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Autore: Ella Rogers    14/01/2023    0 recensioni
"Chi non muore si rivede, eh Rogers?"
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
"Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion."
La risata tagliente di Rumlow riempì l'aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L'uomo assunse un'espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
"Credevi male, Rogers. Credevi male."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'The Road of the Hero'
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Dark Mist
 
 
 
Don’t wait for the dust to settle
Don’t wait till it’s not enough
Don’t wait for the world to let go of the both of us
Don’t wait for the dust to settle
Don’t wait till you’ve had enough
Don’t wait for the world to let go or to give you up
 
 
 
 
L’erba solletica la pelle scoperta delle braccia e delle gambe. È umida ed è piacevole in contrasto al caldo afoso di luglio. Qualche rametto più spesso punge la schiena, ma non è abbastanza fastidioso da spingerlo a cambiare posizione. Il cielo terso è punteggiato da una miriade di stelle palpitanti. È rimasto incantato ad ammirarle fino a perdere la cognizione del tempo.
 
“Buck.”
 
Al richiamo di quella voce sottile, Bucky si tira su seduto e rivolge lo sguardo al piccoletto che si sta sedendo proprio lì, al suo fianco. È avvolto in una coperta che si stringe addosso come se fosse questione di vita o di morte – e in realtà per lui lo è, più o meno.
Ogni volta che il suddetto piccoletto fa un movimento un po’ brusco, Bucky teme di udire il rumore dello spezzarsi di qualche ossicino. Non riesce a non preoccuparsi – è più forte di lui – e non capisce perché il piccoletto in questione non si preoccupi allo stesso modo.
Steve – il piccoletto – si appoggia a lui, in modo da essere spalla contro spalla. Solleva il capo e lo guarda dritto in faccia. C’è un solo anno di differenza, ma le dimensioni dei loro corpi ancora in fase di sviluppo non dicono la stessa cosa. Bucky è ora abbastanza maturo da capire come stanno le cose. Inoltre, una volta ha sentito Sarah che diceva a sua madre che il fatto che Steve è vivo, sia di per sé un miracolo. Bucky però è certo che Steve starà meglio e, a testimonianza di ciò, adesso il suo migliore amico non è più costretto a starsene dietro il vetro della finestra, a fare da spettatore alla vita che si srotola all’esterno della sua abitazione.
Adesso Steve ha iniziato a viverla quella vita, un po’ alla volta, e non sembra esserne spaventato. Non è mai stato spaventato, non per sé stesso. A Steve non importa del bruciore ai polmoni o del dolore ai muscoli. Vuole fare le stesse cose che fanno gli altri bambini ed è abbastanza testardo da riuscirci, anche se a modo suo. La sola cosa che al momento gli pone un freno è Sarah, perché Steve non vuole che si preoccupi troppo, non vuole che lei sia triste a causa sua.
Bucky si riscuote, ricambia lo sguardo dell’amico e sorride. Le lunghe ciglia di Steve incorniciano i grandi occhi, le cui iridi azzurre brillano sempre di una luce piena di vita e forza. O almeno, è quello che Bucky ci vede e si è chiesto cosa ci veda Steve invece.
Quando si guardano o si scambiano sguardi silenziosi, Bucky legge ammirazione negli occhi di Steve, vede la forza di quel legame che li tiene uniti, ma ci vede dentro anche tristezza. Perché Steve sa. Sa che non sarà in grado di stare al passo con Bucky e che, presto o tardi, verrà lasciato indietro. Bucky però vede in Steve un combattente che ha già affrontato tante sfide difficili, sin dalla nascita, sin dal primo faticoso e doloroso respiro.
 
“Hai già espresso il tuo desiderio di compleanno?”
 
Bucky osserva Steve arricciare il naso e il bagliore nei suoi occhi sembra diventare più intenso. Lo osserva annuire e aprire la bocca, ma la voce viene coperta dai primi fuochi d’artificio che illuminano il cielo buio.
 
Però Bucky ha sentito.
 
Steve ha già il naso all’insù e allora Bucky lo imita. Sorridono, mentre imprimono nelle loro menti quel momento, ignari che si sarebbero ritrovati a guardare insieme il medesimo spettacolo nei successivi anni, ancora e ancora.
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Barnes, da questa parte.”
 
Bucky scavalcò un altro paio di corpi e si apprestò a raggiungere Stark, che era alle prese con il portellone di un container. Una volta aperto, si trovarono dinanzi le facce sconvolte appartenenti ad individui armati di scopettoni, spazzoloni e secchi!?
 
“Ti prego non ucciderci! Siamo rimasti fermi e zitti come ci hai chiesto!” gridò nel panico un ragazzotto robusto con gli occhiali che prendevano da un lato. Aveva le braccia sollevate in segno di resa e una spugna umidiccia stretta in una mano. Le ascelle pezzate stagliate sulla maglia arancione erano messe ben in mostra e facevano concorrenza alla macchia di sudore che si allargava in corrispondenza del girocollo.
Alle sue spalle fece capolino un ragazzo molto alto, dai capelli rossicci e dal pallido viso punteggiato di lentiggini ramate. Al suo fianco, invece, sostava una giovane donna abbracciata al bastone di uno scopettone. Lo sguardo profondo di quest’ultima era imbrunito da alcuni ciuffi ribelli della folta chioma riccia, che le incorniciava il viso dal colorito d’ebano.
A completare il quadretto di coloro che erano più visibili c’era un anziano signore dai capelli bianchi, seduto su un secchio rovesciato. Non si era nemmeno scomodato ad alzarsi e indossava spessi occhiali squadrati che facevano presupporre che non ci vedesse poi così bene. Sul fondo del container si potevano contare almeno altre sei persone. Tutti indossavano la stessa salopette grigiastra con annessa una targhetta che riportava il nome.
 
“È Iron Man! Siamo salvi!” annunciò a gran voce la ragazza riccia, Jenna, e abbandonò lo scopettone per poter sollevare le braccia in alto, in un gesto di esultanza.
 
“Cosa è successo qui?” chiese loro Tony, mentre l’elmetto si dissolveva rendendo visibile l’espressione confusa.
 
“Il delirio, signor Stark! Sono apparsi questi tizi dal nulla! Hanno preso d’assalto i capannoni e poi hanno iniziato ad ammazzare tutti, però anche gli altri avevano delle armi, un sacco di armi, e hanno risposto all’attacco e c’era questo tale che non ha idea…” il ragazzo con gli occhiali storti, Barry, fu costretto a riprendere fiato e il rosso, Francis, ne approfittò per prendere la parola al suo posto.
“Aveva questa maschera che gli copriva la parte inferiore del viso e uno sguardo di quelli che ti fanno tremare le gambe e credevamo ci avrebbe uccisi tutti quanti. Invece ci ha spinto qui dentro e ci ha ordinato di non muoverci e noi non ci siamo mossi.”
 
Tony e Bucky scambiarono un’occhiata densa di pensieri a cui non osarono dare voce.
 
“Voi chi siete esattamente?” fu allora la lecita domanda di Stark.
 
“Una squadra della ditta di pulizie Mops&Bucket, una piccola azienda della zona” spiegò tranquillamente l’anziano signore, Moshe, ancora seduto sul secchio e affatto agitato.
 
Non avrebbero potuto aiutarli a ricavare informazioni di spessore. Era ovvio che quei poveracci si fossero trovati invischiati in una situazione al di fuori della loro comprensione ed era un miracolo che fossero sopravvissuti alla carneficina. No, si corresse Bucky, non era un miracolo. Erano stati aiutati da un tale che nel mezzo di un sanguinoso scontro si era preso la briga di mettere al sicuro civili la cui unica colpa era stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
 
“Lui ne aveva una uguale sul petto” Jenna indicò la stella rossa sulla spalla di metallo di Barnes.
 
Bucky cercò di nuovo gli occhi di Tony e ci trovò la stessa preoccupazione, mischiata ad una dose di speranza. Erano quasi certi di sapere chi fosse il talevivo – anche se non sapevano in che casino si fosse infilato e, soprattutto, perché non aveva cercato di mettersi in contatto con loro. Anche se quei civili erano sani e salvi, il mucchio di cadaveri al di fuori del container non lasciava molto spazio a buone prospettive.
 
Però era lui, doveva essere lui. Bucky voleva che fosse lui, non gli importava del resto.
 
 
 
Dove diavolo sei finito, Steve?
 
 
 
 
 
 






 
 
Non se ne rese conto subito. La tensione che da giorni aveva insidiato ogni muscolo e nervo era scemata, lasciando il posto ad un senso di radicata spossatezza. Se non ci fosse stata la parete alle sue spalle, si sarebbe accasciato a terra senza poter fare nulla per evitarlo. Gli stivali penzolavano oltre il bordo del tavolo metallico e le gambe erano attraversate da un formicolio non più così fastidioso.
L’aveva immaginata più snervante quell’attesa. Invece, si era presto rassegnato all’idea di dover rimanere in una bolla di incertezza per un numero indefinito di ore. Si erano appena lasciati alle spalle una lunga nottata e avevano ufficialmente fatto tutto il possibile per costringere Lewis ad esporsi. Se non l’avesse fatto dopo questo, i loro sforzi sarebbero risultati tristemente vani e lui non avrebbe saputo che altro fare.
Per ingannare il tempo ed evitare di abbassare troppo la guardia, si era calato nei panni di un osservatore discreto. Nonostante fossero appena le dieci del mattino, diversi dei suoi temporanei colleghi stavano stemperando la tensione con l’aiuto dell’alcol già da diverse ore. Gli agenti dell’Hydra e i mercenari di Batroc erano per la maggior parte riuniti nella grande sala, disposti in gruppi eterogenei. Ad occhio e croce, dovevano essere una ventina all’interno della base, di cui cinque erano mercenari. Alcuni stavano ricevendo cure mediche, altri erano storditi dagli antidolorifici mischiati in maniera poco cauta con l’alcol. Aveva visto qualcuno andare in cerca di un posto più isolato dove potersi appartare per dormire. C’era stato un discreto via vai per il corridoio oltre la porta a vetri, per usufruire delle docce e dei servizi igienici. Anche lui ci era stato, una rapida toccata e fuga per limitare le possibilità di essere ammazzato sotto il getto d’acqua fredda. Si sentiva più sicuro quando poteva avere il solo muro alle spalle e i vestiti addosso ovviamente.
A proposito di vestiti, parecchi uomini stavano gironzolando a petto nudo e uno di loro aveva espresso il comune pensiero su quanto facesse fottutamente caldo lì dentro e che sembrava di essere in una stramaledetta fornace. Steve aveva rinunciato a rimettere la parte alta dell’uniforme nera, limitandosi alla sola maglietta. Faceva caldo e la tentazione di uscire a prendere una boccata d’aria era una lusinga parecchio attraente. Tuttavia, Rumlow non ne sarebbe stato felice.
Seppur in minoranza, nella comitiva erano presenti anche delle donne – ne aveva contate sei, se si escludeva la Myers – e la maggior parte preferiva starsene in disparte, a recuperare le energie. Solo due fra loro si erano aggregate alle bevute per distendere i nervi.
Incrociò gli occhi allungati di un uomo in procinto di portare alle labbra una bottiglia di pura vodka. Una sutura imprecisa gli percorreva la clavicola destra, lasciata esposta dalla canotta scura. Prese un sorso del liquido trasparente e gli dedicò un rapido ma conciliante cenno del capo. Il Capitano aveva evitato che gli recidessero la gola e, con buona probabilità, adesso c’era una persona in meno che lo avrebbe pugnalato alle spalle se si fosse voltato.
Steve abbassò le palpebre per un momento, sfuggendo alla fredda e fastidiosa luce al neon. Un leggero chiacchiericcio faceva da sottofondo. Lavorare con il nemico non era facile per nessuna delle parti implicate e, nonostante la tensione iniziale fosse stata sostituita da una forzata – obbligata – accettazione, lui non avrebbe di certo seguito l’esempio del tizio che dormiva allegramente steso su uno dei tavoli sgombri. Non voleva tentare troppo la fortuna e per questo non era riuscito a dormire molto, se non qualche sporadica ora e solo in presenza di Rumlow, che sembrava davvero intenzionato a tenerlo vivo.
Brock era con Benson in quel momento e si chiese quale strumento di tortura fisica o psicologica stesse usando per ottenere le informazioni che voleva. In fin dei conti, qualsiasi tipo di informazione avrebbe fatto loro comodo. Il suo ex collega aveva dimostrato di sapere come si era mosso Lewis negli ultimi mesi ed era questo che li aveva portati ad avvicinarsi al bastardo. Forse avrebbe avuto una possibilità stavolta. Una reale possibilità. Ed era solo per quella possibilità che si stava sforzando di non pensare a tutto il resto.
Risollevò le palpebre e si accorse di avere gli occhi di Batroc puntati addosso. Iniziava ad abituarsi al suo sorrisetto strafottente. Il mercenario si mosse nella sua direzione e, senza chiedergli il permesso, saltò seduto sul tavolo. Le loro spalle cozzarono e lo spazio a dividerli divenne irrisorio. Le iridi chiare di Batroc erano state rese più liquide dall’alcol e sembrava su di giri. Gli tese un bicchiere mezzo pieno di qualcosa che aveva un odore forte. Steve scosse il capo per rifiutare l’offerta e lanciò un’occhiata guardinga ad un altro paio di mercenari in avvicinamento.
 
“Ti ricordi di me?” gli chiese uno di loro e mostrò una brutta cicatrice sul dorso della mano.
 
“Dovrei?”
Il super soldato non aveva la forza di discutere con soggetti dalla testa calda e per di più brilli. Si era impegnato a mantenere un profilo basso e ad evitare provocazioni di ogni tipo – e non perché Rumlow lo avevo minacciato di morte.
 
“Lemurian Star. Pugnale conficcato nella mano prima che potessi dare l’allarme” gli ricordò l’uomo.
 
“Almeno tu non sei stato spinto fuori bordo” si intromise l’altro mercenario, mentre passava la mano sulla testa rasata e si avvicinava ulteriormente – troppo.
 
L’odore di alcol accompagnava ogni loro parola e respiro. Era una situazione scomoda e Steve si chiese se fosse il caso spostarsi da lì seduta stante.
 
“Ragazzi, per favore. Non siamo qui per rivangare il passato. Adesso siamo soci.”

Inaspettatamente, Batroc fece scivolare un braccio dietro le spalle di Rogers e gli circondò il collo in modo quasi amichevole. Il primo istinto di Steve fu quello di spingerlo via in modo poco gentile, ma preferì non essere l’innesco di una rissa. Una parvenza di equilibrio l’avevano trovata, ma era sottile e poteva andare in pezzi alla minima mossa falsa. Batroc sembrava un tipo che amava segnare su un’agenda i nomi di quelli a cui voleva farla pagare, soprattutto se gli avevano mandato a monte un affare redditizio. Tuttavia, dopo lo scontro che avevano avuto sul jet – il mercenario aveva ancora il naso livido –, si era dimostrato collaborativo e pareva aver messo da parte le loro divergenze.
 
