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Autore: Anonimadelirante    15/01/2023    2 recensioni
Sette bambini con poteri speciali vengono adottati e addestrati perché diventino supereroi – o erano otto? Non che sia importante. Quello che conta è: prima o poi, i bambini crescono. E nessuno ha davvero voglia di rimanere.
Alternatamente: loro madre muore, Leo torna dopo anni di nulla cosmico, Percy si crede Batman, Annabeth è l'unica ad essersi fatta una vita degna di questo nome, Nico a quanto pare ha persino più problemi di quanti ne ricordasse e Piper è sempre meravigliosa e inavvicinabile e sua sorella (legalmente, almeno). Neanche da Frank ci sono particolari novità – ma quello perché, be', perché è morto. Che schifo. (Di Hazel non vuole neanche iniziare a parlare. La sua vita era già abbastanza complicata prima che l'unica con cui non avesse alcun motivo di conflitto pubblicasse un libro su quanto sia orribile come fratello.)
In tutto questo, giustamente, deve scoppiare l'Apocalisse. Sarebbe strano il contrario, davvero. D'altra parte, com'è che si dice? Piove sempre sul bagnato?
[Umbrella Academy au partecipante alla challenge “Gruppo di scrittura” indetta da Severa Crouch sul forum Ferisce più la penna]
Genere: Avventura, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Calipso, I sette della Profezia, Nico/Will
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1. Un'allegra riunione di famiglia (per essere un funerale)

 

Stop, now let's begin 
You're in too deep to go back again […] 
And when they play it, you can't help but sing along 
That's nothin' odd, that's nothin' wrong
'Cause a good song never dies 
It just reminds you of where you were 
The first time it made you cry, the first time you felt alive 
(A good song never dies, Saint Motel)

 

 

 

 

 

