Confessione:
Faccio
schifo in topografia e sono andata particolarmente male
all’esame di topografia
medievale.
TW:
utilizzo di droga,
sintomi dell’astinenza, menzione di prostituzione.
P
A R T E P
R I M A
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‘ I N V I O L A B I L E
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R L E R O’
Iren
respirava in maniera pesante, come se l’aria non riuscisse a
filtrare bene,
attraverso il suo naso e la sua bocca. Saiji aveva accarezzato la sua
guancia e
i capelli scuri, con più delicatezza di quanto non avesse
mai fatto prima, non
era avvezzo a quelle sdolcinerei. Aveva sposato con l’indice
e medio il viso di
Iren affinché affondasse di profilo sul guanciale, se avesse
vomitato in quella
posizione non si sarebbe strozzato.
Aveva guidato le mani di Iren sopra la sua testa corvina, aveva
delicatamente
incrociato i polsi, prima di cominciare a legarli insieme con una corda
relativamente spessa, che aveva poi fermato contro la testata di legno
del
letto. Non voleva stringere troppo, così da ferire Iren, o
complicare il libero
scorrimento del sangue, ma aveva paura che se non avesse annodato bene,
ci
sarebbe stato il rischio che Iren riuscisse a sciogliersi dal fermo.
Sapeva che ormai il veleno del Latte d’Uccello era finito
definitivamente, dopo
la spossatezza – e la nausea – che lo avevano
attraversato negli ultimi giorni,
quello che avrebbe colpito Iren era l’ultima fase:
la Sregolatezza.
Il suo corpo avrebbe cominciato ad agognare senza controllo ne
capacità di
sopportazione il bisogno di procurarsi altro Latte. Iren si sarebbe
agitato, si
sarebbe divincolato, sarebbe stato simile ad una bestia, pur di uscire
da
quella stanza, da qualsiasi parte, per cercare il suo veleno.
E Saiji non sapeva come doveva comportarsi, solo grato che il suo amico
avesse
resistito a quel comportamento fino a che non erano giunti in
città. Nella
brughiera non ci sarebbe stato verso di contenerlo e la follia del
bisogno
avrebbe finito per ucciderlo, in qualche atto irrazionale. Doveva la
loro
fortuna ad un gruppo di zatteristi fiumani, da cui era riuscito a
comprare una
pasta rilassante che si spalmava sulle gengive o sul palato. Anche
Saiji ne
aveva avuto bisogno di un po’.
Saiji non
credeva in nessun Dio e di sicuro in opere misteriose, ma doveva
sicuramente
essere stato un miracolo ad aver permesso loro di passare i dazi
doganali di
Città Azalea, con Iren che si reggeva sulla sua cavalla con
la stessa stabilità
di una banderuola al vento. Di per sé, era complicato per
entrambi muoversi,
Iren era un Figlio del destino, Benedetto, ma aveva il viso bianco come
la neve
dei ghaadiani, mentre nonostante i suoi capelli rossi, Saiji aveva
l’aspetto
eosiano di sua madre.
Il Pregiatissimo Impero dei Fiori aveva ereditato il nome dal Florido
Impero
di Istan, ma di sicuro non aveva ereditato la sua stessa
varietà, nessuna
erbaccia cresceva nel giardino dell’Imperatrice. Le monete sonanti di
solito zittivano quasi
ogni pregiudizio, ma non quando uno di loro somigliava ad uno
spirito-della-morte.
Il tuo amico non sembra stare molto bene.
Abbiamo perso il cavallo al Passo delle Pomacee,
così siam passati per la
foresta. Visto che è un ragazzetto di città, con
le mani più morbide create da
Iddio in persona, non s’è fidato delle mie parole,
e quando mai, ed ha bevuto
il succo delle bacche di agrifoglio.
Saij se l’era studiata bene, era una storia
credibile. Si era mostrato
quanto meno letterato potesse essere, facendosi passare per un
servitore di
Iren.
Le due guardie alla dogana lo avevano guardato, uno aveva scosso il
capo, con
sguardo poi comprensivo, consapevole, mi hanno fatto cagare
sangue e
vomitare così tanto che ho pensato ci sarei morto, una
volta, aveva
raccontato rammaricato, ma comprensivo.
L’altro commilitone aveva riso della pelle bianca macchiata
di sudore di Iren, proprio
un semidio, eh? La natura se è
dimenticata che son perfetti, loro,
evidentemente! Aveva detto solo poi, con
leziosità. Era un bimbo sbagliato,
non molto, aveva un viso ancora giovane, un naso dritto ed una mascella
squadrata che faceva apparire il sorriso cattivo ma attraente.
Oh, sì, vomitano e puzzano esattamente come noi
bestie! Aveva replicato
calmo Saiji.
Si era aspettato una battuta sugli eosiani, di solito arrivava sempre,
ma la
guardia aveva riso. Evidentemente il senso di inadeguatezza che provava
davanti
ai figli preferiti di Dio, superava l’usale visione di
supponenza che animava i
fioriani verso gli estranei.
Il dolore
aveva fatto sussultare Iren, Saiji aveva osservato le ciglia nere del
suo
amico, tremolare, nel tentativo di sollevare le palpebre, ma tutto
ciò che era
riuscito a percepire era stato lo spiraglio bianco della sclera, che
era presto
scomparsa di nuovo in un sonno serrato. Però era sveglio,
non del tutto ma
quasi, Iren aveva schiuso le labbra secchissime, aveva provato a
mormorare
qualcosa, con un tono così basso ed impastato, che Saiji non
aveva compreso. Dubitava
che qualcuno potesse comprenderlo.