“Allora Rogers, quante possibilità abbiamo di morire al momento?” domandò Georges, subito dopo aver preso un altro sorso dal bicchiere ormai quasi del tutto svuotato. “Sono certo che quel bastardo di Rumlow non mi paga abbastanza” aggiunse infine, con una nota pungente nella voce.
 
“Non sei costretto a restare” gli fece notare Rogers e tentò di scostarsi da lui, ma finì solo per incoraggiarlo a serrare maggiormente la presa.
 
“No, non lo sono. Però adesso sarò certamente sulla lista nera di quel dannato vecchio e preferisco farlo fuori invece di aspettare che mi spedisca contro i suoi mostri.”
 
“Ragionevole” fu la secca risposta di Rogers e Batroc fece sfoggio del suo distintivo sorriso affilato.
 
Ognuno di loro aveva obiettivi differenti, ma questi richiedevano un’unica soluzione, motivo per cui non si stavano ammazzando a vicenda. Rogers però era sicuro che ognuno avrebbe pensato ai propri interessi nel momento cruciale.
Fino ad allora aveva sempre combattuto assieme a compagni per cui nutriva fiducia e rispetto, con la consapevolezza di avere le spalle coperte e di potersi spingere oltre i limiti di sicurezza. Era come saltare in un burrone sapendo – con assoluta certezza – che ti avrebbero afferrato prima dello schianto sul fondo roccioso e frastagliato. Ora, se avesse deciso di saltare, con buona probabilità – con assoluta certezza – si sarebbe sfracellato a terra.
 
“Dovremmo chiedere più soldi in ogni caso. Chi altri accetterebbe di affrontare dei potenziati?” protestò il tizio con la cicatrice sulla mano.
 
Steve conosceva diverse persone che avrebbero accettato e non per soldi.
 
Il chiacchiericcio si estinse di colpo e questo portò il Capitano a sollevare lo sguardo in direzione della porta a vetri. Rumlow era appena entrato nella sala e l’espressione dura non lasciava spazio ad interpretazioni.
“Rogers” lo chiamò e gli fece segno di raggiungerlo con un gesto della mano. Almeno stavolta non aveva schioccato le dita – una gentile concessione da parte sua.
 
Batroc ritirò il braccio invadente e il super soldato saltò giù dal tavolo. Steve notò l’occhiata tagliente che Brock lanciò in direzione del mercenario e si voltò un istante indietro, per controllare che non stesse accadendo nulla di compromettente. Batroc però era lì dove l’aveva lasciato, perciò non si fece ulteriori domande e seguì Rumlow fino all’angusta stanza dove era rinchiuso Benson.
 
La tensione tornò a graffiargli i muscoli diventati insofferenti.
 
“Rilassati. È pronto a parlare” gli assicurò l’ex collega.
 
Rumlow aprì una pesante porta in metallo, che cigolò rumorosamente, ed entrò seguito da Rogers, intento a ricostruire lo stato di concentrazione che gli era necessario.
Henry era in piedi, con le mani guantate giunte dietro la schiena e la camicia sgualcita fuori dai pantaloni scuri. Era ridotto meno peggio di quel che Steve aveva immaginato, conoscendo Brock.
 
“Il mio soldato preferito. Come ci si sente a stare dal lato del carceriere?” Benson si era rivolto a Rogers. Non era arrabbiato, tantomeno nervoso. Forse la rassegnazione doveva aver preso il sopravvento su ogni altra emozione. Oppure credeva di essere ancora intoccabile.
 
“Evitiamo i convenevoli, Benson. Lui è qui. Parla adesso” si intromise Rumlow, sempre più impaziente.
 
L’attenzione di Henry fu tutta per Steve. “Lei mi aveva assicurato che lo avrebbe eliminato. Dovevo avere io il controllo.”
 
“Spiegati” intimò Rogers, ma mancò della dovuta freddezza. Lo stomaco era già sottosopra, perché sapeva chi era la Lei chiamata in causa.
 
“La tua compagna” il disprezzo sgorgò fuori a fiotti “Doveva eliminare Lewis. Erano i patti. Però Lewis era certo che la sua arma più potente non avrebbe fallito e non si sbagliava. La bastarda si è fatta ammazzare.”
 
“Aspetta. La strega è morta?” la delicatezza non era certamente fra le qualità di Rumlow.
 
“Non posso averne la certezza dato che sono qui” Benson si lasciò scappare una risata sentita “Ma pensateci. Se a vincere fosse stata lei non saremmo in questa situazione e tu probabilmente saresti già morto e sepolto, Rumlow” rise di nuovo, di gusto. Poi si zittì di colpo, i tratti del volto sudato si tesero e gli occhi scuri si sgranarono. “Se a vincere fosse stata lei, io avrei il controllo. Quella fottuta strega…”
 
Benson si ritrovò ad un palmo da terra, pressato contro una delle pareti della grigia stanza di detenzione. Le mani di Rogers erano strette attorno il colletto della camicia. Rumlow non osò proferire parola e fece addirittura un passo indietro.
 
“Dimmi come stanno davvero le cose” il super soldato stava cedendo alle lusinghe della rabbia.
 
“Ho detto quello che sapevo, ragazzo” Henry non era spaventato, sembrava essere sotto l’effetto di una droga inebriante “Volevo il controllo” le dita guantate circondarono i polsi del biondo, ma non fecero alcuna pressione affinché lui mollasse la presa. “Passa dalla mia parte. Posso offrirti molto di più di quanto abbiano fatto Ross, Rumlow, persino gli Avengers.”
 
Rogers lasciò andare Benson di colpo e quest’ultimo finì seduto a terra. “Dove e quando c’è stato l’incontro con Lewis?” gli chiese, decidendo volontariamente di ignorare l’offerta appena ricevuta.
 
Henry si tirò su a fatica, senza però abbandonare l’espressione ebbra.
“La stessa notte dell’attacco al Raft. In una base dismessa in Canada.”
 
Era una conferma.
 
“Qual è l’arma più potente di Lewis di cui hai parlato prima?” intervenne Rumlow.
 
“Un altro mostro sotto le mentite spoglie di un’innocente bambina.”
 
La maschera di freddezza indossata da Steve andò in frantumi. La bambina circondata dalle fiamme che aveva visto durante lo scontro con Markov.
“Pensi che potrebbe essere come me?” fece eco la voce incerta di Anthea.
Forse lei ci aveva visto giusto alla fine e questo non era rassicurante. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avrebbe potuto fare Lewis una volta ottenuto il totale controllo di qualcuno con capacità simili a quelle di Anthea.
 
E se Anthea lo avesse perso davvero quello scontro? Se lei…
 
Kristen entrò nella stanza come un tornado, senza chiedere il permesso, e l’attenzione virò su di lei.
“Rumlow, Lewis ci ha contattati e vuole parlare con te” aveva il fiato corto e la faccia di chi aveva appena visto un fantasma e aveva corso per sfuggirgli.
 
Brock cercò lo sguardo di Steve, che ricambiò l’occhiata penetrante. In quella parte della base non c’era un segnale stabile e per questo Rumlow doveva tornare nella sala principale.
 
Quella era la svolta che avevano atteso.
 
Rumlow si apprestò ad uscire dalla stanza. Fu allora che Benson sfruttò il fatto di essere stato messo in secondo piano. Sfilò il guanto destro e dal dorso dell’esoscheletro metallico che gli circondava la mano spuntò una lama corta ma affilata. Balzò in avanti e puntò Brock con la chiara intenzione di ucciderlo.
Steve captò il movimento in ritardo con la coda dell’occhio, però fu abbastanza reattivo da spingere via Rumlow. Così facendo, si ritrovò faccia a faccia con Benson, che gli era arrivato addosso e che ora gli stava rivolgendo un sorriso pieno di soddisfazione e dalle sfumature folli. Sembrava che stesse perdendo completamente il senno.
 
“Unisciti a me.”
 
La mano sinistra di Henry premette con più forza contro la parte bassa della schiena di Steve, le dita sostenute da un secondo esoscheletro si avvinghiarono al tessuto della maglia. Spinse, Henry, premette quelle dita con più decisione, quasi volesse affondargliele nella carne.
 
“Non te ne farò pentire” sibilò l’uomo e lo tenne stretto a sé.

Il rumore di uno sparo risuonò nella stanza ed ebbe l’effetto di un grido agghiacciante. Benson cadde con un buco nella tempia destra, mentre Rumlow abbassava la pistola da cui era partito il colpo.
Steve spostò lo sguardo vacuo dal corpo senza vita di Henry alla lama rimasta piantata nella parte sinistra dell’addome. La estrasse con uno strappo secco e strinse i denti nel farlo. Il tessuto della maglia nera si impregnò di sangue e lui si lasciò scappare un “Dannazione” accompagnato da un sottile tremore nella voce. Gli ci volle parecchio impegno per rimanere in piedi.
Brock fece per avvicinarsi, ma Steve sollevò la mano destra per bloccarlo, mentre premeva l’altra sulla ferita.
 
“Parla con Lewis. Potrebbe essere la nostra sola possibilità.”
Rogers colse uno sprazzo di esitazione nello sguardo scuro di Rumlow e, nonostante la sorpresa, fece in modo di spazzarlo via.
“Che c’è? Non dirmi che sei preoccupato per me” ci mise tutto il sarcasmo di cui era capace.
 
“Fottiti, Rogers. Spero tu possa affogare nel tuo stesso sangue” ringhiò Rumlow e uscì dalla stanza come una furia, senza voltarsi indietro.
 
“Lascia che ti aiuti” la Myers, rimasta agghiacciata da tutto ciò che era appena accaduto, offrì a Steve un appoggio che non fu rifiutato.
 
Uscirono anche loro dalla stanza, lasciandosi alle spalle il corpo privo di vita di Henry Benson.
 




 

 
 
 
 
 
 

“Signore, la prego…”
 
Le parole rimasero incastrate nella gola dell’inetto che era venuto a dirgli che anche i loro ultimi fornitori si erano tirati indietro. Niente più cavie su cui poter sperimentare.
Strinse con maggiore decisione le lunghe dita attorno al fragile collo dell’inetto e osservò con estremo piacere i suoi occhi rovesciarsi, mentre le labbra si coloravano di un blu sempre più scuro. Percepire sulla pelle lo spegnersi della vita ebbe lo stesso effetto di un orgasmo con i fiocchi. Al tempo stesso, non ne fu però completamente appagato. Ne voleva di più.
Lasciò cadere a terra il cadavere che avrebbe usato per i suoi esperimenti e spostò l’attenzione su Markov. Riconobbe la paura nascosta fra le rughe dell’espressione tesa. Non lo biasimava. Essere in presenza di una entità superiore faceva questo effetto, Lewis lo aveva imparato a sue spese.
Compiuto il lavoro che si stavano apprestando a cominciare, anche i suoi nuovi cinque super soldati avrebbero perduto la capacità di fare di testa loro. Se aveva rimandato il ricondizionamento era solo perché aveva bisogno di loro al momento e non era sicuro sul tempo che avrebbe dovuto impiegare per la buona riuscita del processo. Quegli assassini erano restii a piegare il capo. Con la distruzione della sua arma più potente, Adam aveva rischiato di perdere il controllo fondato sulla paura che aveva instaurato. Tuttavia, lo scontro di energie che lo aveva investito aveva risvegliato qualcosa nel nuovo corpo.
Forse perdere la sua arma più letale e la possibilità di riavere Anthea indietro non aveva portato solo conseguenze negative. Forse era stato un sacrificio necessario che gli avrebbe permesso di trascendere completamente la condizione umana per poter diventare un dio. Era ciò che aveva sempre desiderato e questo gli avrebbe permesso di placare la fame che lo stava rendendo sempre più impaziente. Doveva essere una conseguenza dell’imminente evoluzione.
 
“Preparati e dì agli altri di fare lo stesso. È arrivato il momento di contrattaccare.”
 
Markov annuì e si ritirò senza dire una sola parola.
 
 
Era con la paura che si esercitava il controllo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le tremavano le mani. Non era un medico, anche se conosceva le pratiche del primo soccorso. Aveva imparato a suturare ferite di diverse estensioni e forme. Si era esercitata parecchio su Rumlow negli ultimi mesi, eppure non aveva ancora acquistato la giusta freddezza per poter ricucire qualcuno con distacco.
Era ironico se considerava l’assenza di sentimenti con cui aveva trattato le cavie durante il periodo di lavoro al fianco di Lewis. Quell’uomo era stato capace di portarla a fare cose riprovevoli, senza che lei provasse il minimo senso di colpa. Da quando era tornata in sé, aveva fatto di tutto per alleggerire il sopraggiunto senso di colpa che ogni giorno la portava a chiedersi se meritasse davvero la seconda possibilità che le era stata concessa. Fece un profondo respiro e si fermò un istante, con l’ago stretto fra le dita tremolanti.
 
“Mi dispiace, sto rendendo tutto questo più complicato.”
 
“Stai andando bene” la rassicurò Rogers, seduto sul tavolo della piccola stanza che Kristen utilizzava come alloggio personale. C’erano anche una brandina sgangherata e tre borsoni in vista da cui fuoriuscivano abiti, materiale medico, barrette proteiche e blocchi note dagli angoli ingialliti e stropicciati.
 
“Menti ma grazie” la donna riprese il lavoro, tentando di portarlo a termine il più rapidamente possibile.
 
Steve tratteneva il respiro a tratti ed era evidente, dato che il suo addome smetteva di muoversi ogni volta che lei gli bucava la pelle per riunire assieme i lembi della ferita – una brutta ferita. Terminata la sutura, appiccicò una garza sul taglio e passò le dita sui bordi un paio di volte, affinché aderisse perfettamente. Fece un passo indietro per uscire dallo spazio personale del super soldato, che abbassò la maglia rimasta arrotolata a metà torace.
 
“Sarebbe potuta andare peggio” decretò Kristen, con poca convinzione.
 
Di risposta, Steve lasciò cadere la testa all’indietro, poggiando la nuca contro la parete alle sue spalle. “Potresti ricreare il siero?” le chiese a bruciapelo.
 
Le ci volle qualche secondo per processare la domanda. “Sarei in grado di produrne una versione stabile, ma se potessi sradicherei questa conoscenza dal mio cervello. A dire la verità, Rumlow ed io eravamo usciti dal giro” un fievole sorriso fece tendere le labbra piene solo per un fugace istante “Poi Lewis è venuto a cercarmi.”
 