L'ultima volta che ha visto Nico è stata... tre anni fa, più o meno. Non è cambiato molto.
È persino più pallido ed ha il viso ancora più segnato, occhiaie che non ricordava così scure lo solcano come cicatrici sotto gli occhi, è probabilmente più magro, anche se gli riesce difficile dirlo, per via della solita maglia extralarge – e, si accorge con un sussulto, i segni che ha sul collo assomigliano pericolosamente a lividi, come se qualcuno lo avesse stretto fino a-- non vuole davvero proseguire su questa linea di pensiero. Sul serio, no.
Lui lo guarda a mala pena, quando Jason apre la porta: si trascina dentro casa come se non fosse passato un solo giorno. Jason sbatte le palpebre: «Quand’è l'ultima volta che hai mangiato?» chiede. Non è cambiato niente. 
Niente.
(Se si concentra con tutte le sue forze magari riuscirà a convincersene.)
«Dov’è la vecchia?» replica Nico senza neanche sforzarsi di fingere di non aver sentito la domanda. Jason sospira – no, questo (Nico che evita sistematicamente ogni domanda sul cibo e sul suo stato di salute in generale) a quanto pare davvero non è cambiato. Avrebbe preferito venire disorientato da una bella novità, una volta tanto: «In camera sua. Ho pensato-- uh, ho pensato che forse sarebbe stato meglio aspettare che arrivaste tutti, prima di cremarla, perché--»
«Hai fatto bene» sentenzia seccamente una voce alle sue spalle. Jason non ha sul serio bisogno di vedere come muta e si rimodella l'espressione di Nico, per sapere chi è sulla soglia, ma è comunque un'altra cosa che a quanto pare non è cambiata affatto. (Una parte di lui se ne sente un po' rassicurata – e se ne vergogna moltissimo.)
«Percy» prova a sorridere, ma non è del tutto sicuro di esserci riuscito. Ad una prima occhiata, Percy, appoggiato allo stipite della porta, assomiglia da morire al ragazzo che se n’è andato di casa urlando, sette anni prima. Ma non lo è. Nico è sempre Nico – piccolo e stanco e un po' spettrale – ma Percy. Percy sembra cambiato
È cambiato.
Non per via delle spalle più larghe o dei centimetri che ha messo su. Per via dello sguardo. Percy non lo ha mai guardato in quel modo – lievemente beffardo (e sì, questa non è una novità, ma:), ma soprattutto indifferente. Come se non gli importasse. Come se non fossero passati sette anni. (Come se lui non si svegliasse ancora con nelle orecchie le loro urla e le sue accuse brucianti – ti importa solo della sua approvazione, ma, Jason, a lei non importa di te, non le importa di nessuno di noi, sei solo il suo soldatino più obbediente!)
Jason si ritrae un po' – Percy non dà segno di essersene accorto: «Ho… fatto bene?» borbotta e non vorrebbe suonare così incerto persino alle sue stesse orecchie, ma non ricorda l'ultima volta che Percy si è dichiarato d'accordo con lui senza essere messo alle strette (perché non c'è mai stata).
«Sì» Percy alza le spalle e sorride un non-sorriso alzando un solo angolo della bocca (è familiare e allo stesso tempo lontanissimo – lo lascia stordito come se avesse incassato un pugno nello stomaco. Jason lo detesta. O detesta come lo fa sentire, comunque – atterrito e impotente e senza fiato, con una malinconia, addosso, a cui non vuole pensare). «Guardiamo tutti quanti la stronza bruciare così da essere sicuri che sia davvero morta. È un buon piano.»
Oh. Ovviamente si tratta di questo. Non è per rispetto o nel caso qualcuno voglia lasciarle un ultimo saluto o qualunque altra cosa. Jason è a tanto così dal sbattergli la porta in faccia.
Caccia un respiro profondo, invece, e si scosta per farlo passare: «Certo» sbuffa. «Come ti pare.»
Percy lo guarda – il sorriso-smorfia che si fa leggermente più sincero, un poco più divertito, come se lo stesse sfidando a contraddirlo (e ovviamente lo sta facendo, è Percy), per poi spostare l'attenzione su Nico. Jason aveva quasi dimenticato come qualcosa negli occhi di suo fratello si facesse di colpo più morbido, quando si tratta del più piccolo di loro.
«Ehi» lo sente dire, mentre lo supera. «Nico. Come va?»
È chiaramente la domanda sbagliata, a dar retta all'espressione di Nico, ma Jason immagina di non aver superato il test neanche lui, con il suo Quand'è l'ultima volta che hai mangiato?, quindi, be', non può giudicare (ma, seriamente: quand'è l'ultima volta che ha mangiato?).
Percy sembra un po' a disagio di fronte a Nico. Come sempre. Un po' più del solito, a dire la verità. (Jason non sa neanche se si possa ancora parlare di solito: sono passati anni da quando vivevano tutti insieme.)
«Alla grande» risponde Nico e in qualche modo riesce a suonare sprezzante e ironico, annoiato e disinteressato tutto insieme. Percy si umetta le labbra: «Bene» mormora – e, oh, questa è assolutamente la risposta sbagliata.
Nico non scoppia a ridere ferocemente, però, non si infuria, non fa tremare il pavimento, non ci sono ossa che rompono le crene fra una piastrella e l'altra. E questo – più di ogni altra cosa, più degli sguardi, più delle notti passate insonni ad ascoltare il silenzio, più dei vestiti diversi, più dei centimetri di differenza – fa pensare a Jason quanto tempo sia passato davvero. Lo guarda stringersi nelle spalle, il suo fratellino più piccolo, e mormorare: «Sì, bene. A qualcuno va un cocktail?»
Non aspetta una risposta: si volta e sparisce nel corridoio che porta alla sala e al mobile bar con la naturalezza dell'abitudine.
Jason chiude la porta di casa con un sospiro, ma non dice nulla di quello che vorrebbe dire. Si incammina mestamente verso il salotto, alle calcagna di Percy.
Siccome non rispondere spesso equivale ad una risposta, però, devia per un istante in cucina e recupera un pacchetto di patatine.
(Non vuole neanche chiederselo, da quanto tempo non sia sobrio, Nico.)

