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Autore: Puffardella    07/02/2023    0 recensioni
Roma, una delle città più belle del mondo. Roma Caput Mundi, città artistica e storica, che si affaccia sul mare e dove splende quasi sempre il sole. Ma Roma non è solo questo. Roma è anche la città delle borgate, nelle quali povertà e delinquenza hanno sempre camminato a braccetto. È in questo contesto che si muove il protagonista di questa storia: Fabio. Costretto fin da adolescente a prendersi cura di se stesso e di sua madre, Fabio non vede altre soluzioni che quella di delinquere. Diventerà ospite abitudinario delle carceri romane, ma è proprio qui che la sua vita avrà un’incredibile svolta grazie all’incontro con una persona eccezionale, che si dedicherà a lui come il padre che non ha mai avuto...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Esiste una disperazione così ingiusta ed assoluta capace di spingerti a compiere azioni inconsulte. Questo tipo di disperazione ha il colore sbiadito e confuso di sogni cupi nelle notti agitate. Ha l’odore acido di immondizia nei vicoli malfamati di periferie dimenticate da Dio. Ha il timbro acuto e rauco di grida e pianti nelle case abbandonate dalla giustizia. Ha il volto dimesso di mia madre, scavato dalla sofferenza e dall’impotenza dinanzi ad un mucchio di bollette non pagate e non pagabili. Ha il gusto di serate alcoliche fra amici, mentre ti distruggi il fegato per dimenticare chi sei, almeno per un po’. Ha gli occhi spenti del tossico di turno che ti chiede l’elemosina per una dose. Ha l’aspetto sciatto di un vecchietto lasciato a marcire nella sua solitudine, in una casa che non ha mai avuto modo di ascoltare le urla giocose dei suoi nipotini.
Questa disperazione ha un nome, e il suo nome è povertà.

Sono nato e cresciuto in questo deprimente quartiere romano, la Nuova Ostia. Una borgata infelice, covo di tossici e delinquenti vari, teatro di risse, sparatorie e omicidi e per questo spesso citata nei servizi di cronaca nera di telegiornali e quotidiani.
Mio padre avrei preferito non averlo mai conosciuto. Era un ubriacone violento, capace solo di piangersi addosso. Aveva un hobby, sfogare la propria frustrazione su di me e mia madre. Con le mani, con la cinghia, con le scarpe, qualche volta con le sedie.
Non ricordo la prima volta che usò violenza su di me, ma di sicuro ricordo quale fu l’ultima volta che lo fece con mia madre.
Avevo sedici anni, e tornavo dall’officina di mio zio dove per un ipotetico stipendio cercavo di imparare il mestiere del meccanico. Sentii le urla prima di entrare nell’androne delle scale di una delle palazzine fatiscenti di via Baffigo. Le sentii entrando nel cortile condominiale e iniziai a correre per precipitarmi in casa.
Siete abituati a scene di violenza? Avete mai visto picchiare qualcuno con la cinghia dei pantaloni? Avete mai sentito lo schiocco della fibbia che impatta sulla carne? Avete mai udito le grida di una persona a voi cara mentre viene ripetutamente colpita con brutalità, mentre implora il suo carnefice di avere pietà, di risparmiarle quella tortura?
Io subivo quelle scene da una vita.
Trovai mia madre raggomitolata in un angolo della sala da pranzo, le braccia sulla testa nel tentativo di difendersi dalla furia di mio padre che continuava a sferzarla con la cintura, un colpo dietro l’altro, inarrestabile, feroce, con la bava alla bocca e gli occhi invasati, come un animale impazzito. Glielo tolsi di dosso urlando e iniziai a colpirlo con rabbia.
Non ricordo chi fu a fermarmi, so solo che gli salvò la vita perché probabilmente lo avrei ammazzato di botte, tanto non ne potevo più della sua cattiveria, dei soprusi, delle umiliazioni cui ci obbligava da sempre.
Se ne andò quel giorno, e non tornò più.
Il giorno dopo mio zio, fratello di mia madre, mi licenziò. Disse che lo faceva per il mio bene. Avevo deciso di essere il capofamiglia e dovevo iniziare a cercarmi un lavoro che mi consentisse di provvedere ai bisogni miei e di mia madre. Lui non poteva permettersi di retribuirmi più di quanto faceva.
Iniziai a fare ogni tipo di lavoro. Nei ristoranti come cameriere, nei cantieri come muratore,  nelle spiagge come bagnino, negli appartamenti come imbianchino, e così via. Un amico una volta mi propose di iniziare l’attività di spacciatore, ma non volevo avere niente a che fare con quella roba, e rifiutai. Poi un pomeriggio, tornato a casa da uno dei miei tanti lavori provvisori, la trovai vuota. Lampade, divano, televisione, quadri, la cassapanca intarsiata, il mio computer, il mio stereo, tutto…
Mia madre aveva chiesto un finanziamento per farmi prendere la patente e per l’acquisto della mia prima macchina. Io non lo sapevo. A me aveva detto che quei soldi li aveva risparmiati un po’ alla volta e li teneva da parte per le necessità. In ogni modo, con il suo magro stipendio di cuoca nelle mense e i miei introiti striminziti e poco regolari, era riuscita a pagare solo le prime rate. Gli strozzini avevano lasciato solo il tavolo, le sedie, i letti e gli armadi. Il valore degli oggetti pignorati era stato stimato intorno ai millecinquecento euro. Dovevamo ancora restituirne più del doppio. Mia madre era china sul tavolo della cucina, la testa fra le braccia che piangeva e singhiozzava convulsamente. Io ero troppo scioccato per dire o fare niente. Mi fermai sulla soglia della cucina, la bocca spalancata per lo stupore. Lei mi guardò addolorata e mi chiese scusa. E in quel momento avrei voluto non essere lì. Avrei voluto essere in un altro posto, in un’altra cucina, in un’altra casa, in un’altra vita.