“Avevate lasciato l’Hydra?” Steve scese dal tavolino con un movimento poco fluido.
 
“L’Hydra è al collasso. Non c’è più un capo e l’ultima sconfitta subita è stata devastante. Brock mi ha aiutata a sparire dai radar e poi è rimasto. Se non ci fosse stato lui, sarei già nelle mani di Lewis o morta. Ci siamo spostati da una base dell’Hydra all’altra, ma Lewis ne conosce la collocazione e quindi alla fine abbiamo ripiegato su questa vecchia sede. Le persone di là sono quelle che ci hanno seguiti tra una fuga e l’altra e Batroc è stato l’unico abbastanza pazzo da accettare volontariamente il lavoro.” La Myers si perse nei ricordi dell’ultimo periodo e poi scosse il capo, come se avesse voluto scacciarli. “Posso farti una domanda personale?”
 
Steve annuì senza rifletterci, forse preso dal momento confidenziale che era venuto a crearsi.
 
“Anthea Reyes” Kristen focalizzò nella mente l’immagine della ragazza e del suo sguardo magnetico “Durante lo scontro con Teschio Rosso, in quel vicolo. Lei sapeva cosa ti avevo fatto assieme a Lewis?”
 
“Lo sapeva.”
 
“C’è stato un momento in cui ho avuto la certezza che mi avrebbe uccisa in quello stesso vicolo e io ho creduto di meritarlo.”
 
“Non lo avrebbe fatto” si sentì in dovere di chiarire il Capitano.
 
“Ti credo” gli assicurò lei e sorrise a mezza bocca “Quella sensazione però mi è rimasta appiccicata addosso ed è uno dei motivi che mi ha spinta a voler porre rimedio ai miei torti con tutto l’impegno possibile. Non tenterò mai più di ricreare il siero, però vorrei usare le mie conoscenze per aiutare. Credi che potrebbe essere ancora possibile?”
 
Steve non ebbe la possibilità di risponderle, perché Rumlow aprì la porta della stanza con eccessiva rudezza, rischiando di scardinarla, cosa che fece sussultare Kristen in maniera eclatante.
 
“Brock aspetta” tentò di richiamarlo lei, allarmata. Ormai lo conosceva abbastanza da poter prevedere cosa avrebbe fatto solo guardandolo in faccia. E attualmente era in preda a uno di quei suoi pericolosi attacchi di rabbia cieca.
 
Tuttavia, l’attacco psicotico di Rumlow subì un’improvvisa battuta d’arresto e l’uomo tornò ad essere freddo e distaccato. “Lewis vuole un incontro per trattare e afferma che ci sarà” prese a parlare come se nulla fosse, con una invidiabile nonchalance “Domani. Ci invierà ora e luogo entro la fine della giornata e a quel punto potremo organizzarci” aveva gli occhi fissi in quelli di Steve, che non nascose lo sconcerto provocato dalla notizia.
“E c’è un’altra cosa” le mani ruvide di Rumlow si strinsero attorno il girocollo della maglia di Rogers e lo spinsero indietro, contro la prima parete disponibile. Pezzi di intonaco grigiastro vennero giù a causa dell’impatto violento.
 
Kristen si aggrappò ad un braccio di Brock e tentò di tirarlo via con scarsi risultati. “Ti prego fermarti” lo implorò, ma lui non parve nemmeno notare la sua presenza. Era accecato dalla rabbia.
 
“Ascoltami bene” sibilò l’ex agente dello SHIELD, direttamente ad un soffio dal viso del Capitano “Non ho bisogno della tua protezione. Non voglio la tua protezione.”
 
“Rumlow…”
 
Brock pressò il braccio destro sulla gola del super soldato, impedendogli di emettere anche un solo fiato, mentre con l’altra mano continuava a spingerlo contro il muro, come se cercasse di farcelo affondare dentro.
“Se mi comporto civilmente è solo perché mi servi e ho dato la mia parola alla Myers” l’uomo scoccò un’occhiata tagliente in direzione di Kristen e poi tornò a concentrarsi su Rogers “Se mi trovassi nella situazione di dover scegliere fra la mia e la tua vita, considerarti morto. Annuisci se ti è chiaro il concetto.”
 
Steve sostenne lo sguardo di Brock per un lungo attimo e alla fine annuì. Allora, l’ex agente dello SHIELD allentò la presa e il braccio premuto sul collo si spostò finché non furono solo le dita a premere sulla cervicale, mentre il pollice sfregava il pomo d’Adamo. La sensazione di controllo placò la rabbia viscerale. Di riflesso, la Myers lasciò andare Rumlow e fece un paio di passi indietro, sperando che fosse finita.
 
“Sei quasi gradevole quando obbedisci.”
 
Stavolta Rogers reagì, regalando una testata al suo ex collega. Questo innescò una lotta furiosa che passò dalla stanza al corridoio.
Kristen pensò di intervenire in qualche modo, ma sapeva che se si fosse avvicinata troppo ci avrebbe rimesso le ossa. La sua attenzione fu catturata dall’arrivo di un gruppo di soldati attirati dal trambusto. Batroc era in prima linea e l’eccitazione che gli lesse in faccia non presagiva nulla di buono.
 
“Fate qualcosa prima che si ammazzino” gridò comunque la Stewart, terrorizzata dall’idea di essere costretta ad assistere alla seconda morte violenta della giornata.
 
“Con piacere” Batroc sfregò le mani e si fece avanti, seguito da altri impavidi coraggiosi.
 
Kristen si coprì gli occhi con una mano e imprecò fra i denti. In quel momento avrebbe tanto voluto essere forte abbastanza da porre fine a quel casino e prendere a schiaffi – senza rimetterci le ossa delle mani – quella testa calda di Rumlow, che proprio non ci riusciva ad evitare provocazioni in una situazione già tesa all’esasperazione. Questa non gliel’avrebbe di certo fatta passare liscia.
 
 





 
 
 
 
 
 
 
Autunno 2007
 
 
Le nuvole alla fine si erano disperse e il tepore del sole stava asciugando la terra, tappezzata di foglie ramate cadute da alte querce nodose. Era il primo giorno di bel tempo dopo una settimana di pioggia e vento. I colori autunnali erano vividi e gli ferivano gli occhi dolenti. Erano così vividi in contrasto con la grigia pietra.
L’ennesima pacca sulle spalle fu accompagnata da parole vuote e alle quali non prestò attenzione. Allentò la cravatta con fare brusco, ma respirare continuò ad essere faticoso. La testa gli stava scoppiando e la nausea faceva contrarre dolorosamente lo stomaco vuoto.
Dita affusolate si aggrapparono al gomito destro e stropicciarono il tessuto della giaccia nera.
 
“Sei pronto ad andare?”
 
La voce tremante che pose quella semplice domanda gli provocò una stretta decisa al cuore. La nausea lo aggredì con prepotenza e temette che sarebbe crollato a terra. Ma rimase in piedi. Doveva rimanere in piedi, perché altrimenti a chi altri avrebbe potuto aggrapparsi sua madre? Doveva essere forte per lei.
No, non era pronto ad andare. Forse non lo sarebbe mai stato. Fissò lo sguardo sulla fredda e silente pietra che emergeva dalla terra umida.
 
Andrew Adley Collins.
Marito e padre amorevole. Uomo e soldato esemplare. Il suo sacrificio non sarà dimenticato.
 
Sorrise. Amorevole ed esemplare. Lo era. Lo era stato. Sacrificarsi per salvare vite innocenti e per rendere il mondo un posto meno sporco era un buon modo per andarsene.
Non era arrabbiato con lui. Forse solo un po’, perché sua madre stava soffrendo e avrebbe sofferto a lungo e non avrebbe potuto fare niente per alleviare quel dolore totalizzante e bruciate, se non starle vicino.
 
“Sono pronto. Torniamo a casa.”
 
Rivolse a sua madre un sorriso morbido. Gli occhi bruni della donna che lo aveva cresciuto con amore erano arrossati e gonfi, il naso era screpolato e diversi ricci mori erano sfuggiti alla crocchia appuntata sulla nuca. Era una bellissima donna, sua madre, forte e piena di ottimismo. Tuttavia, in quel momento, le ricordava un fiore appassito che aveva perduto la volontà di opporsi alle tempeste. Sembrava essere invecchiata di dieci anni in un battito di ciglia, le rughe sul volto erano più profonde e la schiena più incurvata, come se un invisibile peso la stesse schiacciando.
 
“Giurami che non seguirai le sue orme. Giuramelo, Daniel.”
 
 
 
Dinanzi la tomba di suo padre, le fece una promessa che non avrebbe mantenuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
New York, Stark Tower

 
 
Scattò sull’attenti non appena le porte dell’ascensore si aprirono. Aveva atteso nella Sala Comune per quasi due ore e finalmente aveva la sua chance.
 
“Signor Stark” esordì, mentre si preparava a fronteggiare Iron Man, mettendo da parte ogni tipo di incertezza o esitazione.
 
“Daniel Collins, giusto? Cosa ti porta qui?”
Stark era visibilmente esausto, eppure aveva accettato di incontrarlo.
 
“Giusto. Sono qui perché voglio aiutare. Mi lasci aiutare. Farò qualsiasi cosa.”
 
Dan si ritrovò a sostenere lo sguardo penetrante di Tony Stark. Ne sentì il peso, ma non cedette, rimase ben piantato con i piedi a terra e le spalle dritte, ostentando una sicurezza che in realtà non aveva.
 
“I sensi di colpa non sono una buona ragione per…”
 
“Non lo faccio solo per i sensi di colpa, glielo posso assicurare.”
 
L’espressione di Stark perse un po’ della durezza iniziale. “Sei ancora in tempo per uscirne, ragazzo.”
 
“Ma io non voglio uscirne. Mi lasci aiutare, la prego.”
 
Tony puntellò le mani sui fianchi e sospirò molto profondamente. Ancor prima che parlasse, Dan seppe di aver vinto.
 
“E va bene, un altro paio di mani ci farebbero comodo, ma se la situazione dovesse complicarsi, non voglio averti fra i piedi, intesi?”
 
“Intesi. La ringrazio, signor Stark.”
 
“Tony e dammi del tu.”
 
Dan annuì. “Ho delle informazioni importanti per voi. Riguardano il Raft.”
 
“Non credi che avresti dovuto iniziare da qui?” non c’era rancore, solo un velo di ironia.
 
“Cavolo. Mi scusi… cioè scusa…” forse si era fatto prendere troppo dall’entusiasmo.
 
 
 
 
 
 






 
 
“Questa è la seconda volta, Rogers. La seconda fottuta volta.”
 
Batroc stava tamponando il naso con una garza. Era seduto su un tavolo e aveva la testa riversata all’indietro per rallentare il sanguinamento.
 
“Non avresti dovuto metterti in mezzo” controbatté il diretto interessato, che invece era con le spalle appoggiate ad una parete e le braccia incrociate al petto. La parte destra del viso aveva assunto un colorito violaceo, soprattutto intorno all’occhio lucido e arrossato.
 
“Ringrazia che si sia messo in mezzo o ti avrei fatto a pezzi.”
Rumlow era dalla parte opposta dell’ampia sala, seduto su una sedia dotata di rotelle difettose e scricchiolanti. La maglia era sollevata per metà e contro l’addome livido teneva premuto un sacchetto di ghiaccio istantaneo.
 
“Continua a raccontartela” fu la seccata risposta di Rogers.
 
“Non muovere il culo da lì, Rumlow” lo precedette Kristen, in piedi al centro della sala. Aveva l’aria sfinita.
 
Rumlow non si mosse, non perché avesse paura della Myers, ma perché uno dei suoi stessi uomini gli stava puntando addosso un’arma carica di tranquillante, lo stesso che lui aveva utilizzato su Rogers nel jet e che, a quanto pareva, anche lei aveva conservato per le emergenze. Era uno stramaledetto ammutinamento, però non riusciva ad essere seriamente incazzato con lei. Quella donna riusciva sempre a sorprenderlo. Aveva preso in mano il controllo della situazione e aveva ristabilito l’ordine, contando sul fatto che nessuno dei presenti voleva rischiare di mandare a puttane tutto il lavoro che li aveva portati fin lì.
 
“Myers, andiamo. Giuro che non prenderò a calci lo stronzo irritante laggiù. Saranno più di due ore che siamo fermi qui.”
 
“Non ne è trascorsa nemmeno una” lo corresse Kristen e sospirò profondamente “Va bene, puoi muoverti. Ma basta stronzate.”
 
Brock lasciò cadere a terra la sacca del ghiaccio, sollevò le mani in segno di resa e nel frattempo fece forza sulle gambe per tornare finalmente in piedi.
“Cominciamo a prepararci in attesa che Lewis ci contatti di nuovo. Sistemate armi e attrezzature. Tenete sotto controllo qualsiasi movimento delle nostre controparti” gli Avengers, Ross e lo SHIELD, Brock evitò di esplicitare “e che nessuno si azzardi a lasciare questa base.”
 
Si creò movimento fin da subito, segno inequivocabile che Rumlow aveva recuperato il comando. Per essere più precisi, la Myers glielo aveva restituito sbloccando l’impasse atta a ristabilire la calma indispensabile per non morire prima del tempo.
Da quel momento, Brock e Steve mantennero le distanze e comunicarono solo se strettamente necessario. La tensione fra i due continuò a rimanere palpabile anche nelle ore successive.
 
“Rumlow” chiamò una donna ad un certo punto, quando la situazione sembrava ormai procedere senza nuovi scossoni in vista. “Vieni a vedere” era seduta davanti lo schermo di un computer ed era visibilmente allarmata.
 
Brock la raggiunse a passo di marcia e si piazzò alle sue spalle, in modo da avere una buona visuale sullo schermo.
“Che succede?”
 
“Abbiamo un problema.”
 
E fu solo il primo di tanti.
 
I collegamenti con l’esterno, dapprima solamente disturbati, si estinsero come la fiammella di una candela sottoposta ad un soffio deciso di alito caldo. E se già questo fu sufficiente a creare un certo scompiglio, il seguito fu anche peggio. Le luci al neon iniziarono a lampeggiare impazzite, calamitando gli sguardi dei presenti verso l’alto. L’interesse per l’illuminazione si esaurì, divorato dal ronzio dei cavi dell’ascensore in movimento, un sibilo metallico nel silenzio attonito. L’agitazione si diffuse alla stregua di una malattia contagiosa e divenne più pressante non appena le luci si spensero in modo definitivo. Adesso erano ufficialmente al buio.
 
“Non ci sono illuminazioni d’emergenza in questo buco dimenticato da Dio?” la voce di Batroc si levò alta, sovrastando il brusio.
 
“Ti sei risposto da solo” gli fece notare Rumlow, ostentando sarcasmo.
 
