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Autore: RLandH    22/03/2023    1 recensioni
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.

C'è un cavaliere, senza ne arte ne parte, che cerca uno scopo ed un mondo che non ha riguardi verso di lui o altre anime sfortunate. Circa.
Cosa può, d'altronde, un uomo contro Re, Signori e Principesse? Cosa può un uomo contro il Destino stesso?
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Confessione: Faccio schifo in topografia e sono andata particolarmente male all’esame di topografia medievale.

TW: utilizzo di droga, sintomi dell’astinenza, menzione di prostituzione.

 

P A R T E   P R I M A

L ‘ I N V I O L A B I L E

T I T O L O   I

I  G I O C A T O R I

C A P I T O L O     V

S E    T V   R E S T I   Q V I,  N O N  V R L E R O’

 

Iren respirava in maniera pesante, come se l’aria non riuscisse a filtrare bene, attraverso il suo naso e la sua bocca. Saiji aveva accarezzato la sua guancia e i capelli scuri, con più delicatezza di quanto non avesse mai fatto prima, non era avvezzo a quelle sdolcinerei. Aveva sposato con l’indice e medio il viso di Iren affinché affondasse di profilo sul guanciale, se avesse vomitato in quella posizione non si sarebbe strozzato.
Aveva guidato le mani di Iren sopra la sua testa corvina, aveva delicatamente incrociato i polsi, prima di cominciare a legarli insieme con una corda relativamente spessa, che aveva poi fermato contro la testata di legno del letto. Non voleva stringere troppo, così da ferire Iren, o complicare il libero scorrimento del sangue, ma aveva paura che se non avesse annodato bene, ci sarebbe stato il rischio che Iren riuscisse a sciogliersi dal fermo.
Sapeva che ormai il veleno del Latte d’Uccello era finito definitivamente, dopo la spossatezza – e la nausea – che lo avevano attraversato negli ultimi giorni, quello che avrebbe colpito Iren era l’ultima fase: la Sregolatezza. Il suo corpo avrebbe cominciato ad agognare senza controllo ne capacità di sopportazione il bisogno di procurarsi altro Latte. Iren si sarebbe agitato, si sarebbe divincolato, sarebbe stato simile ad una bestia, pur di uscire da quella stanza, da qualsiasi parte, per cercare il suo veleno.
E Saiji non sapeva come doveva comportarsi, solo grato che il suo amico avesse resistito a quel comportamento fino a che non erano giunti in città. Nella brughiera non ci sarebbe stato verso di contenerlo e la follia del bisogno avrebbe finito per ucciderlo, in qualche atto irrazionale. Doveva la loro fortuna ad un gruppo di zatteristi fiumani, da cui era riuscito a comprare una pasta rilassante che si spalmava sulle gengive o sul palato. Anche Saiji ne aveva avuto bisogno di un po’.

Saiji non credeva in nessun Dio e di sicuro in opere misteriose, ma doveva sicuramente essere stato un miracolo ad aver permesso loro di passare i dazi doganali di Città Azalea, con Iren che si reggeva sulla sua cavalla con la stessa stabilità di una banderuola al vento. Di per sé, era complicato per entrambi muoversi, Iren era un Figlio del destino, Benedetto, ma aveva il viso bianco come la neve dei ghaadiani, mentre nonostante i suoi capelli rossi, Saiji aveva l’aspetto eosiano di sua madre.
Il Pregiatissimo Impero dei Fiori aveva ereditato il nome dal Florido Impero di Istan, ma di sicuro non aveva ereditato la sua stessa varietà, nessuna erbaccia cresceva nel giardino dell’Imperatrice.  Le monete sonanti di solito zittivano quasi ogni pregiudizio, ma non quando uno di loro somigliava ad uno spirito-della-morte.
Il tuo amico non sembra stare molto bene.
Abbiamo perso il cavallo al Passo delle Pomacee, così siam passati per la foresta. Visto che è un ragazzetto di città, con le mani più morbide create da Iddio in persona, non s’è fidato delle mie parole, e quando mai, ed ha bevuto il succo delle bacche di agrifoglio.
Saij se l’era studiata bene, era una storia credibile. Si era mostrato quanto meno letterato potesse essere, facendosi passare per un servitore di Iren.
Le due guardie alla dogana lo avevano guardato, uno aveva scosso il capo, con sguardo poi comprensivo, consapevole, mi hanno fatto cagare sangue e vomitare così tanto che ho pensato ci sarei morto, una volta, aveva raccontato rammaricato, ma comprensivo.
L’altro commilitone aveva riso della pelle bianca macchiata di sudore di Iren, proprio un semidio, eh? La natura se è dimenticata che son perfetti, loro, evidentemente! Aveva detto solo poi, con leziosità. Era un bimbo sbagliato, non molto, aveva un viso ancora giovane, un naso dritto ed una mascella squadrata che faceva apparire il sorriso cattivo ma attraente.
Oh, sì, vomitano e puzzano esattamente come noi bestie! Aveva replicato calmo Saiji.
Si era aspettato una battuta sugli eosiani, di solito arrivava sempre, ma la guardia aveva riso. Evidentemente il senso di inadeguatezza che provava davanti ai figli preferiti di Dio, superava l’usale visione di supponenza che animava i fioriani verso gli estranei.

