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Autore: Quella Della Pasta    17/03/2023    0 recensioni
Una pizzaiola qualunque si ritrova nel bel mezzo dell'apocalisse fungifera. Cosa mai potrà andar storto?
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Partecipa al COW-T #13 (quarta settimana) col prompt: Missione 2 (la mia pathong).
Genere: Avventura, Demenziale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Dedicata, anche su questi lidi, a Miryel.)




 

“Pane, cuore e amore” non era forse il nome più brillante per una pizzeria, ma l’avevano scelto insieme. Mirella ricorda ancora quel giorno: lei aveva in mano il più grande barattolo di vernice color cavolo maturo che fosse riuscita a reperire nel fondo del ferramenta, ma a sua figlia piaceva comunque. L’importante era il messaggio. Suo marito aveva provveduto alla scala per issarsi a dipingere il cartello. Quell’arnese di ferro roso dalle termiti – per quanto fosse molto poco probabile, secondo le leggi della natura, prima che queste si prendessero d’improvviso una lunga vacanza – non sarebbe riuscito a reggere neanche il loro barboncino, se fosse salito fino in cima. Ma Pietro era un uomo capace di sperare nell’impossibile fin dal primo mattino, come negli yogurt divenuti acidi che sarebbero tornati magicamente dolci un paio di giorni dopo. Il potere della fermentazione degli zuccheri. E sì, Mirella l’aveva sposato anche per quello.

Avevano deciso d'amore e d’accordo che cosa disegnare sul cartello. Una pagnotta che pareva aver visto giorni migliori prima di muffire, un cuore umano dalle cui arterie spuntavano tralci di quello che voleva sembrare origano, e un bel cuore vecchio stile a racchiudere il tutto. Mirella era convinta che avrebbe spiegato alla perfezione l’obiettivo: permettere a chiunque di godere del conforto della pizza. Ecco perché aveva investito tutto in quell’ordine di farine speciali, senza glutine. Non soltanto per far sentire sua figlia meno sbagliata in un mondo dove gli amichetti di ogni età la guardavano storto perché non divorava anche lei doppi hamburger e pizze con wurstel e patatine.

Quel suo esperimento aveva portato frutto, e non soltanto nel guadagnarsi la reputazione di mamma migliore del mondo e di tutti gli universi paralleli (anche se Mirella non era poi così d’accordo che sua figlia leggesse i vecchi fumetti di suo marito, ma finché non spuntavano cosi indemoniati a mangiare le budella di giovani discinte, le andava bene. E sì, aveva notato l’ironia della cosa): la sua pizzeria “Pane, cuore e amore” aveva raddoppiato i clienti nei primi tre mesi d’apertura col nuovo menu, fino a convertirsi in prima pizzeria totalmente gluten free della città. E della provincia, a quanto pare, ché per l’affollamento del sabato sera Mirella aveva dovuto acquistare anche il locale affianco per ampliare l’area dei tavoli, occupati da almeno una decina di dialetti diversi. L’amore pagava forse non le tasse, ma in clientela affezionata, decisamente sì.

E dire che tutto era iniziato con i litigi con suo padre perché voleva lavorare nella panetteria del paese, invece che studiare. Che amore c’era, nell’imparare a memoria tabelle di calcoli e poesie di cui non fregava più niente a nessuno da almeno vent’anni? Meglio riversare il suo cuore nelle pagnotte che infornava, almeno loro portavano due spiccioli in più a casa.

Ma cosa diavolo ne poteva sapere, lei, una stupidissima pizzaiola con un cuore troppo grande e decisamente troppo poco pane in forno nel giorno dell’apocalisse, che quest’ultima sarebbe arrivata giusto dalla farina in cui aveva appena bruciato i risparmi di una vita…non che le sarebbero serviti a molto, di lì a poco.

 

“Il giardino di imperatrice giapponese” era il nome di un ristorante sushi fin troppo elegante, che sottraeva regolarmente alla sua pizzeria un botto di clienti – e non pareva importare a nessuno del palesissimo errore grammaticale nel nome dell’esercizio – ed era gestito da una matrona perfettina e dai lineamenti impossibilmente giovanili, dato che Mirella era certa che quella vecchia maliarda avesse la stessa età di sua madre. Nondimeno, aveva deciso di chiudere per rinnovamenti – forse per correggere quell’erroraccio nel cartello fuori dal locale, aveva pensato Mirella, molto malignamente per il suo cuore pieno di pane, amore e tante cose belle come l’assenza di glutine dalle pizze preferite di sua figlia – guarda caso, ma chissà per quale coincidenza, proprio ad una settimana dallo scoppio dell’apocalisse.