 

 

 

°

 

 


Annabeth arriva qualche ora più tardi: a quel punto, Jason è piacevolmente brillo, un misto di stanchezza ed alcool che lo lascia accasciato su una poltrona, più rilassato di quanto non sia da anni.
(«Non credo che sia saggio bere in questo momento» aveva provato a fermare Nico e Percy verso le tre del pomeriggio, più o meno dieci minuti dopo che erano arrivati. Nico non aveva neanche alzato lo sguardo dalla bottiglia di vodka mantecata alla nocciola – grazie tante signor D per i gusti assurdi in fatto di alcool – che stava stappando. Percy aveva cacciato un verso sprezzante: «Certo che no, non sarebbe rispettoso. Povero Jason, cosa dirà la mamma quando scoprirà che fratelli orribili che hai? Oh, aspetta
Era stato quello il momento preciso in cui Jason aveva rinunciato all'idea di raggiungere sobrio il funerale di loro madre – gli aveva strappato di mano il bicchiere e si era cacciato in gola il più generoso sorso di vodka che si fosse mai concesso.
Se aveva tossito un po' più si quanto fosse dignitoso, poi, Percy era stato troppo impegnato a lamentarsi del furto per prenderlo in giro.)
«Annie!» esulta Percy, riuscendo a dimostrarsi persino più ubriaco di lui.
«Nico. Jason» Annabeth è sempre pericolosamente alta e bionda, il tipo di ragazza che fa scappare la maggior parte della gente con mezza occhiata. A Jason riesce sorprendentemente facile ricondurre la sua figura atletica e slanciata allo scricciolo apparentemente indifeso che ha ammazzato un ciclope da sola a sette anni, quando ancora non uscivano in missioni autorizzate né erano addestrati la metà di quanto lo sono adesso (o lo sono stati sette anni prima, per quel che vale – non crede che i suoi fratelli abbiano continuato in autonomia con le sfiancati sessioni di allenamento quotidiano).
«Annabeth» la saluta, sentendosi di colpo più calmo. Annabeth ha sempre avuto un rapporto orribile con mamma, forse persino peggiore di quello di Percy, ma è una persona ragionevole, al contrario di quest'ultimo. Forse il funerale ha qualche chance di non finire nel sangue, se c'è anche lei.
(Il dolore sordo al petto dev'essere assolutamente dovuto al troppo alcool – nulla a che fare con l'unica persona che ha avuto più problemi di Annie, con loro madre. Jason non pensa affatto a Leo. Mai. È l'unica regola che fatica a rispettare.)
«Percy» ringhia Annabeth con un sentimento che Jason condivide incondizionatamente (irritazione e rabbia e una vaga preoccupazione). «Sei sparito, razza di idiota. Dov'eri finito?»
Percy si gratta la nuca ed ha almeno la decenza di sembrare imbarazzato. Sì, anche Jason vorrebbe sapere dove sia stato per sette fottuti anni, possibilmente, grazie.
«Ehm. Hai presente i due tipi che stavi pedinando venerdì notte?»
Annabeth rotea gli occhi, come dire Ovviamente, decelebrato e oh, uh, okay, forse Percy e Annabeth si sono visti un pochino più recentemente di lui e Jason.
«Be’, è saltato fuori che trafficavano qualcosa di peggio che la droga.»
Jason indagherebbe sul rapporto che hanno fra loro e con questi criminali, ma Annabeth ha un'espressione feroce, in viso, quando sbotta: «Non dirmi che li hai uccisi» e Jason in realtà non vuole saperne niente.
«Non mettermi in bocca dichiarazioni che potrebbero essere usate contro di me in tribunale, detective» Percy le fa un occhiolino che da solo varrebbe un ergastolo, prima di versarsi un altro shot di vodka. «Ho solo dovuto essere un po' convincente del solito. Non si faranno più vedere.»
«È un eufemismo per dire che li vedrò io, invece?» si informa Nico con tutta la nonchalance che può avere un ubriaco probabilmente fatto di qualche sostanza totalmente illegale che parla di chiacchierate coi fantasmi. Impressionantemente molta, vale a dire. In questo specifico caso.
«Dèi» sbuffa Percy, ma sembra discretamente divertito. «Quanto siete drammatici. Li ho solo spaventati.»
Annabeth è sul punto di replicare, ma Jason ha intercettato qualcosa, attraverso la stanchezza e l'alcool: «Detective?» si informa. E sono anni che non si parlano, anni in cui è stato solo lui, con la mamma. Annie arrossisce vagamente, mentre Percy rotea platealmente gli occhi: «Sì, la Sapientona, qui, è uno sbirro a tutto gli effetti.»
«Oh, sta zitto, Testa d’Alghe--» comincia lei, assottigliando lo sguardo, ma viene interrotta dal campanello che suona. Per un attimo, Annabeth è immobile, con le mani protese verso la bottiglia ormai semi-vuota e Percy, anche, cristallizzato con le dita fra i capelli; poi, Nico scivola dalla seduta del divano fino sul tappeto, rannicchiandosi con la testa fra le ginocchia, e sbuffa. Il campanello suona di nuovo.
«Aspettavamo qualcun altro?» domanda Jason, piuttosto stupidamente perché non sono i suoi fratelli ad aver spedito i telegrammi, ma lui.
Percy lo fissa con un vago disgusto e sembra sul punto di rispondergli qualcosa di molto offensivo, ma in quell'istante Nico decide di tentare di alzarsi e deambulare in linea retta: «Vado io!» decreta, sbandando pericolosamente. Jason conta fino a tre. Poi lo segue per bloccarlo prima che vada a sbattere contro la libreria: «Neeks, faccio io» gli mette le mani sulle spalle e lo sospinge di nuovo verso il divano. Percy continua a guardarlo malissimo, ma ha comunque la prontezza di prendere al volo il loro fratellino, quando questi inciampa nel tappeto.
In realtà, Jason sa perfettamente chi c'è alla porta. È per questo che per un istante pensa di accettare, quando Percy scuote la testa: «Lascia stare, vado io ad aprire.»
Lo segue comunque, però, perché è lui a vivere in questa casa, non Percy. (Percy ha espresso benissimo la sua opinione in proposito.) E, soprattutto, non è lei.