                                                               ***             


Mia madre mi faceva tenerezza, e al tempo stesso rabbia. All’epoca avevo solo diciannove anni e non ero in grado di badare a lei. Non ero nemmeno in grado di badare a me stesso, figuriamoci. Non avevo un’istruzione elevata, non riuscivo a mantenere un lavoro per più di tre mesi, né ad impegnarmi in una relazione sentimentale stabile. Vivevo alla giornata, come la stragrande maggioranza della gente che conoscevo.
Mio padre lo avevo cacciato fuori di casa a suon di calci tre anni prima, e quindi ripiegavo la mia frustrazione sull’unico genitore che avevo a disposizione: mia madre. Così, inevitabilmente, lei diveniva la causa di tutti i miei insuccessi.
Senza rendermene conto stavo diventando come mio padre.
Un giorno, durante uno dei nostri litigi, mia madre mi rovesciò addosso questa verità, urlandomela. Ricordo che questo mi fece schizzare il sangue al cervello. La costrinsi al muro, la guardai con odio, alzai il pugno, e solo allora capii che aveva ragione. Fu il terrore nel suo sguardo, lo stesso che aveva quando veniva picchiata da mio padre, a fermarmi.
Colpii con rabbia il muro sopra la sua spalla per scaricare l’adrenalina e mi allontanai da lì correndo.

L’uomo è un essere fragile. Può lottare una vita nel tentativo di persuadere se stesso di essere diverso da ciò che è naturalmente, e metterci un attimo ad annientare quella convinzione e andare incontro senza più protestare al proprio destino. Furono le parole urlate da mia madre, quelle mi misero di fronte alla realtà. Io avevo lo stesso sangue di mio padre nelle vene. Tutto in me era simile a lui: fisicamente e caratterialmente. Alto, robusto, lo sguardo di chi è sempre arrabbiato, i modi bruschi di fare, gli scatti d’ira, la tendenza all’alcol e la scarsa predisposizione al lavoro. Per quello mi convinsi che, per quanto io cercassi di sembrare diverso, non potevo sfuggire alla mia sorte.
Mio padre, di mestiere, faceva il ladro di appartamenti. Conosceva le carceri romane più della sua stessa casa, e ne andava quasi fiero. Ripeteva con ostentato orgoglio il motto dei carcerati di Regina Coeli: “A via de la Lungara ce sta ‘n gradino. Si nun salisci quello nun sei romano. Nun sei romano, e nemmanco trasteverino.” E lui si sentiva più romano di tutti.
Era un ladruncolo di appartamenti, e come ogni ladro che si rispetti, di quelli vecchio stampo, aveva una moralità tutta sua: mai derubare un poveraccio. Sceglieva con cura le case da svuotare, che appartenevano tutte a ricconi.
Determinai che valeva la pena tentare quella strada. In quel modo avrei ristabilito la pace in casa, pagando i debiti che mia madre aveva contratto a causa mia. Inoltre avrei provato sulla pelle se quella era davvero la vita che faceva per me, il mio destino.
Andai a trovare il mio amico, quello che mi aveva proposto di mettermi in affari con la droga, e gli chiesi se aveva del lavoro per me, purché non si fosse trattato di spaccio da cui m sono sempre tenuto lontano. I tossici venivano regolarmente a bussare alla nostra porta e a quella di tutti i condomini. Venivano a chiedere i limoni che usavano per sciogliere l’eroina che si iniettavano in vena, e poi andavano a bucarsi nell’angolo più buio del sottoscala, dove si piegavano in due a vomitare e dove, oltre ai loro rifiuti organici, lasciavano anche le loro siringhe sporche di sangue, prima di andarsene a collassare in qualche panchina di uno dei tanti parchi del quartiere, disseminati un po’ ovunque con la speranza di rendere vivibile una realtà troppo brutta per essere migliorata con così poco. Tutti conoscevamo quei ragazzi e le loro famiglie e il dramma che vivevano ogni giorno, ed io non volevo averci niente a che fare. Non mi sarei mai reso responsabile delle lacrime di una madre.
Mi sentivo già abbastanza in colpa per quelle che facevo versare alla mia, di madre.
Il mio amico mi disse che di appartamenti non ne “facevano”, ma che aveva sentito dire che stavano organizzando una rapina in qualche posta. Così mi presentò ad un gruppetto di ragazzi, alcuni dei quali conoscevo di vista. Fu stabilito che per cominciare avrei potuto fare il palo e guidare la macchina al momento della fuga, dal momento che ero famoso per la mia passione per i motori e per la mia guida spericolata ma precisa. Il giorno della rapina ai danni della piccola posta nel quartiere della Magliana la tensione era così alta che vomitai anche le budella prima di uscire di casa, tanto che mia madre si affacciò preoccupata in bagno e mi disse che dovevo smetterla di bere tanto.
Fui sollevato che lei avesse associato il mio malessere ad un dopo-sbornia.
Eravamo in tre, quel giorno. Mi dissero di aspettare in macchina e di tenere gli occhi ben aperti e, nel caso in cui avessi notato movimenti strani, di strimpellare il clacson come un forsennato. Andò tutto liscio. In pochi minuti, entrarono ed uscirono con un sacchetto pieno di banconote. Abbandonammo la macchina rubata in una delle campagne dell’agro pontino romano, recuperammo le nostre vetture, e chi in macchina chi in moto, ci lasciammo con la prospettiva di incontrarci la sera da Fulvio, la sala biliardo a Piazza Gasparri. E così facemmo. Mi fu data una quota inferiore rispetto alla loro, dal momento che avevo corso meno rischi, ma non mi lamentai. Intascai i miei cinquecento euro, e mi ritenni soddisfatto. Quello fu l’inizio della mia carriera da delinquente.

