e troncò le sue proteste soffocate a metà frase.
        stanza non era troppo diversa dal corridoio se non nelle dimensioni e la presenza di cinque file ordinate di banchi che delimitavano ulteriormente l’area. Il sole entrava dalle finestre aperte e scaldava appena l’aria che stava venendo cambiata, rendendo il tutto più luminoso; dopo le precedenti lampade ronzanti che appiattivano i colori, il nuovo ambiente sembrava ben più confortante e Seymour andò senza esitazione a sistemarsi vicino ai vetri, le braccia incrociate sul maglioncino color terra.
        «Partiamo subito con le domande difficili, vuoi principessa? Perché vuoi partecipare al viaggio?» Royal la guardava attraverso lo specchio, un sorriso largo sul volto anonimo, gli occhi attenti che studiavano ogni sua mossa. Seymour si sfiorò le labbra con aria pensosa, per poi guardare il polpastrello sporcato dalla stessa tonalità di rossetto: le sembrava in armonia sia con il maglioncino che con la sua pelle anche se, attraverso il velo monocromatico dei suoi occhi tutto assumeva tinte in bianco e nero.
        «Voglio solo imparare l’arte nel luogo in cui è nata.»
«Che altro?»
        «Nient’altro.»
«Riprova.» Royal, che durante il breve scambio aveva preso più appunti di quanto non avessero effettivamente parlato, andò ad appollaiarsi sulla cattedra in una posizione assolutamente sgraziata. Le puntò la penna contro prima di continuare. «Non dire “solo” se non è l’unica motivazione, diventa una bugia ed il tuo corpo lo rivela.»
        «Allora diciamo che è il motivo principale.» La sua risposta pacata, data senza grandi variazioni nel tono o nel linguaggio del corpo, provocò una risata fragorosa. Seymour si voltò, guardandolo ora di persona e non attraverso il vetro della finestra che ne smorzava la figura. Royal passò da indicare lei alla sedia, le sopracciglia alzate dietro gli occhiali spessi, poi tirò indietro la schiena in una posizione più rilassata.
        «Ma quindi dietro quell’aesthetic impeccabile sai pure scherzare, principessa! Questa intervista è appena diventata più interessante!» Commentò, e la figlia di Iride fece quanto richiesto implicitamente. La schiena dritta, le caviglie incrociate, una posa appropriata ad una situazione formale ma non per questo rigida, per mettere a suo agio l’interlocutore.
        «Possiamo iniziarla davvero, quindi?»


Laisren si stiracchiò come un gatto, l’espressione sorniona sul viso ossuto mentre osservava il comunicato appeso sulla bacheca in mattinata.
        Abituato a svegliarsi molto presto per lavoro era stato uno dei primi a visionarla, ed era tornato più che volentieri con chiunque glielo chiedesse per godere un altro po’ della consapevolezza che sì, il suo nome era stato stampato sul semplice foglio bianco che annunciava i candidati. Miss Carter, la gentile inserviente che serviva alla reception quel giorno, non alzava più nemmeno lo sguardo e continuava con le sue parole crociate limitandosi ad un cenno vago come saluto; era certo che per la sera sarebbe riuscito a passare inosservato.
        «No, no ti giuro, con quali soldi avrei potuto corromperli poi?» Insistette con un sorriso largo, mentre Esme gli rifilava l’ennesima occhiata per niente convinta. L’intera conversazione, a metà tra spagnolo e inglese con tocchi portoghesi di colore, era sostenuta a volume abbastanza alto da far guadagnare al gruppetto occhiate non esattamente amichevoli dagli altri studenti, ma non pareva importar loro molto.
        «Beh, hai le mance e la magia!» Ribatté Chava e, tra le risate generali, aggiunse: «No, ehi, ascoltami amico. Persefone, no? Hai da una parte Cerere e dall’altra Plutone… sì, insomma, le versioni greche. Fertilità e ricchezza. Se qualcuno può creare l’albero dei soldi sei tu!»
        «Oh no Chava, hai svelato il mio grande segreto!» Laisren gli diede una leggera gomitata, guardando con un sorriso furbo Esme i cui grandi occhi castani si erano ingigantiti per l’interesse. La ragazza posò le mani sui fianchi stretti e sbuffò sonoramente, facendosi volare una ciocca scura che le era scesa sul volto e ricadde nella stessa, identica posizione. «Adesso Manolesta verrà a frugare per tutto il campus per trovarlo. Non avrei mai dovuto dirtelo!»