 

 

 

°

 

 


Jason non guarda, mentre apre la porta. Sta rispondendo a Percy qualcosa di molto arguto e molto pungente che però si dimentica immediatamente, quando si volta: «Sei venuta»boccheggia. Questo è... questo è inaspettato, quanto meno.
Piper McLean, la Numero Tre, La Voce, è in bilico sull'ultimo scalino della villa. Non si aspettava… be’, chiaramente non si aspettava lei. Quando lo vede, si apre in un sorriso incerto, adorabile: «Sì» inclina il viso e lo scruta con più attenzione abbia mai fatto chiunque altro. «Dal telegramma sembrava importante.»
Jason annuisce: «Sì» dice. «Un po’» si corregge, perché Percy è appollaiato sul comò in ingresso e non vuole dargli appigli per litigi, non nell’immediato almeno. «La mamma è-- be', lo sai» esala, perché lo ha sicuramente letto sul giornale. O visto al telegiornale. O sentito alla radio. È la notizia dell’anno, con tutta probabilità.
Pip lo fissa e sembra sinceramente addolorata: «Mi dispiace, Jason» allunga una mano e per un istante sembra non sapere che fare, ma poi si risolve a stingergli le dita fra le sue. È bellissima e gentile e intelligente e potente: «Già» bofonchia lui.
È così stupido da parte sua, ma adesso che è qui, si sente improvvisamente come se il vuoto incolmabile che gli si è aperto nello stomaco l’altro ieri, sette anni fa, ha continuato ad aprirsi e scavarsi per tutta la sua vita, si sia improvvisamente cicatrizzato.


«Entra» sussurra, ma sembra più una domanda.
Pip gli sorride, dolce e pietosa esattamente come la ricordava, ma meglio. Più luminosa, più adulta, più matura: «Sì» mormora. «Dai, andiamo dentro» gli dice. 

 

 


Dentro, Percy le sorride a mala pena. Perché è un idiota. Annabeth l’abbraccia stretta e poi si muovono vicinissime per sedersi spalla a spalla sul divano. Nico alza la testa: «Un bicchiere?» le domanda.
Piper guarda lui, non Nico: «Perché no» sospira.