La prima volta che fui arrestato mi beccarono in flagrante a rubare una vettura, che avremmo dovuto usare per una rapina ai danni di un supermercato. Avevo vent’anni, ed ero al mio primo arresto. Ma ero incensurato, e questo giocò a mio favore. Tornai a casa dopo pochi giorni. Mia madre, da quel momento, non mi rivolse più la parola, né accettò più da me alcun aiuto finanziario.
Piangeva ogni notte. Sentivo i suoi lamenti soffocati, attraversavano i muri e arrivavano alle mie orecchie, mi aggredivano come una sentenza,  mi procuravano dolore, oltre che rabbia. Perché accidenti piangeva? Che vita credeva avrei potuto fare in un quartiere come quello? Quali prospettive aveva uno come me, figlio di un pregiudicato, senza un diploma né alcuna competenza specifica? Aveva sposato un poco di buono, aveva subito in silenzio per anni le angherie di quell’uomo e, soprattutto, aveva permesso che le perpetrasse anche su di me. Non aveva mai fatto nemmeno un tentativo per cambiare la sua, e la mia, vita. Era un po’ tardi per le lacrime, ed io mi rifiutavo di sentirmi l’unico responsabile del modo in cui stavo indirizzando la mia esistenza.
Se c’erano delle responsabilità da assumersi, lei ne aveva di sicuro più di me.

Al mio secondo arresto le cose non mi andarono così bene. Non mi fermai ad un posto di blocco e tentai una fuga grottesca, terminata dopo poche centinaia di metri. La macchina era rubata, e all’interno vi trovarono diversi etti di cocaina, di cui però non sapevo nulla. Appartenevano al proprietario dell’auto, il quale, ovviamente, negò di esserne il possessore. Mi diedero due anni e sei mesi, ma ne scontai solo la metà grazie alla condizionale nel carcere di Rebibbia.  
Il carcere ti segna per sempre, anche se lo hai vissuto per poco. Ti segna in senso negativo, di sicuro non ti recupera. Mia madre non venne mai a trovarmi, si vergognava di me. O forse provava troppo dolore nel vedermi ridotto in quello stato. Stipato in una cella di tre metri per quattro, adatta a due detenuti ma che di fatto ne ospitava il doppio; in un angolo la turca, dalla quale provenivano esalazioni disgustose, e sul lato opposto un lavandino che si reggeva in piedi per miracolo. Veniva concessa un’ora d’aria al giorno in uno spiazzale cementato, senza piante né colori. Perfino quel rettangolo di cielo, in quel contesto, perdeva il suo caratteristico azzurro ed assumeva un colore indefinito, come avvolto da una coltre di nebbia sottile che lo lasciava appena intravedere ma di certo non apprezzare.
Persi due cose in quella fogna: i chili di troppo e la parlantina svelta. Uscii da lì con un fisico da atleta, anche se i miei muscoli si erano atrofizzati a furia di poltrire in una branda, e poca voglia di socializzare. Ciò che non persi fu la capacità di mettermi nei guai.
Solo che, stavolta, andai in cerca di quelli seri
   
 
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