Gente che correva in giro come pazzi. A Mirella era parso normale. Probabilmente era una marcia per qualcosa di o molto importante o molto stupido. Non era nemmeno la prima volta che il loro viale ospitava una maratona. O il pride di aprile, ecco, quello era un evento che Mirella ricordava fosse molto divertente. E molto redditizio, anche, con tutti i biscotti a forma di cuore e le pagnotte arcobaleno che vendevano in quell’occasione. Le mancheranno, quei tempi. Tutta quella vitalità.

Perché le persone che correvano come pazze, d’improvviso, avevano preso a saltare al collo delle persone sui marciapiedi – si erano soltanto fermate a capire cosa diavolo stesse succedendo, insomma, avevano pure ragione, che ne sai se si fosse trattato di un’evasione da manuale dal carcere o dall’ospedale psichiatrico? – e avevano iniziato a mangiarle.

Okay, aveva pensato Mirella, dopo essersi chiusa a chiave nel bagno della pizzeria. Un rapido ricalcolo mentale: Pietro era al lavoro, in quella sua stupidissima centrale elettrica lontana chilometri, e sua figlia era ancora in casa, a cinque piani di distanza da quelle strade piene di folli sciamanti. Posso farcela. Mi serve solo un’arma. La pala per pizze avrebbe aiutato. E The Walking Dead è finito solo una settimana fa. So tutto sull’argomento. Bastava solo trovare un rifugio dove a nessun altro sarebbe venuto in mente di andarsi a cacciare. Almeno per ventiquattr’ore, in modo da riorganizzarsi per andarsene da lì. Che se la vedessero i militari, il governo o comunque diavolo funzionasse un’apocalisse zombie nella vita vera.

Uscendo dal bagno – avrebbe mai pensato a risistemare i tavoli rovesciati, le carte all’aria e i vetri rotti che ora imperavano nella sua pizzeria vuota? No, ma le si spezzava il cuore ugualmente – lo sguardo le era caduto sul locale al di là del viale, giusto di fronte al suo.

Un’elegante facciata decorata con alberi di ciliegio in rilievo, i petali che parevano voler volarti in faccia al minimo refolo di vento. E il marciapiede non era semplicemente pulito, no: da quella facciata spuntavano come funghi piccole aiuole rotonde, delimitate da piccolissimi steccati di bambù, e dove facevano bella mostra di sé cespugli di camelie, ordinate come i bonsai che avrebbero rallegrato l’interno. A rovinare tutto l’impianto delicato e metaforico dell’ingresso, un’abnorme statua di imperatrice giapponese che accoglieva la clientela sulla porta. E Mirella era sicurissima che quella statua così pacchiana era stata fatta a mano, e su precisa indicazione di replicare il volto della non-poi-così-giovane-in-realtà proprietaria.

Persino all’interno, il locale rasentava l’aspetto di un vero giardino giapponese: i clienti gustavano il loro vassoio di sushi (non che lei l’avesse provato di persona, non con quei prezzi a doppia cifra per una cena il sabato sera, ma aveva amici che amavano il rischio. E Mirella amava il gossip) seduti comodamente su finte rocce che delimitavano finti sentieri di sabbia, rilassandosi al suono scrosciante di finti ruscelletti che confluivano in finti laghetti. Tutti protetti da lastre di plexiglass, ché la puzza di acqua stagnante, per carità, avrebbe solo allontanato i clienti, ma l’idea di poter cenare ai costosissimi tavoli che sormontavano quella stessa acqua, be’, aveva un suo fascino. E tutt’intorno alberi rampicanti e persino un finto tempietto a nascondere il guardaroba dove lasciare cappotti e scarpe e indossare kimono sintetici e zori disinfettati in monoconfezioni. E Mirella schiattava d’invidia, davanti a tutta quella classe.

Ciononostante, e nonostante il cellofan che ricopriva porte e finestre del ristorante, Mirella prese figlia, zaino con cambi e provviste, lasciò un messaggio in segreteria a suo marito e si diresse a passo di carica verso Il giardino di imperatrice giapponese. Una volta che arrivarono i militari a mettere le transenne in strada, la notte calò sulla città e lei si sentì più tranquilla ad avere continuamente quelle sirene nelle orecchie. Mica degli zombie sarebbero andati a cercarsi la cena all’interno di un ristorante chiuso per lavori, no?