“Non odiarmi, amico mio, lo faccio per il tuo bene”
aveva detto, guardando
quello che era rimasto del suo amico: una carcassa fievole, di carne
bianca,
distrutta. Anche se fosse stato bene, probabilmente non lo avrebbe
portato
ovunque, non sapeva come gestire Iren, non solo per ipotesi, ma per
quello che
il futuro riservava loro.
Iren aveva spergiurato che poteva gestire il Punteruolo, ma le parole
erano
scritte sull’acqua – diceva sempre suo padre. Aveva
sentito una morsa al petto
a quel pensiero.
La sua marra era una figura più semplice da gestire, non
sapeva perché. Suo
padre se n’era andato prima, più velocemente, in
una cacofonia di urla e
sangue.
Si era
chinato ed aveva cominciato a slacciare i lacci degli stivali, a mezzo
polpaccio, di Iren, per liberare anche i piedi, poi si era adoperato
nel legare
anche le caviglie ai piedi del letto. Il suo amico aveva provato un
debole
tentativo di ribellione, che era morto in un nodo leggermente stretto.
“Sopravviverai a questo. Te lo assicuro, sei un fottuto
maniborbide, cresciuto
tra i cuscini di piuma e seta, ma sei forte” lo aveva
rassicurato Saiji mentre
fermava con più decisione la fune alla tastiera infondo al
letto. “Il tuo dio
ti ha abbandonato nelle mani de Il Principio e delle mie e nessuno dei
due è un
maestro gentile” aveva considerato. Un suono era riverberato
dalla gola di
Iren, che somigliava terribilmente ad una risata, strozzata da un colpo
di
tosse.
Saiji avrebbe
dovuto procurarsi del Latte d’Uccello, non poteva affrontare
la depurazione di
Iren con quello che dovevano passare. Iren aveva cercato di piegare una
gamba
per liberarsi dal nodo dalle caviglie. Era stato un tentativo fiacco,
che era
morto sul colpo, assieme al tremolio delle palpebre. “Non te
ne andare” aveva
bisbigliato Iren, stupendolo, il suo tono somigliava a qualcosa di
terribilmente simile all’umano. Male, aveva realizzato Saiji,
se la morte
apparente stesse cominciando a passare, la sregolatezza sarebbe stata
ormai
prossima.
“Lo sai, che devo” aveva dichiarato Saiji,
recuperando da una fasciatura di
cotone da una delle sue bisacce di viaggio; “Adesso ti
legherò la bocca, così
non urlerai e non ci ritroveremo questa stanza invasa da persone
… e non ti
morderai neanche la lingua” aveva scherzato.
Iren si era forzato nell’aprire le palpebre, ma non
c’era ancora riuscito,
aveva sospirato, pesantemente, “No. Non
urlerò” lo aveva rassicurato, “Se tu
resti qui, non urlerò.”
Saiji era rimasto fermo, prima di rispondere:
“Sarò qui perché sorga di nuovo
l’alba. Ti porterò vino speziato e ti
riporterò la pasta fritta con miele e
noci, che ti piacciono tanto” aveva considerato, prima di
recuperare
l’unguentario di ceramica comune dalla sua bisaccia, lo aveva
stappato ed aveva
versato sul suo dito il rilassante dei fiumani, che aveva passato sulle
gengive
di Iren. Il suo amico non aveva opposto resistenza da quel punto di
vista,
lasciandosi drogare senza problemi. “Resta” aveva
detto Iren, prima di
sorridere, risentendo quasi subito degli effetti.
“Lo sai che non ho posso. Ho un impegno. Sto lavorando per
noi” aveva
detto frustrato Saiji, non voleva fare la conversazione che Iren, in
stato di
intorpidimento, voleva guidare, “Per la nostra cascina nelle
terre ferriane”.
‘Non lo fai per noi, lo fai per te,
perché non puoi smettere’ ed era
vero, perché Saiji era quello che era e nulla di
più. Ma Iren non lo aveva
accusato di quello, dopo tutte quelle sorelle sapeva ancora come
prenderlo in
contropiede, “Adda sarebbe rimasta” aveva detto
solamente, “Sì, Adda sarebbe
rimasta” aveva detto Saiji, con la stessa
sacralità di un dogma.
Da un lato credeva seriamente a quelle parole, ovviamente la ragazza
sarebbe
rimasta con Iren, vegliando con la stessa delicatezza di una madre, con
le mani
tra loro intrecciate, ma da un altro lato Saiji riconosceva la menzogna
nelle
sue parole: Adda non era rimasta.
Iren non aveva detto nulla a quella sua ammissione, “Se tutto
dovesse andare
per il meglio, forse rivedremo Adda presto” aveva considerato
Saiji, sperando
che i suoi amici volontisti non avessero deciso di far ballare loro due
la
danza degli impiccati per l’orribile peccato di essere
ciò che erano: un
Maniborbide ed un soldato, un bambino Benedetto e una pecora, un nobile
ed un
cordato.
A quell’ultima frase, Iren aveva arreso la sua resistenza,
offrendo la fronte,
il collo, per il pastrano, così che potesse legarlo,
“Non vomiterai, vero?”
aveva chiesto retorico, Iren si era sforzato di aprire gli occhi solo
per
poterlo guardare storto, o almeno una vaga imitazione di uno sguardo
minaccioso.