        «Sono felice di non venire via con te, Meow, sei di un antipatico!»
La protesta, pur fatta con un sorriso, scatenò una nuova ondata di risa nel gruppo. Camilo le posò le mani sulle spalle e, sfruttando la scarsa altezza della ragazza, anche il mento sulla testa. «Ammettilo che ti mancheranno entrambi, dai!» Esclamò, ed Esme si limitò a fargli una linguaccia senza confermare o smentire. Se lo scosse di dosso e andò a posarsi contro il muro della segreteria, accanto alla bacheca davanti alla quale facevano campanello, per tenerli tutti sotto controllo.
        «Io sarei più preoccupato al posto vostro, eh.» Alejandra puntò l’indice verso i nomi, la pelle color caramello in bizzarro contrasto con le unghie che aveva dipinto di bianco candido. «E soprattutto al posto di Pan. Non hai notato che c’è pure Delalune, quello della quarta coorte?»
        «Non fare la stronza, Ale, è una storia vecchia.» Camilo cercò di zittirla, e Chava scosse le spalle come se la cosa non lo interessasse troppo. Probabilmente era davvero un vecchio pettegolezzo, o il brasiliano avrebbe già preso parola per aggiornare i presenti, ma Laisren si sporse comunque con aria incuriosita e un sorrisino che prometteva guai.
        «È giusto che lo sappia! Il nostro dottorino ha un debole per i ragazzi fidanzati.» Alejandra si era chinata verso di loro, senza però abbassare il tono della voce. «Si è messo a ronzare attorno ad uno che stava con un centurione, è stato un macello, poi sono stati scoperti e non ha nemmeno avuto le palle di difendere il tipo.»
        «Perché ha avuto buonsenso e quello ha preferito la carriera a lui!»
«¡Guau⁴! Avessi saputo che vi scambiavate i segreti ti avrei chiesto al momento.» L’unico risultato nel tentativo di intromettersi di Chava era stato fomentare ulteriormente Alejandra, il cui tono aveva iniziato ad attirare sguardi e, sfortunatamente, non era abbastanza diluito dalla loro lingua da rendere incomprensibili agli americani attorno a loro il soggetto del discoro.
        «Oh, mettete in guardia il greco? Non lo sapete che Eugene non ha possibilità con lui?» Un ragazzo con bizzarri baffetti da sparviero radi rivolse loro un sorriso cattivo, mentre i suoi compagni ridacchiavano o gli lanciavano occhiate preoccupate. «Certo, fosse suo fratello o minorenne, forse…»
        L’unica cosa che impedì al pugno del figlio di Persefone di schiantarsi contro la faccia dell’altro fu la prontezza dei rispettivi amici: Chava, che dall’alto del suo metro e settantacinque lo superava ugualmente di diversi centimetri, gli strinse le braccia attorno alla vita e lo strattonò indietro mentre quello coi baffi, sorpreso, arretrava e veniva sorretto da una ragazza che aveva strillato per la sorpresa. Esme, scattata sull’attenti prima di chiunque altro come potesse sentire l’odore dei guai, si affrettò ad andare verso la segreteria per distrarre e spiegare a miss Carter che nulla di strano stava accadendo.
        «Vamos lá, amigos⁵! Sono certo che sia un malinteso, ci calmiamo un po’? Tutti?» Aggiunse, allentando appena la presa sull’amico. Laisren sbuffò forte e poi si passò il dorso della mano sul naso, una figura minuta ma non per questo meno minacciosa dopo la quieta furia con cui aveva attaccato, e scrollò le braccia con un gesto secco.
        «Io sono calmissimo, Chava, ma non era un malinteso e non lascerò che qualche stronzo dica stronzate.» Alejandra fa per aprire bocca, ma il moro le rifila un’occhiata di ghiaccio e lei si limita ad alzare le spalle ed andarsene, piccata. «E l’unico modo perché certa gente capisca è menarli.»
        «Ossignore, ancora i discorsi da ragazzino emo? Tuo padre ti picchiava, Meow?» Camilo incrociò le braccia, alzando un sopracciglio poco curato. La felpa color mattone che indossava, troppo larga pure per il suo fisico tutt’altro che mingherlino, lo faceva sembrare ancor più imponente e quasi minaccioso; Laisren si girò e gli rivolse un’occhiata più sorpresa che irritata, prima di rispondere con tono finalmente quieto.