 

La buona notizia era che in quel ristorante troppo fancy per i suoi occhi (e le sue tasche) non c’era traccia di quegli zombie e neanche un grammo di quella fottuta farina. Se fossero uscite vive da lì, Mirella si sarebbe convertita al vegetarianesimo. Da pizze fatte con tanto amore a insalatine scondite, la vergogna suprema. Ma sempre meglio che andarsene ai matti per colpa di qualche fungo che ha deciso di divertirsi un po’ col dna del germe di grano…

L’ha scoperto alla radio, settimane e ancora più settimane dopo, quando si era ormai rassegnata a vivere asserragliata lì dentro, tra rampicanti e carpacci di salmone. Mirella aveva spedito sua figlia a farsi una doccia, perché pur nell’apocalisse le buone maniere vanno rispettate, e puzzare come un segnale di richiamo per zombie fungiferi, Mirella lo classificava sotto la voce di maleducazione bell’e buona. Così, badando alla sua assenza, si era sintonizzata sull'unica stazione radio non ancora caduta, per ascoltare il messaggio mandato a ripetizione per la popolazione. Sperando che sua figlia non origliasse e non si facesse prendere da ancora più incubi, per quello. Bastavano già gli scricchiolii in quel cazzo di giardino zen e le urla a intermittenza che venivano da fuori le finestre sprangate, a non farla dormire la notte. E far fare a lei gli straordinari, quanto a nervi sempre all’erta.

Il governo non aveva dato linee guida sulla situazione, oltre ad un buon vecchio fuggite dalle città, e si salvi chi può. Non che Mirella si fosse aspettata la marina coi cacciatorpedinieri al gran completo, ma almeno sarebbe stato qualcosa in più di un cavatevela da soli. Quanto alle notizie date sull’inizio di quell’ennesima (eh, ormai, dopo il duemilaventi chi ci faceva più il conto) pandemia, erano leggermente più succose. Praticamente, tutto quel macello era dovuto alla ricombinazione di un fungo del grano causata dai cambiamenti climatici e dall'inquinamento delle acque. E come ti sbagli, avrebbe commentato suo marito, ma Pietro non rispondeva al telefono da giorni e Mirella poteva solo dargli mentalmente del chitemmorto, oltre che lasciargli messaggi su messaggi in segreteria, sperando che prima o poi li ascoltasse. Chi poi fosse stato il paziente zero e come si fosse diffuso il virus, non era dato saperlo e, in tutta sincerità, Mirella nemmeno avrebbe voluto esserne a conoscenza. Innanzitutto, perché avrebbe preso a mazzate quel povero malcapitato, che altra colpa non aveva di aver mangiato una pagnotta di pane, che non sapeva fosse infetta, e di essere poi tornato a casa propria, senza certo immaginare cosa avrebbe scatenato.

Ad ogni modo, non potevano restare barricate in quel giardino dell’imperatrice di sto cazzo ancora a lungo: avevano probabilmente raggiunto un mese di permanenza senza sgradite visite fuori orario pasti, ma chi poteva dire che la situazione si sarebbe mantenuta? Avrebbero potuto essere aggredite da un momento all’altro da una mandria di barboni armati di coltellacci rimediati chissà dove, di pazzoidi guerriglieri convinti che Dio aveva finalmente mandato loro l’apocalisse, o di semplici famiglie disperate come loro. O di quei funghi pazzi assassini su gambe, anche. Non che lei ci tenesse a ricordarselo più del dovuto. Aveva fatto una scorta di scatolame e acqua in bottiglia per quando avrebbero lasciato quel posto, ma aveva continuamente rimandato, convinta che Pietro le avrebbe raggiunte. Allo scadere della quarta settimana di asserragliamento in quel posto che puzzava di salmone crudo e deodorante per ambienti alla pesca, Mirella si era infine detta di cambiar marcia.

Anche perché alla radio avevano annunciato un bombardamento a tappeto quanto prima, e se non si faceva venire un po’ di sale in zucca, né lei né sua figlia avrebbero visto l’alba del giorno dopo. Figurarsi di quella in cui avrebbe tirato per le orecchie suo marito.