Saiji aveva accarezzato con le nocche la curva morbida della guancia,
ancora un
po’ infantile e si era chinato facendo sfiorare con le labbra
la fronte tonda
di Iren. Era ancora sudato come un maiale ma non più freddo
come la pietra,
assomigliava ad un uomo. Le gote del suo amico si erano tinte di un
rosso
scarlatto, “Nessuna strana idea” lo aveva avvisato
con una mezza risata.
Città
Azalea era sorta dopo la caduta del Florido Impero, ma era vecchia
quasi
duemila-quattrocento Sorelle, nasceva dal palazzo signorile. Le prime
case erano
sorte a ridosso dell’antica cita di mura, di cui quei tempi
resistevano solo
vecchie porte. Di quei tempi il palazzo era protetto unicamente dal
fossato e
la città era circondata da mura alte e strette che
circondavano la città
pentacolare ed una muratura più spessa, vecchia, che
inglobava il palazzo e le
dimore più ricche e vecchie.
Altri borghi sorgevano appena fuori dalle cinta più esterna
ed in futuro ne
sarebbe nata probabilmente una terza. La città ospitava due
piazze, quella principale
con la Cattedrale cittadina e quella delle spezie e di viuzze di ogni
genere
che si estendevano i complicati intrecci urbani, come i fili di una
matassa.
Ben distante dall’ordine di Città Viola, che
poteva vantare un centro-cittadino
ereditato dall’assetto ordinato del Florido Impero.
Il luogo di cui aveva avuto necessità, era trovato su uno
dei bracci più
esterni e malfamati di Città Azalea, la Via del Piacere. La
Serra della Signora
Sarpia dei Mille Fiori era un lupanare di tutto rispetto, per quanto
Saiji non
trovasse quei luoghi di suo gusto, affiancato da tutti gli altri luoghi
di
perdizioni di Città Azalea, però spiccava tra gli
altri edifici per cura,
grandezza ed eleganza.
Era una casa di tolleranza di una certa raffinatezza, quel genere di
posto dove
Saiji non avrebbe avuto abbastanza monete neanche per indugiare, un
po’ troppo,
con lo sguardo, figurarsi poter pagare per la compagnia. Anche se, di
rimando,
Saiji non aveva mai particolarmente pensato di spendere la sua paga
così – il
vino era meglio e lo faceva sentire meno in colpa. Si era sempre tenuto
lontano
dai lupanari, da quella volta che Ser Moira lo aveva portato con
l’intenzione
di spiegargli il segreto peggio custodito del mondo.
Le pareti
dell’edificio erano di un bianco lucido macchiato di venature
azzurre, che
sotto le luci delle lucerne, risultavano di un verde acquamarina. Le
pareti non
erano di vero marmo, ma grazie alla mano che le aveva dipinte lo
potevano sembrare,
specie con le luci soffuse della notte. La bellezza era accresciuta
dalla
presenza di ogni varietà di fiori e foglie, dai glicini,
platani piangenti,
pratoline e violette, che si alzavano in verticali, prima di
intrecciarsi in
forme geometriche, grazie ad un intricato sistema di pergolati in legno
smaltato di bianco. Il portone principale, ampio e rispettabile come
quello di
una chiesa principale, era realizzato con ferro battuto con volute di
foglie
d’acanto e intessiture viminea. Costeggiato ai lati da due
colonne posticce,
che rovinano l’immagine di eleganza e bellezza.
Era l’epitome di quelle persone splendide, belle, vicine alla
perfezione, ma
non benedette.
C’era
una
guarda alla porta, vestiva in abiti civili, ma Saiji riconosceva lo
scintillare
del ferro scuro, sotto l’orlo della blusa – una
maglia di bronzo ad anelli
circolari. La postura dell’uomo era rivolta verso la strada
trafficata, l’unica
a quell’ora della città, ma gli occhi neri,
attentissimi, non perdevano di
vista nessuno degli uomini che passava sotto l’argo di bronzo
decorato.
Saiji si era avvicinato all’ingresso con passo attento,
passando una mano per
cancellare le pieghe inesistenti del camiciotto blu notte che aveva
indossato.
Alla locanda, prima di legare Iren, si era lavato il corpo per
liberarsi
dell’odore della natura e dei cavalli, ma aveva potuto farlo
solo con l’acqua
fredda, non avendo avuto tempo di riscaldarla e con poche gocce di olio
di
lavanda. Era stata la figlia del locandiere, attirata da
quell’area magnetica
di Iren ad averla convinta a dare loro quell’ultima
prelibatezza. La ragazza si
era preoccupata di dare a Saiji anche un pettine d’osso, con
cui lui aveva
cercato di dare un ordine ai suoi riccioli indisciplinati, si era
potuto fare
poco per i suoi nodi, con acqua fredda ed olio di lavanda. Aveva anche indossato i
migliori vestiti che
aveva con sé, non che fossero particolarmente belli o
raffinati, se il suo
sangue eosiano non lo avesse già messo troppo in evidenza,
la blusa con i
gomiti rovinati, decorato con ghirigori in filo azzurro a cui erano
saltati
diversi punti e pantacalze brune ancora macchiate di sangue.
La guardia
lo aveva fermato prima che scivolasse come gli altri avventori.
“Sei sicuro,
mio signore, che questo luogo ti si addica?” aveva chiesto.
Aveva occhi
nerissimi nel buio della notte, un viso di rame, con una chioma folta
nella
parte alta della testa, tagliati appena sopra l’orecchio.