Un fascio di luce fendette l’oscurità e l’attenzione generale si rivolse in direzione della sorgente. “Ho trovato una torcia” balbettò l’uomo che era stato appena fucilato dalle decine di sguardi e si apprestò a cercarne altre, per poterle distribuire.
 
“Capo, l’ascensore si è bloccato” avvisò una voce femminile, appartenente alla donna più vicina alla cabina.
 
“Rumlow! C’è un’altra uscita?” Rogers cercò di individuare Rumlow e mise da parte l’astio che li aveva spinti ad azzuffarsi.
 
“Dall’altra parte della base. A che cosa stai pensando?” Brock si stava armando e, come lui, altri stavano facendo lo stesso più per emulazione che per piena coscienza di ciò che stava accadendo.
 
“Non ci sarà nessun incontro domani” gli rispose il super soldato.
 
L’ascensore stava tornando giù e scese con una lentezza snervante. Il fievole bagliore proveniente dall’interno della cabina si allargò a macchia d’olio sul pavimento all’aprirsi delle porte e figure scure si stagliarono in quello specchio illuminato. Forse erano una decina o di più. Gli intrusi gettarono a terra quelle che avevano le stesse fattezze di bombolette di spuma, da cui però prese a fuoriuscire fumo bianco. Fumo denso, soffocante e che irritava gli occhi.
 
“Cazzo ci hanno fottuti” decretò Batroc, quando si accesero scintille elettriche alle estremità dei lunghi teaser impugnati da alcuni dei nemici.
 
Gli sguardi degli intrusi erano spenti, apatici, come se non stessero provando alcuna emozione. Non c’era dubbio che fossero i potenzianti di Lewis, totalmente privati della volontà di scelta, resi più forti di semplici umani e insensibili al dolore. Steve ne aveva affrontati parecchi negli ultimi mesi, ma mai così tanti insieme.
 
Kristen allungò una mano per poter stringere il polso sinistro del Capitano e sentire così una parvenza di quella protezione che le era necessaria per non crollare. Era spaventata, terrorizzata. “Cosa facciamo adesso?” gli chiese sperando che lui fosse in grado di farli uscire da lì vivi.
 
“Cercherò di guadagnare tempo. Voi raggiungete l’altra uscita.”
 
I temporanei alleati esitarono, in attesa di un contrordine perché, in fin dei conti, non era a Steve Rogers che rispondevano. Tuttavia, né Rumlow né tantomeno Batroc si opposero alla presa di posizione del super soldato. Allora iniziarono a muoversi tutti, agenti dell’Hydra e mercenari, mentre si lanciavano occhiate poco convinte alle spalle, per assicurarsi che davvero avessero le spalle coperte e che, per una volta, non sarebbero stati usati come le pedine sacrificabili che erano stati chiamati ad interpretare.
 
“Myers” Rumlow arrivò a Kristen, la afferrò per un braccio e la strattonò verso di sé, dividendola da Rogers. “Non fermarti per nessuna ragione, chiaro?”
Dopo una breve esitazione, lei annuì e si unì al gruppo che avrebbe raggiunto la seconda uscita. Il fumo si stava spargendo e respirare stava diventando più faticoso, perciò non c’era tempo da perdere.
 
“Va’ anche tu, Rumlow.”
 
“Non osare darmi ordini, Rogers.”
 
“Basta bisticciare come ragazzine isteriche e facciamo il culo a un po’ di gente.”
Batroc si mise letteralmente in mezzo alle due ragazzine isteriche. Con un braccio si stava coprendo naso e bocca, in modo da inalare quanto meno fumo possibile. Se era preoccupato, non lo dava a vedere per niente.
 
“Dovevo chiedere più soldi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
21 giugno 2015
Un paio di settimane prima, Washington DC

 
 
“Ricordi cosa era capace di fare Antares?”
 
“Una specie di lavaggio del cervello?”
 
Anthea si tirò su a sedere e il sottile fruscio delle lenzuola accompagnò il movimento flemmatico.
“Gli oneiriani la chiamano suggestione. Antares riusciva a suggestionare un individuo a tal punto da convincerlo di qualsiasi cosa lui volesse” fissò lo sguardo in quello di Steve “Era in grado di distorcere la realtà percepita come fosse creta nelle sue mani” concluse e le sfuggì una strana nota di eccitazione che fece sollevare al biondo entrambe le sopracciglia.
 
“Perché me lo stai dicendo?”
 
L’oneiriana abbassò il capo e prese a stropicciare le lenzuola fra le mani. “Alterare la realtà percepita, la sfera emotiva e persino distorcere i pensieri… è spaventoso e averlo provato sulla mia pelle mi ha spinta a cercare un modo per difendermi. Quando sono tornata ad Asgard dopo la battaglia contro Teschio Rosso, ho cominciato a pensarci e a ripensarci” fece una breve pausa, il tempo di un sospiro “alla fine ho iniziato a provarci e…”
 
“Aspetta” la fermò Steve “cosa hai iniziato a provare esattamente?”
 
Lei finalmente risollevò il capo per tornare a guardare il compagno. “Ho capito come utilizzare il potere di Antares a modo mio.”
 
Steve rimase in silenzio, senza però distogliere gli occhi dal viso di Anthea, che si sentì in dovere di spiegarsi.
 
“All’inizio volevo solo capire come difendermi, ma queste sono capacità tanto potenti quanto ammalianti e, a dirla tutta, so che possono ritorcersi contro lo stesso utilizzatore, fino a fargli perdere il contatto con la realtà.”
 
“E cosa succederebbe se tu perdessi il contatto con la realtà? Niente di buono immagino.”
 
“Non dovremo mai scoprirlo se tu mi aiuterai. Ho bisogno di te per rimanere ancorata alla realtà. Sarai la mia ancora” Anthea scivolò più vicina al compagno, finché le loro braccia non furono a contatto. Inclinò il capo e lo appoggiò contro la sua spalla. “È l’unico modo per affrontare l’interferenza e arrivare a Lewis senza che lui possa rendersene conto in tempo per fuggire. E se esiste davvero la minima possibilità che l’interferenza sia simile a me, fermarla ha la priorità.”
 
Steve la attirò a sé con gentilezza, stringendola per un fianco. Poggiò la fronte contro la sua tempia sinistra e Anthea gli circondò il retro del collo con le dita, in modo da rendere più solido il contatto.
 
“Cosa devo fare?” le domandò senza esitazioni.
 
“Devo rafforzare il legame fra noi. Non l’ho mai riparato dopo…” la giovane morsicò l’interno della guancia “insomma, adesso è instabile e incasinato. Dovrei riportarlo ad una condizione simile a quella di quando…” esitò di nuovo.
 
“Mi hai fatto arrivare a te la prima volta” concluse Steve per lei e si tirò indietro, rompendo il contatto.
 
Anthea notò lo spasimo della mascella che si irradiò alle spalle nude. Le bastò quel nonnulla per mettere in dubbio tutto ciò che aveva pensato potesse essere la soluzione.
 
“Spiegami, avanti. È necessaria qualche strana cerimonia?”
 
Le venne da ridere e rise, rise perché Steve si fidava troppo di lei, forse più di quanto lei meritasse. “Steve Grant Rogers, pensi veramente che io sia tipo da cerimonie?”
 
Steve, suo malgrado, si lasciò scappare uno sbuffo divertito. “Scusami, non volevo offenderti.”
 
“Scuse accettate. Allora è deciso, ti incasinerò la testa senza tante cerimonie” gli prese il viso fra le mani “Ma non stanotte, perché devi dormire e io non sono pronta.”
Lo spinse disteso e si piazzò sopra di lui, con le braccia allacciate attorno al suo collo. Sentì le sue braccia circondarle la schiena e si rilassò.
 
“Steve” Anthea lo chiamò in un morbido sussurro “Potrai tirarti indietro quando vorrai, intesi?”
 
Le dita di Steve scivolarono lungo la schiena della giovane, percorrendola in tutta la sua lunghezza, vertebra dopo vertebra.
 
“Intesi.”
 
 
 
 
 
 






 

Era terrorizzata. In quegli ultimi mesi si era abituata alla costante presenza di Brock, alla protezione che le aveva dato senza chiedere nulla in cambio. Non averlo accanto adesso la destabilizzava.
I soldati dell’Hydra l’avevano scorata verso l’uscita secondaria per metterla in salvo. Rumlow era stato chiaro con coloro che avevano deciso – volontariamente – di seguirlo in quella follia. Lei aveva la priorità, perché era una risorsa non sostituibile ed era fra gli interessi principali di Adam Lewis. Stavano cercando di mantenere la parola data, ma le cose si erano fatte alquanto complicate quando i nemici avevano iniziato a braccarli entrando dall’unica altra via d’uscita rimasta. Erano stati costretti a fare retromarcia, ma a quel punto sarebbero tornati dritti all’ascensore. Avevano guadagnato un po’ di tempo sbarrando alcune pesanti porte che separavano zone diverse del corridoio, ma i potenziati non ci avrebbero messo molto a buttarle giù. Inoltre, con l’interruzione delle comunicazioni, era diventato impossibile avvisare Rumlow che il piano di filarsela usando l’uscita secondaria era ufficialmente fallito.
Kristen sentì un aumento repentino della confusione alle sue spalle ed ebbe la forza di guardare indietro, nonostante il panico la spingesse a correre il più velocemente possibile senza curarsi di ciò che la circondava. Un paio di potenziati erano riusciti a raggiungerli prima che una delle ultime porte venisse chiusa. L’azione difensiva che provarono a mettere in piedi non fece altro che generare maggiore confusione.
Kristen cadde sul pavimento, battendo le ginocchia, e la torcia le sfuggì di mano. Cercò di rialzarsi, arrancando a tentoni in cerca di un appiglio. Tuttavia, la paura aveva reso i movimenti lenti e goffi e aveva l’impressione di sguazzare nella melma. Furono voci note, abbastanza alte da sovrastare la confusione, a scacciare via una buona parte del terrore che stava provando.
 
“Questo non va bene!” Steve.
 
“Non va per niente bene!” Batroc.
 
“Rogers, fammi il favore di occuparti di quei bastardi!” Brock.
 
Kristen fu sollevata da terra con una buona dose di rudezza, una rudezza che aveva imparato a conoscere e che non la spaventava più. Le venne da piangere quando si aggrappò al collo di Rumlow con la mano destra, mentre la sinistra si chiudeva sulla maglietta all’altezza del petto. Quella era l’ennesima prova che mai sarebbe stata in grado di diventare una combattente e di affrontare la morte a viso aperto. Preferiva largamente starsene in un laboratorio a giocare con cellule innocue.
“Sono arrivati anche dall’altra uscita” si sforzò di spiegare, nonostante avesse il fiato corto e il cuore a mille.
 
“Cosa facciamo adesso?” era stato Batroc a chiedere e stonava quasi l’urgenza nella sua voce. Stava aiutando alcuni colleghi di Rumlow a chiudere manualmente le porte che avrebbero bloccato la parte del corridoio da cui presto sarebbero sopraggiunti i potenziati usciti dall’ascensore e dove Rogers aveva spinto i due nemici che avevano creato confusione.
Finirono compressi in un pezzo di corridoio, chiusi fra due pesanti porte metalliche che presero a vibrare sotto i colpi dei potenziati.
 
“I condotti di areazione” propose Rogers e indicò la grata sopra le loro teste – parecchio sopra le loro teste.
 
Il super soldato non attese di avere il consenso. Si fece spazio fra i corpi sudati per posizionarsi sotto la grata, si diede lo slancio e si aggrappò ad essa con entrambe le mani, rimanendo sospeso sotto gli sguardi attenti di tutti i presenti. La strattonò fino strapparla via, cosa che lo fece tornare con i piedi sul pavimento. Saltò una seconda volta e raggiunse il vano per infilarsi nel condotto di areazione. Poi si sporse dallo stesso vano e tese la mano verso il basso.
 
“Andiamo. Uno alla volta.”
 
Batroc non si fece pregare. Fece segno di sgombrare la via, prese la rincorsa e saltò per afferrare la mano tesa del super soldato, che lo tirò su senza fatica.
“Avanti il prossimo” incitò poi il mercenario, mentre si sistemava seduto subito dietro Rogers, con le spalle appoggiate alla parete dell’ampio condotto ormai dismesso da tempo. Il condotto era abbastanza largo da poter ospitare un paio di persone sedute l’una a fianco all’altra e sembrava resistente.
Uno dopo l’altro, i componenti della mal assemblata comitiva furono portati all’interno del condotto dal Capitano e lo precedettero andando avanti, verso l’uscita – o almeno speravano di trovare un’uscita.
Nel frattempo, Rumlow aveva fatto sedere Kristen sulle proprie spalle. La donna tese le braccia verso Steve, che dovette sporgersi di più per poterla afferrare saldamente. Batroc, che non si era ancora unito alla processione lungo il condotto, aiutò – in modo del tutto inaspettato – il biondo tenendolo per la cintura dei cargo scuri usando una sola mano. Rogers riuscì a tirare su la Myers e poi tese un’ultima volta la mano.
 
“Nemmeno morto. Spostati.”
Rumlow balzò con l’eleganza di un felino e si portò all’interno del condotto – senza l’aiuto di Rogers. Dopotutto, anche nel suo sangue scorreva il siero del super soldato, una variante funzionale di quello che scorreva nelle vene di Barnes.
 
Fu un’impresa trovare l’uscita, così come fu un’impresa muoversi in quei condotti polverosi, soprattutto quando furono costretti a percorrere alcuni tratti in verticale, per poter salire verso l’alto. A un certo punto, l’avanzamento subì una battuta d’arresto.
“Fate largo” Rumlow raggiunse la testa del gruppo con l’aiuto di qualche gomitata e diverse imprecazioni. Sia Rogers che Batroc approfittarono dello stretto varco creato dal temporaneo collega per raggiungere anche loro la testa.
 
I condotti li avevano portati al parcheggio sotterraneo, che a quanto pareva doveva essere stato chiuso al pubblico, segno che il piano di Lewis era quello di confinare l’assalto quanto più possibile ed evitare in questo modo di attirare attenzioni indesiderate. Nel parcheggio c’erano diversi furgoni e altri nemici.
 
“Bella fregatura. Qual è la prossima mossa?” dalla posizione a gattoni, Batroc torse il collo di lato per poter guardare Rogers, subito dietro di lui.
 
“Ci serve un diversivo” anche Rumlow fissò gli occhi su Rogers “È te che vogliono, Steve” gli ricordò e si prese anche il lusso di ghignare.
 
Steve sospirò. “Va bene. Voi raggiungete le auto.” Passò fra i due opportunisti e raggiunse la grata, che scardinò con un singolo calcio ben piazzato nel centro.
Il super soldato si lanciò all’interno del parcheggio. L’atterraggio creò un’eco sottile e l’attenzione dei nemici fu tutta per lui.
 