 

Okay. Sale in zucca, amo’. Questo è più difficile dei master sulle panificazioni dei senza glutine, ma in fondo hai resistito fino alla fine di quel corso succhia-soldi. E pure alla fine della nona stagione di The Walking Dead. Dai. Puoi farcela. Armati di pazienza – e pure di qualcosa che distragga quei cosi dannati dal volervi mangiare, che male non fa.

Ma, nonostante tutti quei pensieri positivi e buone intenzioni fatte con se stessa, all’alba di quel nuovo giorno, nonostante ci fossero in ballo la sua vita e quella di sua figlia soprattutto, nonostante dovesse seriamente darsi una mossa e alzare il culo a cercare suo marito, Mirella restò ancora una buona mezz’ora sdraiata a fissare il soffitto.

Perché come cavolo avrebbe potuto mai affrontare un’orda di zombie veri e propri, di eventuali pazzi vaganti (perché sì, insomma, erano pur sempre in uno stato d’anarchia totale, con tutto il corollario che si vedeva ai servizi del tg sull’Ucraina), e pure un bombardamento a tappeto? Lei era una donna normalissima, con un’ampia conoscenza delle panificazioni e una fissa invecchiata male su una serie televisiva. Non sapeva usare pistole né fabbricare bombe, e con la corrente elettrica del generatore da razionare, poteva pure scordarsi di usare internet per cercare come fabbricarne una. Poteva solo uscire di notte e sperare che, a strisciare lungo i muri, non ci fosse stata troppa gente in giro a caccia di madri e figlie di cui potersi approfittare…

Reagisci, si diceva. E intanto restava sul suo letto di fortuna – un divanetto dell’area extra-lusso, il laghetto zen in mezzo a quel cazzo di giardinetto giapponese – a fissare il soffitto e a pensare a cosa diamine avesse sbagliato in tutta la sua vita perché il Signore le tirasse un tiro così scorretto come una stracazzo di apocalisse zombie in piena regola.

Finché non le sovvenne il ricordo di quell’arpia che aveva tenuto loro il corso sulla sicurezza nei laboratori, di quanto fosse importante anche in un laboratorio di panetteria, eccetera. E di come non si dovessero assolutamente miscelare certi reagenti, detersivi o additivi per gli impasti, se non avessero voluto far esplodere il forno di famiglia…

Mirella si era precipitata in cucina a razzo, gridando a sua figlia di preparare armi e bagagli. E ‘fanculo il silenzio. Sarebbe stato meglio che quell’arpia di imperatrice dei ristoranti di sushi tenesse in dispensa bicarbonato, aceto e l’azoto liquido da lei tanto amato per quei suoi piatti artistici ma insipidi. E costosissimi, ci sarebbe mancato altro. Mirella si sarebbe accontentata anche di una pistola e di un set di proiettili, a voler proprio pensare male e tornare con la mente a quegli articoli sulla mafia cinese che comparivano ogni tanto tra i trafiletti del giornale locale, in quegli articoli sugli all you can eat che facevano saltare in aria un mese sì e un mese no.

Sale in zucca, amo’!, si disse, prendendo in prestito la voce di suo marito. Sperava che l’aiutasse. In realtà, la depresse abbastanza da farla rinchiudere nello stanzino delle scope a singhiozzare. Accartocciando l'ultimo fazzolettino del pacchetto, Mirella si decise a mettere in atto quel suo folle piano. Le bastavano due barattoli e gli ingredienti giusti. E tanto, tantissimo coraggio per andare a prendere sua figlia e dirle dai, andiamo a morire. Altro che la politicante o l’influencer di turno, quell’anno il premio di madre leonessa non gliel’avrebbe tolto nessuno.

L’azoto, c’era. Il bicarbonato, pure. Mirella si mise da parte anche un po’ di aceto e altra roba che ad istinto le pareva adatta a scoppiare se miscelata male, o a bruciare se lanciata in faccia. Cosa scioglieva i funghi, per esempio…?

Mirella si precipitò daccapo nello stanzino delle scope. Il fungicida in bottiglia era sparito, ovviamente. Bella stronza, fu l’amorevole pensiero che rivolse alla sua rivale, che sicuro se l’era portato dietro una volta evacuato il suo ristorante. Corse daccapo in cucina, dicendosi che sacrificare una tacca di batteria del telefono per cercare su internet quali fossero i repellenti naturali più usati sarebbe stato, in fondo, un gesto più che comprensibile per la protezione della propria persona. E di sua figlia. Maledizione, dove cazzo erano le guardie quando servivano veramente?! (Ma non serviva davvero che si rispondesse.)