Saiji aveva fatto scivolare
nella sua mano una damigella peripsiana.
L’uomo aveva guardato le monete d’argento ed
elletrio prima con confusione e
poi realizzazione, “Credo di sì, buon
uomo” aveva risposto Saiji. Sfoggiando un
fascino che non aveva mai posseduto. La guardia si era infilato la
moneta nella
casacca, “Ed io che pensavo che tutte le melanzane eosiane
fossero poveri
rotti-in-culo” aveva considerato, con un sorriso svelto e
cattivo. “Lavoro per
qualcuno, infatti” aveva dissimulato Saiji, ottenendo il
lascia-passare per il
locale.
Aveva attraversato il corridoio all’ingresso, cupo e stretto,
illuminato da
lampade di cera, sistemate in lanterne di ferro, con figure nere, che
si
riflettevano nelle superficie. Il soffitto era a lunette di fritta blu
su cui
erano rappresentate stelle d’orate, incorniciate in cerchi
smeraldi.
Non era solo lui presente nel corridoio, ma tutti, insieme si muovevano
come
una processione. Saiji aveva riconosciuto alcuni arazzi sconci, appesi
alle
pareti.
E poi, il corridoio lo aveva condotto in porticato pieno di statue,
pieno di
persone, che con colonne bianche, sottili, terminante in capitelli
compositi,
foglie d’acanto nella parte superiore e bestie ruggenti
nell’inferiore,
circondava uno splendido giardino.
Aveva attraversato il pavimento mosaicato, fino a raggiungere il
cortile,
sentendo sotto gli stivali la pressione diversa dell’erba
fresca, lì, l’odore
di fiori era così forte, da averlo lasciato spaesato, fumi
d’incenso bianco si
aprivano da bracieri posti ai quattro angoli. Esistevano panchine di
marmo,
cassettoni di sarcofagi – reliquie del Florido Impero
– rovesciate, perché la
parte piana fosse usata come seduta.
E lì, in quell’ambiente, corpi si intrecciavano
tra loro, in una sinfonia di
sospiri ed urli, pelli contro pelli, stoffe trasparenti e sudore.
E voglia.
Saiji era rimasto quasi incantato nell’osservare una coppia
arpionata non
lontano da lui, così stretti ed avvinghiati tra loro da
sembrare un’unica
bestia amorfa … e poi mentre si lasciava conturbare da
quella visione aveva visto
lei. Una donna, con un passo felpato come quello di uno spettro,
ondeggiare
verso di Saiji. “Buona sera, Freor”
lo aveva chiamato suadente; aveva
sentito un fischio nelle sue orecchie per l’idioma eosiano,
non che la cosa
avrebbe dovuto stupirlo, la donna stessa apparteneva alla stirpe delle
genti
oltre il mare.
Era una donna affascinante, ma non nascondeva in toto la sua
età, la signora
doveva era più adulta di quanto fosse Saiji, sulle
centosessanta, forse
centosettanta sorelle.
Aveva gli occhi leggermente allungati, dalla forma di mandorla, estesi
in una
riga dritta in tintura di galena grigia, accompagnati da palpebre in
verde
malachite e le guance omogenee con la polvere di agretto bruciata.
Come lui doveva essere una
meticcia. La sua pelle era tannè,
come quella degli eosiani purosangue, ma aveva le labbra sottili dei
fioriani,
così come un naso piccolo, era di statura minuta.
Così come gli occhi, verdi
come l’erba, troppo chiari ed inusuali per le calde terre
oltre il mare, forse
anche per le terre del pregiatissimo impero, addirittura poteva
condividere con
lui sangue ghaadiano o forse delle terre-della-fine-del-mondo. I capelli
però
erano eosiani, erano folti, scuri come legno d’acero, che
scivolavano in onde
morbide come l’acqua che si increspava sulle coste, portati
sciolti come le
fanciulle nubili; a Saiji aveva ricordato quelli della sua Marra.
Nonostante
l’altezza non
così elevata, il corpo della donna aveva la forma di una
clessidra,
accompagnato da curve morbide dei fianchi, dei sani pieni e dalle cosce
carnose. Non era nuda, non completamente, non formalmente, il corpo era
nascosto da un vestito di tulle acquamarina, che permetteva di scorgere
ogni
dettaglio del corpo.
Anche il fiore sul suo petto era visibile: tre fiori di ganzania, uniti
da
gambi sottili, con petali dai colori vibranti.
Se Saiji non fosse stato educato per l’interezza della sua
vita a prestare
attenzione ad ogni dettaglio – un errore, una dimenticanza e
sarebbe stato cibo
per i vermi – lo avrebbe definito un fiore benedetto, ma non
era così. Il fiore
della donna era quello di un bimbo sbagliato, ma era stato aggiustato,
abbellito
e migliorato da inchiostri umani: colori troppo finti per essere le
delicate
sfumature del pennello del Dio-di-tutte-le-cose-buone, così
come i petali,
troppo carichi di colore, quasi scintillanti.
I fiori erano naturali, macchie della pelle, non avevano sempre
contorni
precisi e ruggenti, non più di, nei, efelidi e macchie,
nonostante la loro
bellezza. Però il fiore della donna aveva troppe vistose
perfezioni-imperfezioni umane. Probabilmente sotto la malachite e la
polvere di
agretto il viso avrebbe rivelato la sua umanità, forse
nascosti dai capelli
nerissimi, svettavano orecchie ingombranti. Sicuramente, la donna era
quello
che si soleva dire: non-lontana-dalla-perfezione.