        «Oh? No, mio padre è una persona molto comprensiva, in realtà.»


Quella mattina, appena usciti i risultati, Kai non aveva nemmeno dovuto andare a vederli per sapere di essere stato scelto per la partenza.
        Mychajlo, un piccolo semidio che aveva la sua età nonostante gli arrivasse a stento alla spalla, gli era trotterellato vicino durante la sua corsa mattutina e Kai aveva rallentato un poco per permettere alle sue gambine corte di reggere il passo, mentre con gli occhi lucidi il ragazzo pigolava come una rondinella affamata. Abituato al suo chiacchierare, a volte allegro e spesso sciocco, il più alto lo aveva lasciato parlare aggiungendo solo di tanto in tanto dei piccoli suoni per fargli capire che lo stava ascoltando dato che non poteva guardarlo in viso.
        Solitamente a quell’ora era Leonard il suo compagno di corsa, mentre Mychailo li salutava allegramente al passaggio vicino alla mensa in cui consumava una sana ed abbondante colazione in compagnia: probabilmente lo aveva aspettato scombinando i propri piani, perciò Kai non fu sorpreso quando si salutarono proprio davanti ai tavolini in cui il solito ragazzo albino fece loro un cenno.
        «Buona fortuna, e torna con tante buone ricette delle nonnine!» Lo salutò con un entusiasmo genuino, alzando entrambi i pollici e rivolgendogli un ampio sorriso allegro mentre trotterellava all’indietro ed evitava per un soffio gli altri avventori. Kai vide il suo amico alzare gli occhi e sussurrargli qualcosa mentre si sedeva, e seppe per certo che la tristezza per la sua partenza non lo avrebbe scalfito per più di qualche minuto.
        Normalmente a quel punto avrebbe continuato, sarebbe uscito dalla città e avrebbe costeggiare le piantagioni di girasoli fino alla fine, per trovare alla sua destra i campi di Marte in cui si sarebbe allenato un po’ con i ragazzi della prima coorte; svoltò invece in una piccola laterale che lo avrebbe portato comodamente verso la parte centrale in cui si trovava il campus, godendosi la le strade così fortunatamente e sfortunatamente simili all’originale. Nuova Roma poteva vantare edifici in pietra dall’aria solida ed elegante, cosa che in America raramente si vedeva, ma anche strade ingannevoli e difficili lastricate di sanpietrini a cui si doveva fare particolare attenzione.
        Mano a mano che si avvicinava al campus le persone aumentavano, i sorrisi degli studenti che già sognavano le vacanze e gli sguardi torvi di chi credeva davvero sarebbe riuscito a partire in settembre. Una volta arrivato, la città lasciò spazio ad un grazioso parchetto ed una stradina di ciottoli; la linea grigia serpeggiava irregolare nel verde fino a diversi stabili anche molto diversi tra loro, che riflettevano in parte i diversi corsi che tenevano al loro interno. Lanciando un’occhiata alla segreteria, la prima struttura che si incontrava, vide che era già stata presa d’assalto.
        In particolare, nonostante la sua notevole altezza ed il fatto che questa fosse molto vicina al punto in cui si era fermato, Kai non riusciva a vedere la bacheca degli annunci, presa d’assalto da un gruppetto di semidei sudamericani di cui riusciva a sentire le voci alte: parlavano, come spesso accade ai figli d’immigrati, un misto della lingua natia e di quella del nuovo paese, che risultava ugualmente incomprensibile ad americani e ispanici che non fossero cresciuti nella stessa zona; l’unica cosa che appariva ovvia era che si stessero giocosamente insultando, spintonandosi piano e indicandosi a vicenda. Scuotendo la testa piano, in modo che gli fece nettamente sentire come i fitti ricci biondi si stessero lentamente liberando dell’elastico che provava a contenerli, il figlio di Chione decise di battere in ritirata e non provare nemmeno ad affrontarli.
        «Ehi!» Dando alle spalle alla folla sempre più agitata, Kai individuò le molto più quiete figure di Valentin e Alys: seduti sul muretto che circondava il campus, la ragazza dondolava pigramente le converse rosse a ricami floreali che aveva ai piedi mentre l’altro era chino vero di lei ed il taccuino che aveva in grembo; entrambi alzarono il viso e sorrisero allo stesso momento vedendolo avanzare verso di loro.