Polvere d’aglio. Okay, quella poteva rimediarla. Mirella si mise a tritare tutti gli spicchi che trovò, mentre il telefonino caricava le pagine seguenti di quel sito internet sui fitofarmaci da orticello cittadino. Polvere d’ortica…no, quella forse era più complicata. Mirella se la segnò mentalmente, poteva essere comunque utile da ricordare. Se mai fossero riuscite a giungere in campagna. Quasi non rischiò un attacco isterico, ché con le dita untuose di aglio non riusciva a girare pagina sullo schermo del telefonino.

Chiodi di garofano. Mirella sentì aprirsi un mondo nella sua mente, a quella menzione. Una spezia che conosceva, finalmente, e non solo perché nella dispensa del ristorante ve n’era un sacco bello pieno, oltre che un paio di alberelli in zona bagno. Ma perché sua nonna gliene aveva regalato una pianticina in occasione del suo matrimonio, e da allora imperava sul balcone dedicato alle spezie del suo appartamento, assieme alle arance che Mirella costringeva suo marito e sua figlia a fare regolarmente, tutti gli inverni, così come sua nonna le faceva fare da bambina. I chiodi di garofano erano ospite fisso in casa sua, assieme alle pagnotte senza glutine, ma sinceramente più amati: arance appese ai termosifoni e dentro gli armadi, nei limoni quand’era estate, e nel vin brulè che le sue amiche le chiedevano di preparare per i brindisi di capodanno. Si poteva dire che Mirella aveva, dopotutto, una pianta di chiodi di garofano nel cuore – e, per una volta, le sarebbero stati più utili di quanto suo marito, odiatore indefesso di quei cosi che puzzavano e che si ficcavano ovunque quando cadevano dal loro sacchetto, le avrebbe ammesso mai.

Sale in zucca…e spezie nel cuore, quindi. Mirella si riempì ben tre barattoli di polvere di chiodi di garofano e d’aglio, si armò della pala per pizza e, mano ben stretta a quella di sua figlia, strappò i lucchetti al portone d’entrata per uscire definitivamente da quel finto giardino di un’imperatrice giapponese che, morta ormai da secoli, stava molto meglio di tutti loro.

 

Si tennero rase ai muri dei palazzi, nascondendosi dietro ogni macchina che trovavano. Mirella non faceva altro che ripetersi che dovevano soltanto uscire dalla città e il resto era fatto. Avrebbero trovato un avamposto di polizia, tutt’al più, magari al confine con l’ospedale, o davanti all’edificio della provincia. Avrebbe fatto vedere loro le carte d’identità che teneva nello zaino, e forse le avrebbero messe in quarantena, non avevano niente in mano per poterle fermare. Sua figlia aveva tredici anni e zero risse segnate sulle sue pagelle scolastiche; quanto a lei, tutt’al più aveva pagato in ritardo una multa per un cazzo di autovelox nascosto sulla circonvallazione, ma nient’altro. E poi c’era quel dettaglino del bombardamento a tappeto, pianificato per quel pomeriggio, a tenerle il fiato sul collo e metterle le ali ai piedi. Che ci voleva, ad uscire in fretta dalla città? Niente, davvero.

Ma ad andare a prendere la sua automobile nel cortile del loro palazzo, ci volle molto, molto meno tempo che restare a rimuginare addosso al muro mezzo sfondato di un condominio in cui non abitava più nessuno.

Il motore non partiva. E certo, era forse un mese che stava fermo. Mirella ficcò in mano a sua figlia la radiolina (ché sì, portarsi dietro pure quella e un pacchetto di batterie poteva avere una sua utilità) e si mise anima e corpo a far scaldare quel dannato apparecchio. Varie bestemmie dopo, ci riuscì. Innestò la marcia e imbeccò la direzione per la periferia, obiettivo: la fattoria di sua nonna. Era abbastanza distante da tutto, città, ospedale e pure i centri commerciali sulla statale, perché quegli zombie del cazzo non l’avessero già raggiunta.