Se Saiji avesse dovuto sbilanciarsi avrebbe detto che ambedue
i suoi
genitori dovevano essere benedetti, ma non anime condivise tra loro.
Similmente
a Saij, che aveva una madre figlia del destino ed un padre
non-lontano-dalla-perfezione.
“Buona-luna,
Sarra” le aveva detto ricambiando il vezzeggiativo
famigliare, dopo aver perso
troppo tempo a studiare il fiore. La donna non era stata turbata dai
suoi occhi
sul suo seno, probabilmente qualcosa a cui una lupa di baci doveva
essere
avvezza.
La donna aveva sorriso a quel vezzeggiativo; gli eosiani, o chi aveva
solo una
goccia di sangue di quel popolo, in terre lontane dalla patria, si
appellava
sempre così. Saiji conosceva a malapena l’eosiano,
aveva imparato la versione
imbastardita con il ghaadiano che sua madre parlava – e che
Moria si era
impegnato perché non parlasse più - e i loro
costumi anche meno. Conosceva
quello che la sua Marra le aveva insegnato, che
nonostante professasse
con orgoglio il suo sangue eosiano, era nata in Ghaadia e non aveva mai
veduto
Eos con i suoi occhi.
“Come
posso servirti, Freor? Cosa cerchi? Quali desideri il tuo cuore vuole
colmare?”
aveva chiesto sensuale la donna, sfiorando con l’indice della
sua mano la
stoffa turchese della sua blusa, “Puoi cogliere qualsiasi
fiore qui nella
Serra” aveva aggiunto.
Così vicina, Saiji poteva sentire il suo odore, era intenso,
ma non floreale,
più vicino all’intenso. “Un
uomo” aveva risposto lui.
L’espressione della donna non era cambiata di una virgola,
gli occhi erano
rimasti attenti ed il sorriso terribilmente educato, “Peccato
per me” aveva
scherzato, “Ma qui di certo non mancano, giovani, adulti,
anche vecchi per
certi gusti. Ghaatiani” –
pronunciato con il suono del th che con
la d – “con la pelle di fata,
sussurranti con capelli d’oro, fioriani
tulpee, fioriani istiani, fioriani boghiani per farla breve: ogni fiore
del
Pregiatissimo Impero. Oltre che ferriani di ogni tipo, eosiani come
vedi,
errantiani con l’occhio stretto, fiumani con campanelli alle
caviglie ed anche
kartissiani alti come giganti” lo aveva invitato,
“E figli del Destino, i bambini
benedetti” aveva aggiunto nel farlo si era fatta scivolare
una mano sul suo
stesso petto, dove appariva il suo fiore rifinito, poi con voce
più dura aveva
aggiunto: “Nessun fanciullo però e se tu lo
volessi, questo non è luogo per te”.
Saiji aveva sorriso, “Se posso essere onesto, Sarra, cerco un
uomo sbagliato,
anzi più che sbagliato … e si maturo”
aveva spiegato, un’espressione leggera di
confusione si era aperto sul viso della donna, “Un uomo
dannatamente lontano
dalla perfezione; imponente,
leggermente fiacco sul
ventre, con orecchie grandi come amboni, denti gialli come girasoli e
sopracciglia spesse come code di furetto, su una bella fronte spiovente”
aveva spiegato con assoluta leziosità Saiji.
Lo sguardo leggermente confuso della lupa, si era presto arrestato, ma
non
aveva recuperato la grazia e compostezza che aveva ostentato fino a
quel
momento; sul suo viso invece di era dipinta un’espressione
più genuina, così
come il suo sorriso era stato più gentile.
“Oh!” aveva esclamato, “Lei deve
essere Ser Alderichi! Scarabocchio non mi aveva preparato a un mio
Froer. Dal
suo gentilizio mi aspettavano un ghaathiano con la pelle di cera e gli
occhi
blu come il mare delle sirene” aveva spiegato la donna. Saiji
le aveva sorriso
con più spontaneità anche lui, “Quello
era mio padre, ghaadiano in tutto il suo
splendore” aveva risposto, “Da lui che ho preso i
capelli.”
Era
strano: qualche luna prima aveva sognato la sua marra e neanche qualche
ora
passata aveva citato il suo vecchio – che mai lo era stato
– e … realizzava
fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che gli aveva
pensati con così
tanta intensità. Ricordava ancora i loro volti, non credeva
avrebbe mai potuto
dimenticarli, ma le loro voci, oh, quelle aveva cominciato a
dimenticarle.
“Un bel coraggio ad averti dato il suo gentilizio, i
ghaathiani sono gente
bizzarra; qualcuno dice si sposino le loro cugine perché non
possono scoparsi
le sorelle” aveva commentato la donna, dedicandosi ad uno
preconcetto
terribilmente blando e circostanziale. Saiji aveva compreso quello che
doveva
essere il fine ultimo della donna: rassicurarsi che lui fosse davvero
Saiji.
Non credeva che Scarabocchio non l’avesse preparata ad un
mezzo-eosiano con un
gentilizio ghaadiano, ma potevano esistere meticci, con una mistura sui
capelli
che sapevano fingersi figli di ghaadiani. “Era un It
Ghaadiano, anche se non
era l’uomo più devoto di questa terra, non lo era
decisamente visto che in
questa luna sono qui. Quando ha scoperto che mia madre era incinta, la
ha
sposata, mandando a Il Principio i suoi voti, i voleri della sua
famiglia e
quant’altro” aveva raccontato Saiji.