“Diamoci da fare.”
 
 
 
 
 
 






 

Quattro giorni prima
 
 
Mentre camminava a passo svelto lungo il corridoio, fu colto di sorpresa da ricordi che teneva confinati da tempo e scelse di lasciare loro il via libera, perché in quel momento non aveva la forza per respingerli.
Fin dalla tenera età, i suoi genitori gli avevano raccontato storie su un pianeta luminoso, perfuso di densa energia vitale e di magia. Gli abitanti erano eredi di curatori con l’innata capacità di coltivare e preservare la vita. All’inizio, il pianeta aveva tenuto aperte le frontiere, per accogliere chiunque avesse avuto bisogno di aiuto, chiunque fosse stato afflitto da un male che le cure esistenti non erano in grado di debellare. Tuttavia, la pace non era destinata a perdurare – non lo è mai. I curatori avevano dovuto indossare le vesti di guerrieri e le loro capacità erano mutate lentamente ma inesorabilmente. Il potere di curare si era trasformato in potere di distruggere e quello stesso potere aveva fatto spostare su di loro i riflettori.
Avevano subito deportazioni ed erano stati usati come armi in guerre a loro estranee. Il pianeta era stato oscurato dal dolore e dalla morte e quell’oscurità era penetrata nei suoi abitanti. E dalle ombre più oscure e temibili era nato colui che aveva riportato la luce, un bambino che aveva tratto forza dal dolore e potere dall’oscurità. Figlio di curatori che avevano scelto di morire pur di rispettare la vita perfino di coloro che a loro l’avevano strappata via, il bambino nato nell’era più buia aveva preso la direzione opposta percorsa dai suoi genitori. Lui era diventato paura, dolore e morte, un flagello inarrestabile, temuto. Aveva preso l’oscurità, l’aveva fatta sua e l’aveva rivoltata contro i nemici, finché sul pianeta non era tornata a risplendere la luce.
Azael era il nome del figlio dell’oscurità, il nome del re che aveva riportato la luce e chiuso le frontiere di un pianeta con ancora la forza di guarire se stesso e di prosperare. Ed era guarito, Oneiro, era tornato a splendere e aveva continuato a farlo per lungo tempo.
 
Ma la pace non è mai destinata a durare.
 
Oneiro, il luminoso pianeta che rasentava l’idea di sogno, era diventato cenere inghiottita dall’immensità dell’universo. Gli abitanti erano stati dispersi nello stesso universo e avevano vissuto aggrappandosi alla promessa di tornare a casa, un giorno. La promessa era stato Azael in persona a farla e per questo avevano continuato a crederci, tramandando il messaggio di generazione in generazione. La convinzione di poter tornare a casa, tuttavia, si era trasformata prima in fievole speranza e poi in una leggenda.
Da bambino ci aveva fantasticato, aveva cercato di immaginare la calda luce di Oneiro, in opposizione alla fredda penombra del posto in cui invece era cresciuto. Dopo aver seppellito i suoi genitori e fin troppi fra la sua gente, aveva smesso di credere nell’arrivo di un fantomatico re salvatore e aveva dedicato anima e corpo a proteggere il gruppo di oneiriani condannati a sopravvivere su un pianeta freddo, ostile e spesso frequentato da pirati in cerca di ricchezza e schiavi.
 
Ricordava perfettamente il giorno in cui tutto era cambiato. Ciò che era accaduto era marchiato a fuoco nella memoria.
 
Ricordava la luce e il calore che avevano squarciato con prepotenza il grigiore. Ricordava il muro di fiamme che si era innalzato davanti a lui creando una barriera che aveva arrestato l’avanzare di pirati sanguinari verso il villaggio.
E poi lei si era mostrata a loro, tendendo la mano per mantenere la promessa. Ricordava ancora le sue parole.
“Il mio nome...” aveva esordito poco convinta, prima di tossire convulsamente fino a piegarsi in avanti per lo sforzo. Ciuffi di capelli ribelli le erano finiti dinanzi il viso annerito dalla cenere e le erano venute le lacrime agli occhi. Aveva borbottato qualcosa contro il fumo che le sue stesse fiamme ardenti avevano generato e, ripensandoci adesso, era stata una scenetta tanto assurda quanto divertente. “Il mio nome” aveva ricominciato la straniera dopo aver ripreso un po’ di fiato “è Anthea e sono qui per onorare la promessa fatta dal sovrano Azael.” La voce rauca non aveva reso giustizia ad una dichiarazione così ambiziosa.
Nessun maestoso re salvatore. Solo una ragazzina incerta che sembrava non avere la minima idea di cosa stesse facendo. Era stata lei a riesumare speranze sepolte e aveva lasciato loro la possibilità di scegliere. Era stata così convincente e rassicurante nonostante tutto.
“Il vostro pianeta d’origine non esiste più, ma posso portarvi al sicuro. Non siete costretti a seguirmi ma, se vorrete farlo, potrete sempre tornare indietro.”
L’oneiriano che aveva vissuto nella storia e che aveva continuato a tramandarla con fede incrollabile era stato il primo ad andarle incontro e ad afferrare la mano che lei aveva teso. Mai aveva visto sorridere in quel modo l’anziano Damastis, gli occhi illuminati da una commozione sentita e profonda.
 
Si erano fidati di lei e lei non li aveva delusi.
 
Anthea lo aveva salvato da un freddo destino, gli aveva dato la possibilità di essere lui stesso protettore della luce che gli oneiriani erano in grado di emanare anche se il loro pianeta non esisteva più.
Tuttavia, come lo era stato per suo padre, l’oscurità sembrava attratta da lei. Oppure, forse era lei ad essere attratta dall’oscurità.
L’aveva vista perdere il controllo così tante volte, l’aveva vista esplodere di rabbia, abbandonarsi ad una disperazione folle e, in quelle occasioni, il suo potere buio e freddo lo aveva spaventato. E poi c’erano il fuoco e il calore, parte di un potere più luminoso, tanto protettivo quanto distruttivo.
Andras non vedeva più una minaccia in Anthea. Le doveva tanto, troppo – forse tutto ciò che aveva. Adesso il sangue della sua salvatrice gli stava sporcando la tunica bianca. Anthea continuava a danzare con la Morte, in cerca di una redenzione che rasentava la punizione per peccati che non riusciva a perdonarsi e forse non sarebbe mai stata in grado di farlo.
Andras aveva sperato che la vita sulla Terra potesse assopire le tendenze autodistruttive e la ricerca ossessiva di redenzione. A quanto pareva, le speranze erano state vane.
Non era la prima volta che la vedeva coperta di sangue. Non era la prima volta che la vedeva così distrutta. Avevano combattuto fianco a fianco durante la missione di riunire gli oneiriani e raramente lei si era risparmiata. Ora però l’apprensione e la preoccupazione lo stavano logorando come mai gli era accaduto prima. Teneva molto a lei.
 
“Voglio i migliori curatori” ordinò al gruppo di soldati che lo seguiva “Subito”.
 
Osservò il viso cinereo di Anthea. La tempia destra era adagiata contro il suo petto, mentre il braccio sinistro penzolava ad ogni passo. I resti dei vestiti parevano essersi fusi con la pelle coperta di sangue e polvere e il corpo non era poi così diverso dai tanti cadaveri che aveva visto. Percepiva a malapena la pulsazione del cuore.
Pregò che lei non gli morisse fra le braccia, perché altrimenti avrebbe dovuto ammazzare Steve Rogers.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Cazzo!” imprecò Rumlow, mentre stringeva le dita attorno al volante come se fosse impegnato a strangolare qualcuno per cui nutriva un sentimento di profondo odio.
 
Dopo tutta la fatica fatta per uscire dalla maledetta base con la maledetta auto, non erano riusciti nemmeno ad andare oltre il maledetto parcheggio esterno del maledetto centro commerciale, perché era gremito di insulse persone ammassate. Gli stramaledetti colori della bandiera americana spiccavano ovunque si dirigesse lo sguardo.
 
“Fottuto quattro luglio” continuò ad esprimere la sua rabbia Rumlow, rabbia alimentata anche da espressioni felici, risate, palloncini e stucchevole zucchero filato. “Cazzo!” ripeté di nuovo.
 
Abbandonare i veicoli e cercare un altro tipo di via di fuga era l’azione che quasi tutti i componenti della comitiva avevano intrapreso non appena realizzata la situazione. Rumlow non era fra questi.
 
“Continuare ad imprecare non farà sparire di colpo tutto quanto, lo sai questo?” Steve stava controllando in maniera quasi ossessiva gli specchietti retrovisori, certo che presto i nemici li avrebbero raggiunti se avessero continuato a starsene lì fermi.
 
Prima che Brock avesse la possibilità di ribattere a tono – o di strangolare effettivamente qualcuno –, Batroc si sporse fra i due sedili anteriori, assumendo il ruolo di divisorio.
“Non abbiamo altra scelta che sfruttare la situazione e confonderci tra la folla. Ci assicuriamo di seminare i bastardi e troviamo un modo per raggiungere il jet.”
 
Si scambiarono sguardi esasperati e, in parte, incerti. Al di là dell’abbigliamento inadatto ai festeggiamenti in corso, c’erano il sangue, i segni di pestaggio e qualche arma più visibile. E poi c’erano Capitan America e la sua faccia ben nota al mondo.
Uno scoppio improvviso fece vibrare violentemente i loro timpani e i muscoli si irrigidirono, pronti a scattare.
 
“Calma ragazzi, sono solo i fuochi d’artificio” li rassicurò Kristen un attimo prima che un secondo scoppio rimbombasse nella notte, colorandola di un rosso vivo.
 
Decine di teste erano adesso sollevate verso l’alto, le espressioni piene di meraviglia. Il fragore, le luci quasi accecanti, i gridolini di sorpresa. Era tutto così perfetto adesso e Rumlow non avrebbe potuto chiedere di meglio.
“Ora ci siamo. Muoviamoci” decretò convinto e non vi furono opposizioni.
 
Abbandonarono l’auto senza altre esitazioni. Rimanere fermi lì non avrebbe comunque portato a risvolti positivi. Si immersero nella folla che aveva invaso il parcheggio esterno del centro commerciale, al cui interno venivano portati avanti i festeggiamenti fra stand di cibo e di gadget.
Dovevano solo far perdere le loro tracce ed evitare di allarmare un’intera città con il pericolo di un attacco terroristico. Semplice.
 
“Sta’ al passo, Myers” Rumlow afferrò la donna per il gomito e la tirò a sé, in modo da averla più vicina ed evitare di perderla di vista in quel mucchio di membra in trepidazione e accaldate. Era il fottuto quattro luglio e faceva maledettamente caldo.
Brock riusciva ancora a vedere la schiena di Batroc dinanzi a lui. Si girò indietro per appurare che ci fosse anche Rogers e non rimase deluso. Quando tornò a guardare avanti, fu costretto ad una brusca battuta di arresto per evitare di andare a sbattere contro la schiena del mercenario.
“Perché diavolo ti sei fermato?” ringhiò, ma non ebbe bisogno di una risposta, perché lui stesso scorse due individui sospetti che si stavano muovendo fra la gente, proprio dinanzi a loro.
 
“Ne vedo altri” avvertì Rogers, prima di concentrarsi sulla Myers “Lewis non deve arrivare a te.”
 
“Non lo farà” Rumlow annuì in direzione del super soldato, che ricambiò il cenno del capo.
Steve allora superò prima Brock e poi Batroc. Dovevano guadagnare tempo e disperdere l’attenzione del nemico. Si divisero, prendendo direzioni completamente diverse, ma Brock rimase con Kristen.
 
Intanto, lo spettacolo pirotecnico stava procedendo indisturbato, allietando gli spettatori del tutto ignari di accadimenti che avrebbero potuto stravolgere le loro vite in pochi istanti.
 
Rogers sfruttò ogni spazio esistente per poter avanzare il più velocemente possibile. Portò per un attimo la mano sul fianco dolorante e le dita si macchiarono di sangue. I punti dovevano essere saltati, ma non aveva tempo per rattoppare in qualche modo quel casino. Sperò che Rumlow riuscisse a mettere al sicuro la Myers, senza la quale Lewis non avrebbe potuto portare avanti le sue folli sperimentazioni.
Aveva l’impressione che fosse già trascorsa una eternità dall’incontro con Benson – l’ultimo incontro, non ce ne sarebbero stati altri. Lewis era di nuovo riuscito ad averla vinta e, mentre loro erano costretti a scappare, il manipolatore stava pregustando il sapore della vittoria lontano dallo scontro a fuoco.
Uno degli inseguitori ce lo aveva davanti proprio adesso, distante una decina di metri. A separarli c’erano una manciata di persone e una famiglia. Il padre teneva il figlio più piccolo sulle spalle, mentre la madre stringeva la mano di una bambina che indossava una leggera gonnellina a stelle e strisce. Steve arrestò il passo e perse la determinazione che lo stava trascinando avanti. L’idea di aver commesso un grave errore rasentò la certezza. Stava sbagliando.
 
Dita fredde si posarono sul retro del collo e lo avvolsero.
“Da quando permetti ai nemici di prenderti alle spalle così facilmente?” fece eco la voce di Bucky nella sua testa.
 
Non lo aveva sentito arrivare. La confusione dei festeggiamenti e il sangue che continuava a perdere non erano di supporto all’attenzione. Oppure stava davvero perdendo colpi. Pensò a una reazione per potersi sbarazzare del nemico senza creare scalpore, ma fu battuto sul tempo.
 
“Sarebbe un peccato dare inizio ad un massacro, non credi?” gli sussurrò nell’orecchio una voce nota, eppure credette di essersi sbagliato. Non poteva essere vero. “Godiamoci lo spettacolo senza creare disagio, vuoi?”
 
Steve girò appena il capo alla sua sinistra e trovò ad attenderlo un volto che non aveva mai visto prima, adombrato dalla visiera di un cappello a strisce rosse, bianche e blu. Rimase fermo, lo sguardo tornato a rivolgersi in direzione delle persone davanti a lui. Non c’erano le condizioni per iniziare uno scontro, avrebbero finito per coinvolgere tutte quelle persone innocenti. Le fredde dita si strinsero con maggiore insistenza sul retro del collo, ma senza fargli male.
 
“È un piacere rivederti, ragazzo.”
 
Steve si impose di rimanere lucido e concentrato. Adam Lewis era lì, si era esposto per un motivo che ancora non comprendeva, ma era lì e gli stava soffiando le parole direttamente nell’orecchio, affinché potesse sentirlo.
 