 

 

 

°

 

 


«Possiamo cominciare?» mormora Jason, dopo un po’ che Annabeth e Piper sono sparite in cucina a raccontarsi chissà che con la scusa di preparare dei sandwich.
«A fare?» borbotta Percy.
Ci sono due bottiglie a terra, adesso, e la seconda sta giungendo pericolosamente al termine. «Il funerale» sbuffa lui con la voce che somiglia a vetro fracassato sotto una suola.
«Non ci siamo tutti» mormora Percy, improvvisamente sulla difensiva.
«Sì, invece» replica lui.
«Non--»
«Zitti» sbotta Nico.
Sia lui che Percy lo ignorano. Come ai bei vecchi tempi.
«Manca ancora--» comincia suo fratello, ma Jason taglia corto: «Non è stata invitata.»
«Cosa vorresti dire con--»
«L’ho fatto io.»
Il pavimento non trema, non ci sono cadaveri che spingono da sotto il divano per uscire, eppure Jason si immobilizza. Si volta lentamente, per guardare Nico: «Scusami?» sibila.
«Non mi importa se la odi e non l’hai invitata. L’ho fatto io. È mia-- è nostra sorella» dice Nico, guardandolo fisso da dietro il bicchiere.
«No» gracchia Jason, la bocca impastata, il cuore che gli batte in gola. «No, non lo è.»
«Smettila» la voce di Nico è cupa, bassa, assomiglia al brontolio lontano d’un nuvolone gonfio di pioggia. È l’unica cosa su cui lui e Nico abbiano mai discusso – l’unica. Ed è il motivo per cui Nico se n’è andato, il motivo per cui Jason non gli è corso dietro, è un litigio che non vuole riprendere, è qualcosa su cui non può transigere: «Smettila tu» si alza in piedi. «Non è la benvenuta in questa casa.»
«Perché?» sbuffa Percy dal tappeto su cui è sdraiato. «Perché lo dici tu?»
«Sì!» esclama Jason a voce più alta di quella che vorrebbe. «Perché questa è casa mia e--»
«Oh, quindi adesso è casa tu--»
«Era anche sua madre» li interrompe Nico. Non ha mai interrotto una discussione fra lui e Percy – mai neppure una volta in tutta la loro vita. Adesso, però, è in piedi. Continua ad essere più basso di lui di parecchi centimetri, ma per qualche motivo Jason ne è quasi intimidito. «Non mi importa quello che pensi di lei. È nostra sorella» ripete, lento, quasi cadenzato. «Era anche sua madre. Verrà» per un attimo lo fissa così severamente che Jason fatica a trovare le parole per ribattere (No, no, non può, non ce la voglio, non la voglio vedere, ha scelto di non essere più mia sorella molto tempo fa, l’ha deciso ed è stata la prima, la prima fra tutti, e neanche voi siete più miei fratelli, ve ne siete andati tutti, perché l’avete fatto?, perché mi avete lasciato solo?, non era sua madre: non l’ha mai amata – ma, d’altra parte, chi può dire se mamma li amasse? Se lo amasse? Non è questo ciò che faceva di lei loro madre). Poi, sospira, si sgonfia come un palloncino bucato, torna ad essere il Nico di sempre – lontano, cupo, un po’ distratto. «Oppure no. Non è questo il punto. Vado a farmi un panino con Annabeth e Piper.»

 

 

 

°

 


Alla fine, arriva.
Jason davvero  non vorrebbe, ma va lui ad aprire alla porta.
«Ciao» dice. Lui non risponde. La guarda soltanto. È piccola, magra e fragile esattamente come la ricordava. Di più, persino. Non sembra godere di ottima salute ed ha i capelli in uno stato pietoso, così ricci e gonfi e crespi da sembrare un alveare. Se fosse Nico le chiederebbe da quanto tempo non dorme. Se non fosse lei, l’abbraccerebbe: sembra aver bisogno di un abbraccio. Lui ha bisogno di un abbraccio. Ha bisogno--
Ha bisogno di un caffè.
«Sei in ritardo» dice, perché non è Nico. È Hazel.
La odia e si odia e odia l’intera faccenda di aver detto ai suoi fratelli che potevano venire al funerale. Forse, dopotutto, però, non sembra sentissero il bisogno di un permesso. «Stavamo per cominciare senza di te.»
«Non dargli retta» lo riprende morbidamente Piper, da dietro la sua spalla. «Non avremmo mai cominciato senza di te. Vieni, dai, fatti abbracciare.»
Per un attimo, Jason le invidia la naturalezza con cui dimostra affetto e comprensione a chiunque. L’attimo dopo, si sta spingendo a forza via dallo stipite per prendere la borsa troppo pesante che Hazel ha lasciato cadere sui gradini quando le è venuto ad aprire.
Comunque sia, non importa. Finirà presto e presto saranno di nuovo tutti andati. Sarà di nuovo solo.
Potrà riprendere respirare.