Non era la verità, non del tutto – ma era la
storia che aveva raccontato a
Scarabocchio durante la Sorella della Quisquiglia.
La donna lo aveva guardato, con attenzione, con quegli occhi troppo
chiari sul
viso, pareva rassicurata ma non soddisfatta, “E Ser lo sei
davvero o è un
inganno ben pensato?” aveva inquisito con leggera menzogna.
“Ordinato cavaliere
a settanta sorelle, decimana più, decimana meno, al pianoro
delle mandorle, dal
Duca Bergen Ramberra, vecchio signore di Querce Grandi” aveva
raccontato e
quella non era decisamente una menzogna, “Scarabocchio era
con me.”
La donna aveva riso, con un gusto amaro, “Una melanzana
cagliata[1],
che combatte Cavalcatori Erranti al fianco di
Fioriani” aveva raccontato,
Saiji non aveva preso male il vezzeggiativo razzista, abituato a ben di
peggio,
“Nominato cavaliere da niente di meno che il padre dallo
Scintillante
Generale. Trovo tutto
questo sublime” aveva
quasi squittito la donna.
Che strana reazione aveva pensato Saiji, “Siete la sola. Ser
Moria pensava non
avessi fatto abbastanza per tale titolo. Nessuno nel Pregiatissimo
Impero
gradisce che un meticcio possa avere un titolo, per quanto privo di
pecunia
quale quello di ser” aveva raccontato. “La Gloria,
mio freor, è comunque
notevole; è un passo, piccolo o grande, ma pur sempre un
passo verso la
prossima sorella” le aveva detto.
Saiji era rimasto perplesso da quella parola, non era sciocco, lo aveva
sempre
saputo che con quell’azione, più di una persona
– Moria – aveva voluto leggerci
qualcosa di più grande, nel bene e nel male, ma Saiji non
era un vessillo né
una fiaccola.
Il silenzio che si era creato, era stato rotto dalla donna,
“Che maleducata che
sono stata, Ser Alederichi. Io sono Luezhjana[2],
ma le lingue annodate di
questi fiorellini preferiscono chiamarmi: Lues” si era
presentata. “Figlia del
Grande Fiume” aveva pronunciato lui, quasi senza controllo.
Lei aveva sorriso, “Un antico nome tradizionale. Due delle
più grandi regine di
Eos lo hanno indossato” aveva ammesso, “Immagino
che anche il suo nome Ser
Alderichi, sia stato castrato per queste lingue di pietra”
aveva ammesso.
Saii aveva annuito, “Saijiorahavish[3]; in effetti” aveva ammesso,
“Il guerriero
più coraggioso” aveva considerato
Lues. “Il nome è eosiano, ma lo ha
scelto quel cagliato di mio padre” aveva
ammesso, anche quello era una
verità.
Non sapeva perché, da bambino non aveva mai pensato di
chiederlo e di quelle
lune non gli era più consentito farlo. “Splendido
nome, sì. Buon gusto, per un
ghaathiano. Allora, abbiamo perso fin troppo tempo” aveva
stabilito la donna,
accompagnando quella frase, battendo anche le mani fra loro.
Saiji non si era aspettato quel repentino cambio di tono, né
il ferreo
movimento che ne era seguito. Lues le aveva preso la mano, scattante,
ed aveva
cominciato a condurlo, con passo bellico, quasi, verso il sentiero
scolpito
dalle colonne del portico, fino a svicolare in un ingresso, che
conduceva ad un
corridoio a forcipe, anche quello pieno di peccati e lussurie.
E poi in un'altra stanza, ed un’altra. Arazzi di ogni tipo,
con posizione
sessuali di ogni genere, uomini, donne, con uomini e donne, intrecciati
in ogni
modo.
Quasi, quasi, stuzzicanti anche per lui.
E poi, Lues lo aveva condotto in una ampia stanza absidata.
Saiji era sconvolto dalla Serra, non aveva compreso la dimensione
originale di
quell’edificio, sembrava una di quelle ville agresti che un
tempo avevano
occupato gli agri del florido impero, qualcosa fuori-tempo,
fuori-luogo,
fuori-tutto.
Appena
messo piede in quell’ambiente, Saiji aveva dovuto abituare
gli occhi
all’ambiente più cupo. Sotto le stelle del
portico, illuminato dai bracieri,
aveva potuto godere di più luce, che in quella stanza
angusta. Oltre il
predominante buio, la stanza era accompagnata da veli
d’incenso e fumi, che
impregnavano non solo la vista ma anche l’olfatto.
L’unica luce che era
presente in quell’ambiente, era dato da candele con fiamme
tremolanti,
dedicando alla stanza un tono quasi mistico, religioso.
Ma se
l’ambiente poteva ricordare una chiesa alle veglie notturne,
nella Sorella
Pallida, ciò che più richiamava a sé
l’attenzione, era il coro di piacere, una
cacofonia di voci, in un continuo crescendo. Uno spettacolo di
dissolutezza, in
toni che andavano dai sospiri sussurrati a voci acutissime.