“Quest’ultima trovata non l’avevo prevista. Tu e Rumlow? La disperazione ha un potere da non sottovalutare.” Lewis si fece più vicino, pressante. Gli era addosso, poteva percepirne il fiato fra i capelli. “Lei era talmente disperata da ridursi in polvere. Non avrebbe dovuto finire in quel modo. Avevo altri piani per lei.”
 
Aveva soppresso quel pensiero fino ad allora, aggrappandosi alla fievole vocina che gli ripeteva che lei stava bene, che come sempre era riuscita a venirne fuori, perché lei aveva l’innata capacità di uscire fuori da situazioni catastrofiche. Polvere…
 
 
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa ti diranno, non smettere di credere in me. La realtà potrebbe incasinarsi da ora in avanti.”
 
 
“Era troppo testarda. Ha preferito finire in pezzi pur di non piegarsi” Adam sembrava dispiaciuto e stizzito al tempo stesso. La pressione sul retro del collo aumentò appena.
 
“È testarda” ebbe la tentazione di correggerlo Steve, ma non ne fu in grado. Era come se gli fossero state risucchiate via le forze. Pressò il palmo della mano sul fianco sinistro e percepì il calore del sangue che gli scivolò fra le dita.
 
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo.”
 
 
Polvere. E se fosse stata lei ad andare in fumo?
 
“Stai sudando freddo, ragazzo” le dita di Lewis si mossero sulla pelle umida del collo. “Sai, c’è una cosa che non riuscirò mai a perdonarti. Io l’ho forgiata e ho impiegato anni per far sì che si avvicinasse alla perfezione. Ma sei stato tu a usarla. Allora dimmi, come ti sei sentito a possedere un’arma così potente?”
 
Steve continuò a rimanere in silenzio, impegnato a contrastare quei pensieri e quei sentimenti che non avrebbero fatto altro che affossarlo. C’era troppo in ballo e troppe vite erano in gioco.
 
“Se solo tu avessi compreso prima cosa avevi fra le mani” il tono della voce si era inasprito “Che spreco. E pensare che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa tu le avessi chiesto senza battere ciglio.”
 
Il cielo buio si illuminò di un giallo brillante e Steve pensò alle iridi di Anthea inondate dall’ambra quando la sua energia faceva vibrare l’aria. Polvere.
“Sei fuori strada. Non la conosci affatto” affermò con una calma di cui si sorprese lui stesso. Adam Lewis era lontano anni luce dalla verità.
 
“Invece io la conoscevo. Si era attaccata a te solo perché credeva di avere un debito nei tuoi confronti, un debito che non avrebbe mai potuto estinguere. Perché tornare sulla Terra altrimenti, quando avrebbe potuto governare un popolo di esseri tanto potenti?”
 
I fuochi d’artificio si susseguirono più rapidi, i colori finirono per sovrapporsi e le fontane brillanti per intrecciarsi. L’odore di polvere da sparo aveva ormai impregnato l’aria.
Il gridolino entusiastico del bimbo seduto sulle spalle del proprio padre seguì ad una nuova ed intensa esplosione di luce. La sorellina dalla gonna a stelle e strisce voltò il capo verso quel suono gioioso e nel farlo incrociò lo sguardo di Steve. Gli rivolse un sorriso genuino, che il super soldato ricambiò d’istinto, dimenticando per un attimo le dita di Lewis strette sul retro del collo e la sua presenza fisica incombente. Poi l’espressione della bambina mutò e la dolcezza imbevuta di candida innocenza si trasformò in scottante paura. Steve voltò il capo e il profilo di Rumlow entrò nel suo campo visivo.
 
“Rumlow, aspetta!”
 
Il grido della bimba precedette lo scoppio violento dello sparo. Un fischio stordente fu seguito da un boato che fece tremare l’aria. Ma stavolta la notte non fu colorata. Divenne più buia e lo spirito festoso fu inghiottito da una spettrale foschia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anni prima
 
 
“Continua ad evolvere. Ogni volta che la spingiamo al limite, sviluppa nuovi meccanismi di difesa.”
 
Era una spessa lastra di vetro temprato a separarlo da lei. Una effimera barriera contro qualcosa che andava oltre l’umana comprensione. Quel qualcosa avrebbe potuto scalfire il vetro, disintegrarlo, scioglierlo perfino. Tuttavia, Adam era certo che il vetro sarebbe rimasto integro. Per ora.
Anche le bestie più feroci potevano essere domate con il giusto metodo ed esisteva solo un metodo che lui riteneva efficace. La paura, una paura totalizzante e paralizzante, in grado di incatenare la bestia e di abbatterne lo spirito. La bestia con cui aveva a che fare non era arrendevole, trovava nuovi modi per spezzare le catene o, se non riusciva a spezzarle, tirava fuori la forza di sopportarne il peso. Era testarda.
 
“Forse sarebbe meglio non istigarla ancora. Non riusciremo a contenerla se…”
 
“È la sua evoluzione ciò che mi interessa. È la chiave per arrivare a qualcosa di grande. La renderò perfetta.”
 
All’inizio si era trattato di telecinesi. Oggetti che levitavano, che si spostavano o che venivano scaraventati con violenza. Poi la manipolazione si era estesa agli esseri viventi ed era come se lei riuscisse a vederne gli organi vitali e ad agire su di essi. L’avevano sedata, avevano fatto in modo di assopire i suoi sensi abbastanza da impedirle di agire sull’ambiente e sulle persone che la circondavano. La dose dei sedativi che le iniettavano nel sangue era in costante aumento affinché continuassero a fare effetto.
Allora, la bestiolina aveva iniziato ad agire su se stessa. Per evitare di essere toccata e ferita, lei andava a fuoco. La temperatura del suo corpo si innalzava tanto da distruggere gli strati di pelle, uno ad uno, il sangue bolliva, i liquidi evaporavano e starle vicino diventava impossibile. In quelle occasioni, il processo di rigenerazione cellulare accelerava in modo prodigioso, impedendole di finire carbonizzata. Si distruggeva e si ricomponeva, solo per poi distruggersi di nuovo. Avevano dovuto dotarsi di attrezzature e protezioni che potessero resistere ad elevate temperature e avevano risposto al fuoco con il ghiaccio. Era per questo che riusciva a vedere ogni singolo respiro condensato della bestiolina, il cui sguardo annebbiato dai farmaci ce lo aveva puntato addosso proprio in quel momento.
La bambina teneva le ginocchia al petto, era seduta con le spalle appoggiate contro la fredda parete metallica. Le labbra erano bluastre e gli arti che spuntavano dalla candida vestaglia stavano gradualmente tendendo alla medesima colorazione, segno che le funzioni vitali erano in discesa.
 
“Cos’è?”
 
Era stato l’uomo che era al suo fianco a parlare, un nuovo acquisto ancora incapace di vedere la grande occasione che avevano fra le mani.
 
“Di cosa stai parlando?”
 
L’uomo sollevò il braccio destro e distese l’indice in avanti. Indicò un punto vuoto, vicino alla piccola figura rannicchiata sul pavimento. Era paura quella che gli aveva irrigidito i tratti del viso e che aveva reso il respiro più corto. Lo osservò indietreggiare, un passo alla volta.
Adam si concentrò sul punto che gli era stato indicato e, lentamente, iniziò a venderle anche lui, forme indefinite, sempre più scure.
 
La bambina si era alzata in piedi.
 
Una crepa si delineò sul vetro e si diramò in altre crepe sottili, come le radici di un albero capovolto. Lei stava evolvendo ancora, oltre ogni razionale comprensione.
 
“Cosa stai facendo?” si azzardò a chiederle, forte del potere che esercitava su di lei. Lei lo temeva.
 
La bestiolina mosse un passo in avanti e poi un altro e un altro ancora, fermandosi solo quando fu ad un soffio dal vetro. Arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare e non gli concesse alcuna risposta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Giorni prima
Washington DC

 
 
“Entra.”
 
Quando aprì la porta, si ritrovò catapultato all’interno di un angolo di caos, la cui causa era proprio dinanzi a lui, a pochi passi di distanza, e lo stava osservando con il sopracciglio destro inarcato.
 
“Rimarrai lì ancora per molto o ti deciderai ad entrare?”
 
“Anche io sono contento di vederti. E sì, sto bene, grazie per avermelo chiesto.”
 
Anthea lanciò su una sedia una maglia che aveva appena raccolto dal pavimento e sistemò la spallina della canotta verde infilata in un paio di pantaloncini grigi, il cui laccio slegato pendeva dimenticato lungo le cosce. Puntellò le mani sui fianchi e gli rivolse un sorrisetto di sfida.
 
“Ti muovi oppure devo venire a prenderti?”
 
“Non saprei dove mettere i piedi dato il casino che…”
 
Fu trascinato all’interno della stanza senza preavviso e la porta gli si chiuse alle spalle in modo brusco. Arrivò dritto da lei, che nel frattempo non si era mossa e aveva continuato a sorridere compiaciuta. La giovane gli circondò i fianchi con le braccia e lo guardò dritto negli occhi.
 
“Non giudicare il mio ordine leggermente incasinato, soldato. Sono stata impegnata.”
 
Steve sollevò entrambe le mani in segno di resa. “Okay, hai vinto. Scusami.”
 
“Sei perdonato. Quanto tempo hai stavolta?” l’oneiriana lo lasciò andare e si diresse verso il letto per sistemare il lenzuolo. Poi si sedette facendo cigolare il materasso.
 
“Un’ora circa.”
 
“Ecco spiegata l’uniforme. Ce lo faremo bastare.”
 
Anthea lo invitò a prendere posto al suo fianco e Steve sfilò gli stivali. Si sistemarono l’uno di fronte all’altra, con le gambe incrociate e le ginocchia a lieve contatto. La giovane rovesciò il capo all’indietro, i lunghi capelli si riversarono sulla schiena e poggiò i palmi delle mani poco dietro il sedere. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, cercando di rilassarsi.
 
“Sei pronto?”
 
“Per un’altra emicrania?” ironizzò il biondo, dopo aver chiuso gli occhi a sua volta.
 
“No… forse… non farmi pressioni e rilassati.”
 
Era Anthea quella più tesa fra i due, ogni volta – e sembrava più tesa del solito. Steve attese l’arrivo della scossa, la scarica di elettricità che attraversava ogni fibra del corpo, il segnale che la connessione aveva iniziato a mettere radici sempre più profonde. E allora la sentiva, provava emozioni che non gli appartenevano e vedeva cose che non aveva mai visto prima in flash confusi e inafferrabili. Tuttavia, stavolta, la scossa non arrivò. Tutto rimase silente. Non sentiva particolari stimoli, né riusciva a sentire lei.
Da quando ne avevano parlato, la notte successiva agli eventi di Chicago, avevano iniziato a sperimentare nei frangenti di tempo disponibili. Sostenere la connessione stabile che Anthea stava ricostruendo era più difficile di quanto Steve avesse immaginato. Aveva dimenticato cosa significasse avere a che fare con l’emicrania, la nausea, i blackout e il conflitto con emozioni che non gli appartenevano – queste cose non gli erano mancate affatto. Anche se stavolta ne era consapevole e si era preparato, avere a che fare con quel tipo di energie psichiche si era rivelato comunque sfiancante e destabilizzante. Era un vero casino, tanto che era arrivato a chiedersi come lei riuscisse a conviverci.
Il fatto di non sentire niente al momento era strano. Sollevò le palpebre e ad attenderlo trovò una strana luce, un riflesso che gli graffiò gli occhi e che sembrava deformare gli oggetti che lo circondavano.
 
C’era come una nebbia appena percettibile.
 
Batté le palpebre un paio di volte, con insistenza, nel tentativo di scacciare la foschia che annebbiava la vista. Rivolse di nuovo l’attenzione ad Anthea e fece per chiederle cosa fosse andato storto. Nonostante ne avesse viste davvero tante di cose assurde, l’asticella continuava ad alzarsi. La metà sinistra del viso della sua compagna era nera come il carbone e percorsa da sottili crepe. D’impulso le afferrò un braccio.
 
“Anthea” il panico gli incrinò la voce e lo fece scattare in avanti, verso di lei.
 
Ombre sbiadite si palesarono alle spalle della giovane e la nebbia sembrò infittirsi gradualmente. Steve afferrò il viso di Anthea fra le mani e si rese conto che non c’era più alcun segno che ne rovinava i tratti. Lei stava bene e lo stava guardando con un’espressione desolata. Era svanito tutto.
 
“Cosa è successo?” le chiese e la lasciò andare un poco alla volta.
 
“Scusami” sussurrò la ragazza, mentre scioglieva le gambe per potersi sistemare sulle ginocchia, attorno alle quali il materasso si infossò.
 
“È tutto okay?”
 
“Io… sto bene” arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare e le distese subito dopo “Lo sai che non sono brava con questo tipo di cose” sventolò una mano con fare noncurante “Ma lo diventerò per fare terra bruciata attorno quel fottuto manipolatore.” La simulata leggerezza fu sovvertita da tagliente risolutezza e le iridi di Anthea si imbrunirono, alla stregua di un cielo che preannunciava tempesta, una tempesta devastante.
 
Steve le posò una mano sulla spalla e la tempesta si placò. “Cosa ho visto prima?”
 
“È complicato…” esitò, incerta su cosa dire “Non succedeva da anni… molti anni…” era svanito ogni segno di tempesta nello sguardo dell’oneiriana, ora perso in luoghi scuri ed inaccessibili.
 
Lui non le fece pressione. Attese, paziente. Aveva imparato a riconoscere quei confini ancora invalicabili che doveva essere lei e lei soltanto ad aprire.
 
“Lewis e i suoi tirapiedi la chiamavano foschia. Non ne ho mai compreso l’origine e non ne ho mai avuto il controllo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Era rimasto privo di coscienza per un tempo che faticava a definire. Era frastornato e aveva la vaga sensazione che gli fosse passato sopra un treno. La nota positiva? Era ancora intero e non aveva nessun nemico alla gola. L’ultima cosa che ricordava con chiarezza era Rumlow che premeva il grilletto con l’intenzione di ridurre il cervello di Lewis ad una massa spappolata e sanguinolenta. Poi il vuoto.
Strofinò il dorso della mano contro gli occhi e batté le palpebre ripetutamente, finché non capì che non era la sua vista ad essere annebbiata. La nebbia ce l’aveva intorno. O meglio, ci era nel mezzo. La visibilità non andava oltre i cinque o al massimo i sei metri, ovunque si volgesse lo sguardo. Non riusciva a vedere neppure il cielo. L’ultima volta che aveva guardato era notte, eppure l’anomala nebbia era permeata da una luce fredda, quasi fastidiosa. E faceva freddo, tanto che ogni respiro veniva fuori in nuvolette di aria condensata. Mosse qualche passo e l’impatto delle suole contro l’asfalto si srotolò nel silenzio in palpitii attenuati. Non riusciva ad orientarsi, perciò si fermò e rimase in ascolto. Aveva ormai una certa familiarità con le cose totalmente irrazionali e forse era per questo che riusciva a conservare la freddezza necessaria per affrontarle senza dare di matto. Tuttavia, quando cominciò a intravedere figure scure stagliarsi nella nebbia, gli sfuggì parecchia di quella freddezza.
Gli esseri dai tratti indefiniti – vaporosi – non si muovevano. Sembrava che vibrassero come scossi da stimoli invisibili e a cui non erano in grado di rispondere.
Un soffio gelido gli carezzò il collo e si voltò di scatto. Si trovò di fronte uno di quegli esseri dalle fattezze umane, ombre dotate di spessore. D’istinto si allontanò facendo concitati passi indietro e finì per sbattere la schiena contro qualcosa di solido – qualcuno – che si aggrappò a lui, trascinandolo con sé nella caduta causata dall’impatto imprevisto. Si schiantarono a terra e l’attimo dopo erano già con le mani l’uno alla gola dell’altro, per mero istinto di sopravvivenza.
 