Mirella non aveva mai guidato col piede a tavoletta e la paura di morire in corpo. Ma dovevano allontanarsi dalla città prima che quelle dannatissime bombe gli piovessero sui capelli. Tenne la radio sempre accesa, con la morte nel cuore perché non poteva costringere sua figlia a dormire sui sedili posteriori. E quando il generale annunciò che l’ordine era stato proclamato, si trovavano ormai lo stadio sportivo. Dove non sarebbero mai più andate a vedere un concerto.

Arrivarono alla fattoria forse solo per intercessione divina di sua nonna. Non trovarono pali caduti in strada, né orde vaganti e assassine – solo gente che si muoveva in maniera un po’ troppo scomposta per essere semplici ubriachi del sabato sera, e pure famiglie che gridarono loro dietro di fermarsi, ma nonostante le proteste di sua figlia, non si fermarono per nessuno di loro. Mirella pensò che l’avrebbe scontata alla fine dei tempi, ma pensò pure che ormai non le importava più.

 

Erano a casa. Una che avrebbero potuto ritenere ancora tale. Corsero in cantina, la terra che tremava loro sotto i piedi, e si chiusero dentro in tempo per lo scoppio della prima bomba. Mirella pregò che andasse tutto all’aria tranne sua figlia. E forse, sua nonna l’ascoltò ancora. Quando uscirono – tre ore dopo, ma pure trecento anni più tardi – la puzza di fuoco riempiva l’aria, ma la casa era ancora in piedi.

Ci misero qualche giorno a sistemarsi, innanzitutto per la mole di paranoie che quel bombardamento aveva instillato loro. Sua figlia era tornata a dormire per miracolo. Mirella pensava che sarebbe potuta restar sveglia tutta la vita, se sarebbe bastato a proteggerla.

Ci misero pure di meno a capire che non sarebbero sopravvissute un giorno in più. Pure a razionarlo, lo scatolame che s’erano portate dietro dal giardino dell’imperatrice vigliacca stava per terminare. Per l’acqua non ci sarebbero stati problemi, visto che il pozzo era ancora intatto.

Ma, appunto: era l’acqua del pozzo, il vero problema. Perché aveva seccato tutte le piante dell’orto. E non era ancora inverno, non era possibile. Mirella si fece prendere dallo sconforto per una mezz’ora buona, a pensare che quel cazzo di virus avesse colpito pure lattughe e pomodori. Per poi ricordarsi che non era possibile, che c’entrava l’acidità delle piante e…

Ecco, appunto. Mirella tirò fuori quell’accidenti di corso dei laboratori dalla mente per preparare col bicarbonato un piccolo test per l’acidità dell’acqua. E quando quella presa dal pozzo si colorò di rosso, ne ebbe la prova. Tutta l’acqua dolce che avevano a disposizione, per crescere le verdure che le avrebbero nutrite ed evitare l’arsura della sete, era diventata completamente acida. Ne avrebbero ricavato solo calcoli renali, a berla. E sarebbero pure morte di fame. Ma erano appena scappate a zombie e bombardamenti, santissimiddio. Doveva essere un po’ d’acqua a farle morire? Sul serio?

Mirella gettò tutto il bicarbonato che ancora aveva, dritto giù nel pozzo. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a far ricrescere almeno due carote. E a farsi un dannatissimo shampoo.

 

Risolto il problema dell’acidità dell’acqua dolce, se n’era creato un altro subito dopo. Quello dei cavoli mannari. E no, non era la favola che raccontava a sua figlia da piccola, per farla ridere dei mostri che vedeva sotto al letto. Prima che questi diventassero reali per colpa della fottutissima farina.

Sua nonna teneva i cavoli nella rimessa, al riparo per via della loro delicatezza. O di questo era convinta lei. Così, quando Mirella si era recata a cercare benzina e generatore, aveva avuto la bellissima sorpresa di quella piccola orda di cavoli zombificati a smangiucchiare cavi, altri fratellini cavoli e vecchie chiavi inglesi arrugginite.

Così prese la decisione più sensata di tutte, e chiuse la rimessa. Serrata a chiave. Avrebbe buttato un po’ di fungicida dal tetto, e ‘fanculo pure quei cavoli.

Che cavolo!, pensò Mirella, tornando incazzata verso casa, almeno questa potevamo risparmiarcela, no?!

Se suo marito le avesse risposto a quel cazzo di telefono, però, doveva proprio raccontarglielo. Così, per farsi una risata in barba alla fine del mondo.

   
 
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