        «Ciao. Avete già visto i risultati?» Continuò gentilmente e, dall’occhiata preoccupata che lanciarono al gruppo, il biondo intuì che la risposta era negativa. Alys si passò nervosamente il palmo della mano sui jeans chiari, poi prese il blocchetto e vi scrisse rapidamente qualcosa che alzò perché il semidio potesse leggerlo.
        Chava ha urlato qualcosa nella nostra direzione e sembrava molto soddisfatto, ma non siamo sicuri di chi sia stato preso. Tu sai qualcosa? La grafia era minuta ed ordinata, vagamente tondeggiante e decisamente femminile, come un piccolo ricamo sul foglio. Kai alzò un sopracciglio, senza commentare quanto fosse bizzarro che il ragazzo avesse convinto l’intero campo che quello fosse il suo nome. Ancora più strano, la pratica era comune ai suoi colleghi al bar, che aveva recentemente scoperto non chiamarsi davvero “Laisren” e “Sol”.
        «Un ragazzo che conosco mi ha detto che ha letto il mio nome, ma non sono ancora andato a vedere di persona. Volete provare?» La proposta fu fatta con calma, ma Valentin pareva ugualmente estremamente scettico. Kai aveva la netta impressione che non fosse un amante delle folle e delle persone troppo espansive, e più volte lo aveva visto battere in ritirata quando Mychajlo si avvicinava.
        «Credo sia una pessima idea, almeno per ora.» Rispose infatti, indicando col dito sottile e abbronzato un punto oltre la spalla di Kai; questo non dovette nemmeno voltarsi, perché il volume dei latini era salito fino a far sospettare un problema. L’aria attorno a loro profumava di prodotti da forno, pulita come quella di Little Rock non era mai stata.
        «Sapete, conosco un’ottima panetteria qui vicino. Se non avete lezione, possiamo farci un giro e sperare le cose si siano calmate per quando torniamo.» Riprese Kai, stirando le braccia muscolose come non potesse sentire gli insulti che iniziavano ad alzarsi. Si passò le mani sulla nuca, togliendo un tocco di sudore dai più corti capelli dell’undercut, e Alys scese con un piccolo balzello silenzioso dal muretto direttamente dalla parte opposta, sulla strada.
        Si voltò e, da sopra la spalla, mostrò loro il quadernino in cui aveva scritto frettolosamente: mi pare una buona idea! Andiamo?



Dizionario2-2

¹Mi angelito: “angioletto mio” in spagnolo. Liz lo usa in modo palesemente ironico.
²Cher: letteralmente “caro/a” in francese, Eugene però lo usa con l’accezione del francese cajun, che suona più come il nostro “amico/a”, “zio/a” o “bro”.
³Mierda, que coño é essa?: “Merda, che cazzo è questa roba?” in portoghese. Eccetto “mierda” e “coño” che sono imprecazioni in spagnolo perché Salvardor inveisce in quella lingua.
⁴¡Guau!: un’esclamazione di stupore spagnola, simile al “wow”.
⁵ Vamos lá, amigos!: “dai, andiamo amici” nel portoghese brasiliano, che si distingue un poco dalla forma originale.




Angolo autrice
Buongiorno a tutti, e buone feste (ormi finite)!
Eccoci finalmente con il primo capitolo, una rapida presentazione dei vostri bimbi. Come qualcuno sa, ho provato a sistemare le poche parole scritte per la selezione, ma non mi soddisfaceva mai e il prodotto finale che vedete è stato scritto e riscritto una marea di volte, almeno tre per paragrafo. Non giustifica l’attesa, ma spero la capiate un po’ meglio.
Il prossimo capitolo avrà una struttura simile, con almeno un PoV per ogni oc, e tratterà i saluti ed il viaggio in sé; da quello dopo ancora, invece, anche se compariranno tutti userò i PoV in modo più libero e discriminato. Cercherò di non fare evidenti preferenze ad ogni modo, se in un capitolo un OC compare di più è solo perché in quel frangente aveva di più da dire.
Ad ogni modo posso dire di essere soddisfatta di ciò che è uscito, per alcune cose mi sono palesemente divertita e in generale mi reputo soddisfatta del casto scelto perché mi darà un sacco di opzioni per arricchire una trama relativamente semplice.
Mi pare di aver detto tutto, riguardo il capitolo in sé non credo di aver nulla da aggiungere, attendo le vostre opinioni!
Bacini,
Fe_
  
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