Fanculo, sei tu, fottuto bastardo!”
 
Steve dovette ammetterlo almeno a se stesso. Provò sollievo nel ritrovarsi Rumlow addosso, nonostante l’appellativo poco carino che gli aveva rivolto. Si tirarono su a vicenda con una goffaggine da manuale e non commentarono lo scontro appena avuto. C’erano questioni che avevano maggiore priorità, come capire cosa stesse succedendo e in che inferno fossero stati risucchiati.
 
“Hai sparato a Lewis, giusto?”
 
“L’ho fatto, eccome se l’ho fatto. Il problema è che non ricordo di aver visto il sangue schizzare via dal suo cervello perché qualcosa mi ha spinto via e credo mi abbia messo fuori gioco per un bel po’ e che cazzo sono queste maledette ombre? Mi fanno venire i brividi… e perché fa così dannatamente freddo?”
 
Rumlow era fuori di sé, nervoso e privo della solita risolutezza. Sbraitò ancora contro le entità indefinite che almeno non vogliono sgozzarci subito e contro la maledettissima foschia.
Fu allora che Steve venne investito da un’ondata di lucidità e ricordò di aver già visto quelle ombre vaporose. La voce di Anthea gli riempì la testa subito dopo.
 
“Era come se le emozioni finissero per prendere forma fuori da me. Ed erano così intense da far perdere consistenza a spazio e tempo, come in un sogno. Se devo essere sincera, non ricordo molto…”
 
Ma Anthea non poteva essere lì. Non riusciva a sentirla, non ci riusciva da quando Rumlow lo aveva tirato fuori dall’oceano. Non poteva essere opera sua. E se fosse stata opera dell’interferenza? E se Anthea avesse davvero perso lo scontro come aveva detto Benson?
No, era fuori discussione. Lei stava bene – doveva stare bene – e sarebbe arrivata per tirarlo fuori dai guai prima che fosse tardi, come sempre. Gli ingressi ad effetto erano il suo forte dopotutto.
Steve fece un unico – ultimo – tentativo e si concentrò. Non la sentì nemmeno questa volta, però percepì qualcosa di diverso, qualcosa che assomigliava ad una connessione. E improvvisamente la foschia si diradò, offrendogli una visione più chiara.
Il silenzio fu interrotto da una moltitudine di urla sconnesse e la nebbia tornò ad infittirsi. Le priorità virarono nella direzione in cui avrebbero dovuto dirigersi fin dall’inizio.
 
“Dobbiamo portare tutti al sicuro.”
 
“Scordatelo, Rogers. E anche se volessi farlo, sarebbe impossibile in queste condizioni. Troviamo Lewis e finiamo il lavoro.”
 
“Forse so come muovermi. Se vuoi il mio aiuto, dovrai aiutare prima me.”
 
Rumlow fece un verso seccato, gutturale, e allora si rivolse di nuovo a Steve. “E va bene. Cosa vuoi che faccia?” doveva essere decisamente disperato per accontentarsi di un forse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rumlow aveva previsto un piano d’emergenza. Un piano di fuga che Kristen aveva odiato in modo viscerale, nonostante la consapevolezza che quello stesso piano avrebbe potuto salvarle la vita. Aveva dovuto studiare la piantina dell’impianto fognario e aveva dovuto passarci dentro diverse ore per prenderci confidenza.
Alla fine si era rassegnata e adesso ringraziava l’irremovibilità di Rumlow, perché era riuscita a muoversi attraverso le fognature senza difficoltà e ne era uscita una volta certa di essersi allontanata abbastanza. Poco dopo essere risalita in superficie qualcosa doveva essere andato storto, perché aveva perso coscienza per un tempo che non riusciva a definire. Si era ripresa da pochi minuti, ma era ancora parecchio frastornata.
Eppure, il muro di fitta nebbia che si innalzava di fronte a lei non era un’allucinazione, ne era certa. Non riusciva a vederci attraverso. Si fece più vicina e quando provò a immergersi nella nebbia, una barriera invisibile la rispedì indietro, con il sedere a terra.
 
Cosa avrebbe dovuto fare adesso?
 
Una mano spuntò dalla nebbia e si appoggiò contro la barriera. Altre mani fecero la stessa cosa e poco dopo Kristen vide i volti terrorizzati di persone che cercavano di venire fuori dall’incubo in cui erano stati risucchiati.
Il piano di passare inosservati era ufficialmente andato in fumo e presto sarebbe scoppiato il finimondo. Forse però qualcosa poteva ancora farla, considerato che possedeva informazioni preziose.
 
Gli Avengers. Doveva raggiungerli non appena loro fossero arrivati lì. Perché sarebbero arrivati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Diverse ore prima
 
 
La cupola di fumo.
 
Questo era stato il nome definito in via ufficiosa per riferirsi all’anomalia che era apparsa nella tranquilla cittadina di Bloomington, in Minnesota. Lo spettacolo pirotecnico era finito con il botto, ma non uno di quelli colorati. Era stato un botto grigio che aveva annichilito ogni festeggiamento e ogni barlume di gioia.
Dal punto di vista logistico, poteva essere una svolta vantaggiosa che segnava la fine delle infruttuose ricerche sia di nemici reticenti a mostrarsi sia di alleati poco collaborativi.
Il problema era che tutti sarebbero stati calamitati lì e l’evento si sarebbe tramutato in una corsa all’oro senza che ci fosse del vero oro. C’era troppo in ballo e Ross non aveva intenzione di lasciare campo libero alle altre fastidiose parti contendenti.
 
“Signore, siamo pronti. Riceverà aggiornamenti costanti non appena…”
 
“Non servirà. Mi unirò a voi.”
 
Stare dietro una scrivania non aveva mai fatto parte della sua indole e, sicuramente, non sarebbe rimasto seduto quando gli equilibri mondiali stavano per essere sconvolti ancora una volta e sotto il suo stesso naso.
Inoltre, qualcosa gli diceva che il suo insubordinato super soldato fosse coinvolto e spettava a lui occuparsene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Abbiamo un grosso problema… l’ennesimo grosso problema.”
 
“Che cos’è?”
 
“Non ne ho la più pallida idea, ma scommetto che loro sono lì. Devono essere lì.”
 
“Allora diamoci una mossa, perché non saremo gli unici interessati” Tony serrò i pugni “E io vorrei tanto essere il primo a dire un paio di paroline ad una persona in particolare.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Da questa parte, muoversi.”
 
Rumlow era già stufo marcio di fare da balia a un branco di civili lamentosi. Okay, ammetteva che nemmeno lui era a suo agio in quella fottuta nebbia abitata da ombre inconsistenti e anche da nemici fastidiosamente reali. L’unica nota positiva era che, come loro non potevano vedere arrivare i nemici, nemmeno i nemici potevano vedere arrivare loro. Quindi, in tal senso, erano alla pari. Peccato che i nemici non dovessero portarsi dietro zavorre a causa del tenero cuoricino di uno di loro. A proposito, doveva rettificare. Quel bastardo di Rogers sembrava capace di riuscire a vedere attraverso la nebbia e – per quanto gli costasse ammetterlo – era merito suo se raccattare alleati e civili non fosse un’impresa impossibile, anche se non era di certo una passeggiata.
Con alcuni gruppi di persone era stato più semplice, perché avevano seguito le indicazioni senza fare domande, troppo terrorizzati per farne o abbastanza furbi da capire che non fossero nella posizione di poterne fare. Altri gruppi erano invece stati ostici da trattare, a causa di singoli elementi presi dal panico o da manie di eroismo nei confronti dei loro cari ancora dispersi. Se avesse potuto prendere decisioni, Rumlow avrebbe eliminato il problema alla radice, ma al momento era costretto a seguire le direttive di Rogers per evitare di finire ammazzato.
Sfortunatamente, oltre la nebbia e i potenziati di Lewis, era sorto un ulteriore problema, un ulteriore grosso problema.
All’inizio il piano era stato quello di allontanarsi da lì il più velocemente possibile, ma avevano scoperto di essere all’interno di un campo di forza. Rogers aveva esplorato più direzioni – aveva macinato chilometri su chilometri in tempi sorprendentemente ridotti – ma il campo di forza sembrava circondarli. Così avevano dovuto optare per una strategia alternativa. Le fogne.
Stavano portando tutti nelle fogne per sgombrare il campo di battaglia, perché presto lo sarebbe diventato un campo di battaglia. Avevano già incontrato potenziati più simili a mostri che ad umani, segno inequivocabile che Lewis si era portato dietro tutto il suo fottuto circo.
Era convinto che quella nebbia non fosse parte del piano di Lewis. Cercare di ucciderlo doveva essere stato l’innesco di un potere non umano e magari poteva esserci lo zampino della strega. In ogni caso, di Lewis al momento non c’era traccia e il fronte nemico sembrava disorganizzato e quindi meno pericoloso di quanto avrebbe potuto essere.
 
“Una alla volta. Veloci.”
 
Aver effettuato missioni di salvataggio e recupero di ostaggi in passato facilitava il compito che adesso era obbligato a svolgere.
 
“La mia bambina è ancora là fuori…”
 
Ma le seccature non avevano fine. Quei civili avrebbero dovuto limitarsi a ringraziare e ad eseguire gli ordini.
 
“Ci stai rallentando. Scendi.”
 
“Ti prego…”
 
“La troverò.”
 
L’uomo – la seccatura – annuì grato in direzione della persona che si era appena pronunciata e finalmente si decise a scendere giù nel tombino.
Rumlow sospirò e il capo ricadde in avanti in un moto di puro sfinimento. Rivolse un’occhiataccia in direzione di Rogers e questa fu ignorata. Il biondino stava facendo uso del titolo di Capitan America per rendere i civili più collaborativi – in realtà Rogers aveva detto qualcosa sulla fiducia ma aveva smesso di ascoltarlo quasi subito. I più collaborativi erano stati i bambini e gli anziani, a parte la vecchia che aveva continuato a domandare ‘Quando potrò tornare a casa? La mia gatta non può rimanere sola per troppo tempo’ e la voglia di spingerla nel tombino era stata davvero forte, quasi irrefrenabile.
Afferrò Rogers per un polso prima che si allontanasse e lo strattonò a sé, strappandogli un sottile gemito sofferente – eppure non aveva tirato così forte. Non gli chiese cosa avesse – non si sarebbe abbassato a tanto – e andò dritto al punto.
 
“Hai davvero intenzione di recuperare tutti? Non sappiamo nemmeno quanti ce ne siano ancora. Direi che abbiamo fatto a sufficienza, non credi?”
 
“No, non credo” Steve si sottrasse alla presa con un movimento secco del braccio “Siamo fermi qui da troppo tempo. Dobbiamo muoverci prima che ci individuino.”
 
Stare a lungo fermi in un punto era pericoloso. La probabilità di essere intercettati dai nemici si avvicinava alla certezza, anche in presenza della nebbia.
Batroc era ancora assente. Forse si era fatto ammazzare, oppure aveva trovato un buon nascondiglio il bastardo. Parecchi colleghi dell’Hydra sarebbero stati impegnati a fare da guida ai civili, giù nelle fogne – fin dove la barriera di energia bloccava il passaggio – e perciò erano sempre più a corto di soldati. Sperava che almeno la Mayers fosse fuori da quell’inferno.
 
“Sei certo che questa non sia opera della tua…” Rumlow ingoiò l’appellativo strega prima che fosse tardi “collega Avengers?”
 
Il pesante cerchio metallico fu riposizionato su uno degli ingressi all’impianto fognario ed emise un’eco tintinnante.
Rogers scosse il capo, un chiaro segno di diniego alla domanda rimasta sospesa. Poi si guardò intorno e la mascella contratta ebbe un sussulto. “Dobbiamo muoverci. Si avvicinano.”
 
Rumlow, suo malgrado, annuì e si mosse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il mondo era più incasinato di quanto ricordasse e il siero del super soldato era stato surclassato da forze superiori, intangibili ma reali. Era finito sotto ghiaccio per essersi rifiutato di dimostrarsi un cagnolino obbediente e adesso, uscito dall’ibernazione, si era ritrovato nella posizione di dover obbedire per evitare di finire schiacciato da forze che andavano oltre ogni umana comprensione.
La bambina demoniaca di Adam Lewis gli aveva instillato paura dal momento stesso in cui i loro sguardi si erano incrociati la prima volta ed era il motivo per cui aveva deciso di non opporre resistenza. E così avevano fatto anche gli altri soldati d’inverno.
Lewis aveva promesso che, una volta raggiunto l’obiettivo, avrebbe dato loro la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, senza più interferire in alcun modo. Avevano dovuto credergli sulla parola.
Quella notte avrebbe dovuto essere l’ultima al servizio di Adam Lewis, ma qualcosa era andato storto e adesso erano rifugiati all’interno di un centro commerciale agghindato con festoni e bandiere, in compagnia di due potenziati, il tizio che avevano fatto evadere dal Raft e di Lewis. Quest’ultimo era ancora in uno stato a metà fra coscienza e incoscienza e, se non fosse stato per loro, ora sarebbe alla completa mercé dei nemici.
Avrebbe potuto essere l’occasione di far fuori Lewis e andarsene da lì, se non fosse stato per la nebbia infestata da ombre scure.
 
“Li voglio morti.”
 
Adam si mise seduto con uno scatto secco. Gli occhi brillarono nella penombra come due tizzoni ardenti e le vene che percorrevano il cranio calvo pulsarono sotto la fine pelle pallida. Aveva il fiato corto e i lunghi arti erano scossi da lievi spasmi sconnessi.
Markov rimase immobile, schiacciato da un senso di oppressione crescente. Ebbe l’impressione che qualcosa di estraneo si stesse lentamente annidando dentro di lui.
 