 

 

 

°

 

 

 

Nel cortile, il cielo è plumbeo e gravido di tempesta esattamente come dovrebbe. Jason stringe l’urna al petto, ferro nero liscio freddo contro la camicia scura. Percy e Annabeth sono l’uno a fianco dell’altra, silenziosi e vigili come due soldati. Hazel allunga la mano verso Nico, gli intreccia le dita con le sue. Lui non fa resistenza – gliela stringe, invece, e lascia che le loro braccia ricadano lungo il fianco, fra loro, come se fosse così semplice, così normale. Jason chiude gli occhi. Piper è lì, appena dietro la sua spalla. Ha perso il conto di quante volte c’è stata, di quante volte il solo saperla a pochi centimetri da lui gli ha dato la forza di cacciare un altro respiro. Mamma non sarebbe contenta. Mamma non sarebbe contenta per niente se li vedesse adesso – così trasandati e stanchi e un po’ ubriachi e molto poco coinvolti nella cerimonia. Ma che importa? (Forse Percy ha ragione.)
Non è questo il punto. Mamma è morta. Non era felice di loro quand’era viva, figurarsi adesso. Riapre gli occhi. Sono ancora tutti lì, i suoi fratelli. O quel che ne rimane. Per un attimo, quasi aveva temuto sarebbero scomparsi. O sperato. Non ne è del tutto certo. Per quel che vale.
«Qualcuno vuole dire qualcosa?» domanda. È stupido, col senno di poi. Davvero, davvero stupido.
«No» taglia corto Annabeth, con quel suo sguardo duro.
«Che era una stronza..?» butta lì Percy senza neanche sforzarsi di fare l’idiota – è un idiota, gli viene naturale.
«Che non ci mancherà» decreta Hazel, sottile, ma ferrea. Jason sussulta: lei non dovrebbe neanche esserci, non dovrebbe parlare-- incontra lo sguardo Nico, ossidiana graffiata. Lui non dice niente, lo fissa e basta. Jason stringe più forte l’urna a sé: «È vero» mormora. «Non è stata una madre molto affettuosa o--»
«--o una madre e basta» lo interrompe di nuovo Percy. «Butta le ceneri e falla finita» sbuffa.
Nico disinnesca la discussione col talento dell’indifferenza: lascia andare la mano di Hai per estrarre un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni, sfilarne una accendersela: «Abbiamo finito qui?» gli chiede, sempre guardandolo dritto negli occhi, un invito a piantarla con queste scene. «Ho freddo.»
Jason non replica. Rovescia le ceneri a terra invece. Nel fango. Vuole bene a Nico. Se lo deve ricordare. Annabeth e Hazel e Percy e persino Piper possono fottersi, pensa ferocemente, ma vuole bene a Nico come se fossero davvero fratelli. Non può dimenticarselo, non può litigare anche con lui. Non oggi. Non--
Sospira. Se ci fossero Frank e Leo loro saprebbero--
Loro capirebbero--
O forse no.
È passato molto tempo dall’ultima volta che li ha visti. Forse, se fossero cresciuti con lui, ad incerto punto se ne sarebbero andati. Come tutti gli altri. Non credeva che la loro mancanza potesse bruciargli nel petto più di quanto non abbia fatto negli ultimi dieci anni, ma si sbagliava. Si sbagliava. Adesso è peggio. Adesso non ha più Frank, non ha più Leo, non ha più neanche la mamma. Non ha più nessuno. È solo. È molto peggio del solito.
«Sì» gracchia. «Abbiamo finito.»
Piper gli mette una mano sulla spalla, confortante, lo fissa teneramente. Jason vorrebbe solo scappare.