“Sai, spero,
Saijiorahavish che Scarabocchio non ti stia mettendo nei guai. Per la
legge non
scritta della Madre Pietra dovrei cantare i lamenti per tre decimane
per il
sangue di un freor” aveva ricordato la donna, aveva lasciato
la sua mano, ma
aveva continuato a condurlo per un labirinto di tende, arazzi e bestie
a più
braccia. “Più il contrario” aveva
ammesso lui. Lei si era arrestata, “In tal
caso, spero tu non lo uccida, o in tal caso dovrei ammazzare te e fare
i
lamenti per entrambi” aveva considerato. Saiji era rimasto
fermo, colpito, come
da una secchiata d’acqua gelida, prima che Lues si lasciasse
andare in una
risata fresca, pregna di innocenza e dolcezza. Qualcosa che Saiji
doveva
ammettere: non aveva mai pensato di trovare in un lupanare.
“Tranquillo, Freor,
Scarabocchio ha il ferro al posto delle ossa” aveva aggiunto
Lues, Saiji ebbe
l’impressione dovesse conoscerlo bene, forse intimamente,
“E anche una smodata
passione per le cause perse e le scemenze, se non ricordo
male” le aveva dato
credito lui; “Ovviamente, gli uomini con passioni moderate
non colgono qui i
loro fiori” aveva considerato Lues.
Lei aveva
spostato un telo rosso scarlatto, decorato con fili lucenti, che
descrivevano
ghirigori arricciati, rivelando un’alcova, dove un ragazzo
era seduto su un
piccolo trono di legno, con finte placcature d’oro. Era
giovane, non più
acerbo, ma neanche stagionato, ma quell’unica caratteristica
era l’unica
caratteristica degna di nota, tutto di lui rivelava l’aspetto
di un fioriano
comune, come ne esistevano mille altri al mondo. Un viso comune, con la
pelle
della stessa tonalità del seme d’avellana, con
capelli scuri che scendevano
arricciati su un viso tondo e comune, fino al collo. Aveva degli occhi
invitati, erano di una sfumatura castana, della stessa
tonalità della birra
rossa, grandi – forse erano un’altra
qualità notabile. Quando gli aveva veduti,
lui si era tirato immediatamente su, curioso, “Porta
quest’uomo nella Stanza
delle Vivace” si era raccomandata, perentoria, Lues.
Il ragazzo si era sollevato dal suo finto trono con un movimento di
melassa,
l’espressione annoiata che aveva avuto fino a quel momento si
era ridestata
dopo aver lanciato uno sguardo verso Saiji – per studiarlo.
“Posso restare lì?”
aveva chiesto poi, stavolta a Lues, “Se te lo chiederanno
sì, altrimenti porta
loro del vino e trova un altro modo per pagarti il tuo trono,
pelandrone” lo
aveva rimbrottato la donna, leggermente seccata, ma dopo aver
pronunciato
quella frase si era lanciata per tirare un bacio umido sulla guancia
del
ragazzo, quasi affettuoso, quasi materno. Il ragazzo l’aveva
guardata con finta
insofferenza, ma l’angolo delle sue labbra sollevato aveva
smascherato il suo
inganno.
Lues si era voltata verso Saiji facendo oscillare i lunghi capelli
mossi ed
aveva chinato il capo in una riverenza, “Obbligata Freor, ti
lascio alle man
gentili del mio amico” aveva dichiarato rispettosa; lui
l’aveva imitata con la
stessa educazione. Lues lo aveva guardato ancora, poi aveva detto
qualcosa in
eosiano, ma era stata veloce e la cacofonia del lupanare aveva oscurato
il suo
augurio – Saiji ne era certo – e poi si era
ritirata. Aveva udito solo poche
parole: marra, che voleva dire madre, e kytae,
che voleva dire
occhio. Che l’occhio della madre ti vegli? Divertiti ora
senza l’occhio della
madre?
Non ricordava i detti eosiani.
Il ragazzo
aveva osservato l’ancheggiare di Lues, fino a sparire tra gli
arazzi e le tende,
quasi in attesa che lei si voltasse ancora per dire altro.
“Ah, lei deve essere
la Lupa Capobranco” aveva valutato Saiji, “Di
solito non è un uomo a gestire un
Lupanare?” aveva chiesto. Anche se il nome del luogo esibiva
quello di una
donna, non era che un’usanza. “Una volta lo era, ma
il buon Fabren si è
mangiato un piatto di funghi” aveva detto il ragazzo. Un
nome irtoso!
“Tanti uomini muoiono così. Certi funghi sono
proprio maligni” aveva risposto
circostanziale Saiji. Il ragazzetto aveva riso, “Perfino il
Vecchio Imperatore”
aveva aggiunto, “Non che il buon Fabren fosse da paragonarsi
a lui, che
marciscano le sue radici con il Principio” aveva detto
seccato.
“Prima o dopo la Campale di Malvasia?” aveva
domandato Saiji. Sapeva che la
concezione degli uomini del Pregiatissimo Impero era cambiata verso gli
Irtosi,
dopo la battaglia. Il ragazzo aveva ridacchiato, “Tre Fredde
prima, mio
signore” aveva spiegato placido, “O rischiava di
essere appeso per le palle”.
“Lues deve essere comunque notevole per tenere in riga questo
luogo qui” aveva
considerato comunque Saiji più per riempire la
conversazione, mentre aspettava
che il giovane si decidesse a condurlo nella stanza della Vivace.
Quello aveva
annuito, “Più che una lupa capobranco, la mia
buona Lues, è un cacciatore”
aveva risposto con pigrezza.
Come la sua compagna di branco, anche lui indossava un non-abito, che
lascava
esposto il corpo. La pelle oliva, con il ventre snello ed il petto
piatto, su
cui spiccavano due margherite dai contorni lineare. Gli obliqui in
rilievo che
conducevano al pube, l’unica zona coperta da un drappo di
seta nera, che
scopriva le gambe toniche.