“Voglio che scorra sangue.”
 
Adam tentò di rimettersi in piedi. Fallì e fu costretto ad accettare l’aiuto dei suoi potenziati. La nebbia intorno a loro vibrò e poi fu la terra a vibrare.
Allora Markov provò qualcosa di simile alla paura, che vide riflessa nei volti dei suoi compagni. Qualsiasi cosa stesse accadendo, era al di fuori della loro portata.
 
“Che l’esecuzione abbia inizio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aveva lasciato Rumlow in prossimità di un altro ingresso all’impianto fognario ed era tornato indietro alla ricerca di civili che forse aveva intravisto durante la ricerca precedente. Doveva mettere al sicuro tutti e solo dopo avrebbe potuto occuparsi di Lewis.
Il secondo passo sarebbe stato quello di far crollare la maledetta barriera. Non c’era stato modo di capire cosa stesse accadendo all’esterno e, in fondo, sperava che loro fossero già lì fuori. Il palmo della mano finì contro la ferita al fianco sinistro, ormai quasi del tutto riaperta, e premette. Stava diventando un automatismo, anche se non impediva al sangue di continuare a fluire fuori, seppur lentamente. Serrò i denti e tornò a concentrarsi, conscio di non potersi permettere passi falsi. Ogni volta che la lucidità veniva meno, la foschia si infittiva e non riusciva più a vedervi attraverso.
Per qualche motivo – che proprio non riusciva a spigarsi – percepiva una connessione indefinibile e, se si sforzava, era in grado di mantenerla stabile – come Anthea gli aveva insegnato – e questo gli permetteva di diradare la foschia che lo circondava e di recuperare la percezione di spazio e tempo. Solo che la foschia sembrava diventare più forte ed intensa, minuto dopo minuto, passo dopo passo. Avanzò ancora, finché non la vide.
 
Una sagoma minuta, diversa dalle ombre scure.
 
Era una bambina, una bambina dai grandi occhi bui e i capelli color miele, coperta da un vestito candido e a piedi nudi. D’impulso, corse da lei e si fermò solo dopo averla raggiunta.
Era lei. Ed era così piccola.
Lo guardava senza mostrare alcuna emozione, le braccia ossute abbandonate lungo i fianchi e il capo leggermente inclinato. Le si accovacciò di fronte, poggiando il ginocchio destro a terra. Lei non si mosse, ma l’espressione si ammorbidì prima e finì per accartocciarsi poi. Sembrava sul punto di piangere.
 
“Loro mi faranno male. Mi fanno sempre male.”
 
La voce era un sussurro appena udibile. Gli indicò le ombre che si stavano ammassando intorno a loro, ma Steve le notò a malapena, troppo concentrato su di lei. Sapeva che non era reale, che quella non poteva essere Anthea. Tuttavia, le emozioni che la visione gli stava scatenando erano reali e travolgenti.
 
“Voglio che spariscano.”
 
La circondò con le braccia e la strinse a sé. Riuscì a sentire le sue piccole dita aggrapparsi alle spalle e la disperazione con cui lo fecero gli tolse il fiato. La strinse con più forza.
 
“Andrà tutto bene.”
 
Lo spirito tangibile della bambina gli prese il viso fra le piccole mani, mentre il soldato la teneva per i fianchi, le dita aggrappate al candido e sottile tessuto. Lei chinò il capo in avanti e le loro fronti entrarono in contatto, un contatto che si sciolse poco dopo attimi, quando lei si voltò indietro e gli indicò un punto indefinito nella nebbia, oltre il macabro corteo di ombre scure.
 
“Cosa vuoi che faccia?”
 
Lei non rispose. Continuò a tenere il braccio sollevato e l’indice protratto in avanti. Arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare.
 
La terra tremò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu come ricevere una scossa. L’elettricità si diramò lungo le fibre nervose e le risvegliò dal torpore. Le sinapsi tornarono in funzione, ripristinando i collegamenti interrotti. Gli stimoli, interni ed esterni, la investirono tutti assieme, fu un’ondata implacabile di sensazioni. Ma una sensazione si erse più forte fra le altre. Stava andando a fuoco. Dentro e fuori. Bruciava. Bruciava terribilmente.
 
Cenere alla cenere.
 
Uno spasimo più intenso degli altri la costrinse a sollevare le palpebre e tutto le apparve distorto, un miscuglio di colori e luci senza forma.
 
Non riusciva a respirare.
 
Si spinse seduta con uno sforzo esagerato e riemerse, sfaldando lo strato di acqua fredda con la testa e le spalle. Inspirò forte, tanto da sottoporre le costole ad una tensione che le fece tremare.
Dita delicate le strinsero le braccia e un viso dalla pelle diafana le si parò davanti. Luminosi occhi dorati si specchiarono nei suoi e labbra sottili si piegarono in un sorriso rassicurante. I lunghi capelli castani della donna erano raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra. Il contatto con lei le instillò nell’animo la calma necessaria a ripristinare il regolare battito cardiaco e sedò l’intenso bruciore.
 
“Respira piano. Sei al sicuro.”
 
Afferrò la mano che le era stata tesa e utilizzò quel saldo appiglio per ritornare sulle gambe malferme. L’acqua scivolò sulla pelle bollente, copiosi rivoli abbandonarono le punte dei capelli, si riversarono lungo la schiena e percorsero la curva tonda dei glutei. Il gocciolio divenne più debole mentre se ne stava in piedi, immobile. Distolse lo sguardo dal riflesso sfocato di se sessa stagliato nell’acqua e si guardò intorno. Non impiegò molto a capire dove si trovasse. La stanza delle vasche di rigenerazione. Era su Asgard, nella città di Oneiro.
Il battito cardiaco subì una nuova e brusca accelerazione, mentre ricordava cosa l’aveva portata lì.
 
“È importante che tu rimanga calma” la voce morbida dell’oneiriana che ancora le teneva la mano la aiutò di nuovo a recuperare la calma.
 
Sciolse il contatto e respirò. Respirò piano e profondamente, mentre riversava appena il capo all’indietro. Dall’alto soffitto pendevano intrecci simili a rametti nodosi, impreziositi da germogli che emanavano una soffusa luce azzurra, la quale schiariva gentilmente la penombra. La tensione che aveva irrigidito i muscoli si sciolse un po’ alla volta, finché a malapena fu in grado di rimanere in piedi. Fu abbastanza testarda da non cadere e mosse passi incerti verso il bordo della vasca intagliata nel pavimento. Sollevò il piede destro per uscirne fuori e i muscoli del quadricipite si contrassero per permettere al piede sinistro di uscire dall’acqua, che le percorse i polpacci e le esili caviglie.
Il lucido pavimento verde scuro si illuminò sotto la pressione dei piedi nudi e Anthea osservò gli aloni smeraldini pulsare ad ogni passo in avanti che ebbe la forza di fare. Poi si fermò, incurvò le spalle e lasciò cadere il capo in avanti, percependo la pesantezza dei capelli bagnati. Abbassò le palpebre e le braccia rimasero inermi lungo i fianchi. La sensazione di bruciare tornò a farsi più intesa e un sottile vapore abbandonò il corpo nudo.
Le venne da pensare ad un vaso, un vaso rotto i cui pezzi erano stati rimessi insieme e che adesso, intessuto di crepe, non era ancora pronto ad essere riempito di nuovo. Le crepe erano troppo fresche. E bruciavano.
Un candido telo le venne appoggiato sulle spalle. Sollevò le palpebre e solo allora registrò la presenza di altre due curatrici e due curatori. Le bastò una rapida occhiata per capire che non si aspettavano che lei tornasse a camminare sulle proprie gambe.
 
“Ho il presentimento che tu non ci tenga molto alla tua vita.”
 
Quella voce.
 
“Andras.”
 
“Anthea” ricambiò il sovrano, avvicinandosi di qualche passo. La tunica bianca gli donava e creava un netto contrasto con i capelli scuri.
 
I sensi rallentati non le permisero di registrare l’assalto al proprio spazio personale, non prima che un paio di braccia arrivassero a stringerla con premura. Non si oppose all’abbraccio e appoggiò il mento sulla spalla di Hera, mentre ricambiava lo sguardo sollevato di Loukas. Entrambi gli oneiriani avevano superato il sovrano senza troppi complimenti e quest’ultimo li aveva lasciati fare.
 
Hera si tirò indietro, mettendo fine al contatto. Le aggiustò il telo sulle spalle e le prese il volto fra le mani. “Credevamo che stavolta non ce l’avresti fatta” le sussurrò con voce tremante.
 
Fu solo a quel punto che Andras si intromise. “Hai quasi fuso il tuo sistema nervoso. Controllo degli elementi, rigenerazione spinta al limite, suggestione e manipolazione della realtà percepita. Ho dimenticato qualcosa?”
 
“Le interferenze. Le interferenze sono subdole. Ma avevo tutto sotto controllo” era una mezza verità, perché c’era stato un momento, durante lo scontro, in cui aveva davvero temuto di finire polverizzata, però non era accaduto. “Aspetta… tu come fai a saperlo?”
 
Andras incrociò le braccia al petto e scosse il capo. Era rassegnato e sembrava anche arrabbiato.
“Quando sei arrivata non riuscivi nemmeno a parlare, perciò me lo hai mostrato” il sovrano picchiettò la tempia con l’indice. “Hai dimenticato che ci sono limiti nell’utilizzo contemporaneo di capacità diverse? Hai rischiato danni cerebrali irreversibili” era decisamente arrabbiato “Devi ringraziare Eivor. Senza di lei saresti ancora in stato vegetativo.”
 
Anthea spostò l’attenzione sull’oneiriana dalle iridi luminose che le era rimasta silenziosamente accanto. La sottile veste color orchidea che le fasciava il corpo, mettendone in evidenza le curve dolci, era bagnata fino all’altezza dei seni.
“Mi ricordo di te. I tuoi poteri curativi sono straordinari” i più potenti che Anthea conosceva “Ti ringrazio per avermi aiutata.”
 
Eivor le dedicò un sorriso morbido e le posò una mano sulla schiena, un tocco delicato e di sostegno. Un tocco che, di nuovo, alleviò il bruciore che le stava divorando la pelle.
“È stato un onore, ma evita di farlo ancora perché i miei poteri potrebbero non bastare più” lo disse con tono pacato e fermo.
 
Anthea annuì e poi si rivolse di nuovo ad Andras. “Devo ringraziare anche te.”
 
“Ti avevo detto che saresti sempre stata la benvenuta se fossi passata da queste parti, anche se non mi aspettavo di vederti arrivare in un bagno di sangue e in compagnia di un’oneiriana con un potere tale da rischiare di farti a pezzi.”
 
La bambina innocente. Eta.
 
“Lei sta bene?”
 
Andras si irrigidì. “Damastis è con lei. Le fratture del suo animo sono profonde, ma noi l’aiuteremo a guarire, non importa quanto tempo ci vorrà” uno scintillio gli attraversò le iridi glaciali “Chi le ha inferto un tale male dovrà pagarla cara.”
 
Anthea sorrise, scossa da un moto di orgoglio. Andras era maturato ancora dall’ultima volta che si erano incontrati. Sapeva di aver fatto la scelta più giusta nel passargli il comando e lui continuava a dargliene conferma.
“Ti do la mia parola che sarò io stessa ad assicurarmi che paghi. Per tutto quanto” gli assicurò.
 
“Da quando utilizzi il potere della suggestione?” l’oneiriano era diventato più cupo.
 
“Da quando Antares mi ha fottuto il cervello e mi ha quasi distrutta” anche Anthea era diventata più fredda.
 
“Se non ne hai il pieno controllo, rischi di perderti nelle tue stesse suggestioni e non saprai più distinguerle dalla realtà.”
 
“Non succederà.”
 
Andras scosse di nuovo il capo ed evitò di continuare sulla via del non avresti dovuto fare questo e quello.
“Non ho mai capito se sei solo fastidiosamente sicura di te stessa o se questo tuo modo di fare è una grossa montatura per nascondere insicurezza.”
 
Anthea piegò le labbra in un mesto sorriso che non raggiunse gli occhi. “Preferisco non scoprire le mie carte. Da quante ore sono qui?”
 
“Cinque giorni.”
 
“Cinque giorni? Sono qui da cinque giorni?” era panico quello nella sua voce e non si sforzò nemmeno di nasconderlo “No. No. No. Dannazione, no.”
 
Cinque giorni. Cinque dannatissimi giorni.
 
“Devo tornare sulla Terra. Dove sono i miei vestiti?”
 
“Non erano recuperabili” le disse Eivor “Ma tu…”
 
“Dannazione” Tony ci sarebbe rimasto male. “Allora qualsiasi cosa andrà bene. Devo…”
 
“Anthea” la richiamò Andras e si fece più vicino. “C’è qualcosa che devi sapere.”
L’espressione che il sovrano le rivolse mentre poggiava le mani sulle sue spalle le fece accapponare la pelle.
 
“Parla, avanti. Qualsiasi cosa sia, la affronterò.”
 
Andras fece un cenno del capo a Eivor. La curatrice allora si allontanò da loro di qualche passo e l’oro che le illuminava le iridi si spense, lasciando il posto a un viola vellutato.
Anthea non comprese immediatamente cosa significasse, finché l’intensità del bruciore non subì una brusca impennata, togliendole il fiato e strappandole un grido agghiacciante. La giovane si accasciò sulle ginocchia e Hera si mosse per raggiungerla, ma il sovrano la fermò con un gesto imperativo della mano.
 
“Ti prego… fallo smettere…” supplicò Anthea, in ginocchio, le braccia avvolte attorno l’addome.
 
Le iridi di Eivor furono inondate dall’oro e il bruciante dolore tornò ad essere sopportabile. Anthea realizzò che fino a quel momento era stata la curatrice a tenere insieme i pezzi. Tornò in piedi con lentezza straziante e fronteggiò Andras, la cui espressione esprimeva evidente apprensione.
 
“Mi dispiace. Ma era l’unico modo perché tu capissi quali sono le tue reali condizioni. E c’è un’altra cosa.”
Andras fece di nuovo quella faccia allarmante e Anthea si preparò al peggio.
 
 
Forse, in fin dei conti, si era spinta oltre. E forse aveva perso il controllo.
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
Angolo Note
 
Buon inizio 2023 a tutti voi, anche se in ritardo ❤️
Un rapido avviso. Il prologo ha subito una modifica nella parte finale e questa è riportata nel capitolo (il breve pezzo tutto in corsivo). Il frammento iniziale, invece, è tratto da Careful what you wish for dei Bad Omens.
Ringrazio coloro che sono giunti fin qui ❤️
 
Un sentito abbraccio,
 
Ella
   
 
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