 

 

 

°

 


Non sono ancora a metà strada per rientrare che comincia a piovere. È un po' giusto, immagina.
Nico impreca a mezza voce, accelera il passo. Non si ferma sotto l’albero di sicomoro cadendo dal quale Frank si è spezzato un braccio, quando avevano tredici anni. Hazel tentenna, invece. Rimane indietro fino a quando Percy ed Annabethe e Piper non la superano.
«Non vieni?» domanda Jason, suo malgrado. Non che voglia che venga. È solo che--
Hazel stringe le labbra in una linea sottile, lo guarda di sguincio. Vista così, i capelli flosci di pioggia e la pelle d’oca che le corre sugli avambracci, sembra avere ancora quindici anni e gli occhi ricolmi di lacrime. È un’illusione data dalla luce, però, dall’alcool dalla brutta settimana che Jason ha passato. Hai non ha quindici anni. Ne ha quasi ventotto. Ed è una vera stronza: «Jason--» comincia, ma qualunque sciocchezza stia per dire, il cielo esplode, sulle loro teste.
Non c’è un altro modo per dirlo. Non è un fulmini particolarmente ramificato. È più una granata lanciata in alto.
Come se le nuvole stessero bruciando.
Automaticamente, Jason la tira un po’ indietro, la costringe ad accucciarsi con lui.
(È una civile, in fondo. E lui è solo un buon soldato, forse – forse Percy ha ragione.)
Dalle fiamme, precipita un ragazzo.
Di nuovo, vorrebbe che ci fosse un modo meno assurdo per descrivere la situazione.
Leo.
Ha i vestiti bruciacchiati e i capelli che fumano, l’acqua della pioggia che evapora al contatto della sua pelle e l’aspetto preciso che aveva quindici anni fa. Ma. È Leo. Non c’è dubbio.
Per un istante, crede di essere lui ad aver urlato, ma è Hazel a strapparsi dalla sua presa e sdrucciolare nel fango fino a raggiungere loro fratello.
Leo.
Quel Leo. 
Il loro fratello perduto.
Scomparso.
Jason non sente quello che si stanno dicendo lui ed Haz. Forse, se si sforzasse di ascoltare oltre il rombo impazzito del proprio cuore, del sangue che gli pompa nelle vene, furioso, dello scrociare della pioggia, del rumore bianco del proprio shock. Ma non li sente. Può individuare il momento esatto in cui Haz decide che si, è Leo. Il loro Leo. Che è lì, che è lui, che sta bene. Gli Dèi soli sanno come. Questo perché Hazel si raddrizza e si stracca dall’abbraccio incredulo in cui l’ha stretto, e si allontana di mezzo passo, barcollante. Jason la capisce davvero. E poi, gli tira un pugno ben piazzato alla mascella.
«Mio-- Hazel!» gracchia, raggiungendoli.
Leo si sta massaggiando la parte lesa, un scintillio di divertito rimorso negli occhi: «Forse un po’ me lo merito» ammette.
«Forse!» strilla Hazel. «Tu-- razza di stronzo» ansima, tirandolo di nuovo dentro ad un abbraccio.
«Ehi» gli sorride Leo, da sopra la spalla di loro sorella.
«Ehi» gracida lui in risposta. Vorrebbe abbracciarlo anche lui, davvero. Ma non crede di poter fare altro che rimanere a fissarlo e cercare di non andare in pezzi. Per tutto questo tempo-- per tutto questo tempo Leo era...

vivo.


Ed ha preferito non tornare.

Ha scelto di non tornare.

Esattamente come tutti gli altri.

(Ma diecimila volte peggio.)

 

 

°

 

 

«Merda» sbotta Leo. Non ricorda di averlo mai sentito imprecare. Lo guarda impotente staccarsi da Haz per spazzarsi via la polvere dai vestiti ormai bagnati, passarsi una mano fra i capelli, succhiarsi il labbro spaccato dal pugno di loro sorella, scrollare le spalle: «Ho bisogno di un caffè» dichiara. E si avvia a grandi passi dentro casa.
Come se non fosse passato un singolo giorno.
E questo è tutto, più o meno.

 

Il più assurdo funerale della storia.







N/A: good evening, Vietnam Olympus! Questa long partecipa all'iniziativa di @Severa Crouch Gruppo di scrittura” indetta sul forum Ferisce più la penna e, come da bando, verrà aggiornata ogni 15 del mese.
Insomma, ci terremo compagnia tutto l'anno <3
Il prossimo mese: più info su cos'ha combinato Leo, sulla vita che conducono Percy ed Annabeth e sul rapporto fra Hazel e i suoi fratelli.

 

  
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