Il lupetto aveva riso divertito del suo sguardo, ma non aveva raggiunto
i suoi
occhi luccicanti. “Dai, ti faccio strada, mio
signore” aveva concesso il
giovane.
Ciò
che lo
aveva accolto nella Stanza della Vivace lo aveva lo aveva disorientato
non
poco.
Saiji si era aspettato un’orgia; corpi nudi intrecciati in
ogni dove, l’aria
impastata di sesso ed incensi, mescolata al puzzo del sudore e degli
oli troppo
floreali. Cascate di vino viola.
Si era aspettato nulla di diverso da ciò che aveva spiato
nelle altre camere
del Lupanare, ma era stato scortato in una stanza piuttosto tranquilla.
Qualche cuccioletto, tra donne e uomini, girava senza neanche i veli,
per
vezzeggiare gli uomini, per lo più i guerrieri, ma neanche
erano gnudi, più
interessati al cibo ricco del banchetto che all’invito de
sesso. Qualcuno di
tanto in tanto allungava una mano per tastare qualche corpo, ma
sembrava più un
manierismo, che una vera dichiarazione di intenti. Un uomo nerboruto
– Verbe,
se non ricordava male Saiji, con quei suoi occhi neri come quelli del
principio
– aveva invitato una donna ghaadiana chiara come il latte e
con indosso solo
una collana di anelli di ferro, a sedere sulle sue gambe. Lei si era
accomodata, sorreggendo un cesto di vimini intrecciato carico di uve,
che
passava con delicatezza sulle sue labbra.
Saiji
aveva schiuso le labbra, “Confesso, mi aspettavo
depravazione” aveva ammesso
alla fine. Il suo accompagnatore aveva riso, “Fino a qualche
Luna fa era
assolutamente la stanza più degenerata che poteva esistere.
Ma ora, i bollenti
animi hanno trovato la pace” aveva spiegato. Saiji si era
rivolto verso di lui,
osservando l’espressione che era sorta sul suo viso,
“Per questo vorresti
servire qui” aveva dichiarato. Il ragazzo si era fatto rigido
come la lama di
una spada e si era morso un labbro tinto di rosso, ma non aveva
risposto.
Come avrebbe potuto.
Era prerogativa per un Lupo di Baci mostrarsi sempre disponibile,
voglioso,
perché la fantasia rimanesse in piedi. A molti uomini
piaceva l’idea del
potere, dell’umiliazione, ma alla maggior parte piaceva
l’illusione di essere
amati. “Portami una coppa di vino caldo con del
miele” lo aveva salvato dall’impiccio
della verità, dandoli una moneta. Saiji non aveva aspettato
risposta, prima di
farsi spazio in quel tripudio di festa.
Non aveva
impiegato molto a ritrovare l’uomo che stava cercando. Era ad
un tavolo, imbandito
di così tanto cibo da gareggiare all’apparenza con
le cene al Bocciolo, anche
se immaginava dove fosse cinghiale e pernice, lì in quelle
tavole fossero pollo
e maiale; comunque, molto più di quanto avesse consumato lui
nelle ultime
decimane. L’uomo indossava una lunga camisia
di seta, drappeggiata di
stoffa in più lungo il bordo del collo allungato, che
esponeva le clavicole, così
come il petto villoso, come quello di taluni cani da caccia. Seduta
accanto a lui
c’era una donna dalla pelle scura, molto più di
qualsiasi eosiana avesse visto
in terra fioriana. I suoi occhi non erano leggermente allungati,
così come il
naso era più schiacciato, le sue palpebre erano tinte
d’oro e le sue labbra
viola ed i capelli erano una matassa di riccioli piccoli e voluminosi.
Di
qualunque luogo venisse, a qualsiasi popolo appartenesse, era una donna
bellissima.
L’uomo stava raccontando qualcosa di divertente alla donna,
doveva davvero
esserlo, perché la risata sembrava autentica.
“Saijir!
O
Saijir!” aveva sentito qualcuno strillare, aveva riconosciuto
chi lo aveva
chiamato prima ancora di voltarsi, pochi lo chiamavano con quel
diminutivo e
quella voce non gli era ignota. Si era voltato, senza bisogno di
cercare a
fondo il suo chiamatore. Era difficile non notarlo, lì, con
una lunga chioma
sottile di un bianco pungente, seduto ad un tavolo che stuzzicava
formaggio
erborinato, affiancato da un compagno che ronfava con il viso sul
tavolo.
“Zegros” aveva esclamato Saiji, erigendosi sopra il
chiacchiericcio,
raggiungendo il tavolo in questione. “Sieti e bevi con me
Ser. Il mio signore
comandante sta intrattenendo Jantibal” aveva detto
immediatamente Zegros, “Lei
adora ascoltare le sue storie”.
Saiji aveva sospettato che quando li fosse stato dato appuntamento alla
Serra
per l’uomo non avesse dovuto essere un posto casuale.
“Senza dimenticare, che
so quanto adori lui ascoltare il suono della sua stessa voce”
aveva aggiunto
senza malizia, Zegros non si era per nulla offeso.
[1]
Melanzana è un offesa al sangue eosiano, Cagliata a quello
ghaadiano (riferito
al fatto che è gente con la pelle pallida come il latte)
[2]
Luezhjana:
Na- Figlia; Luez-Fiume; Hja-Grande
[3]
Saijiorahavish:
ish – Più;
Saijior – Guerriero; ahav – coraggioso