 

Il dolore aveva fatto sussultare Iren, Saiji aveva osservato le ciglia nere del suo amico, tremolare, nel tentativo di sollevare le palpebre, ma tutto ciò che era riuscito a percepire era stato lo spiraglio bianco della sclera, che era presto scomparsa di nuovo in un sonno serrato. Però era sveglio, non del tutto ma quasi, Iren aveva schiuso le labbra secchissime, aveva provato a mormorare qualcosa, con un tono così basso ed impastato, che Saiji non aveva compreso. Dubitava che qualcuno potesse comprenderlo.
“Non odiarmi, amico mio, lo faccio per il tuo bene” aveva detto, guardando quello che era rimasto del suo amico: una carcassa fievole, di carne bianca, distrutta. Anche se fosse stato bene, probabilmente non lo avrebbe portato ovunque, non sapeva come gestire Iren, non solo per ipotesi, ma per quello che il futuro riservava loro.
Iren aveva spergiurato che poteva gestire il Punteruolo, ma le parole erano scritte sull’acqua – diceva sempre suo padre. Aveva sentito una morsa al petto a quel pensiero.
La sua marra era una figura più semplice da gestire, non sapeva perché. Suo padre se n’era andato prima, più velocemente, in una cacofonia di urla e sangue.

Si era chinato ed aveva cominciato a slacciare i lacci degli stivali, a mezzo polpaccio, di Iren, per liberare anche i piedi, poi si era adoperato nel legare anche le caviglie ai piedi del letto. Il suo amico aveva provato un debole tentativo di ribellione, che era morto in un nodo leggermente stretto.
“Sopravviverai a questo. Te lo assicuro, sei un fottuto maniborbide, cresciuto tra i cuscini di piuma e seta, ma sei forte” lo aveva rassicurato Saiji mentre fermava con più decisione la fune alla tastiera infondo al letto. “Il tuo dio ti ha abbandonato nelle mani de Il Principio e delle mie e nessuno dei due è un maestro gentile” aveva considerato. Un suono era riverberato dalla gola di Iren, che somigliava terribilmente ad una risata, strozzata da un colpo di tosse.

Saiji avrebbe dovuto procurarsi del Latte d’Uccello, non poteva affrontare la depurazione di Iren con quello che dovevano passare. Iren aveva cercato di piegare una gamba per liberarsi dal nodo dalle caviglie. Era stato un tentativo fiacco, che era morto sul colpo, assieme al tremolio delle palpebre. “Non te ne andare” aveva bisbigliato Iren, stupendolo, il suo tono somigliava a qualcosa di terribilmente simile all’umano. Male, aveva realizzato Saiji, se la morte apparente stesse cominciando a passare, la sregolatezza sarebbe stata ormai prossima.
“Lo sai, che devo” aveva dichiarato Saiji, recuperando da una fasciatura di cotone da una delle sue bisacce di viaggio; “Adesso ti legherò la bocca, così non urlerai e non ci ritroveremo questa stanza invasa da persone … e non ti morderai neanche la lingua” aveva scherzato.
Iren si era forzato nell’aprire le palpebre, ma non c’era ancora riuscito, aveva sospirato, pesantemente, “No. Non urlerò” lo aveva rassicurato, “Se tu resti qui, non urlerò.”
Saiji era rimasto fermo, prima di rispondere: “Sarò qui perché sorga di nuovo l’alba. Ti porterò vino speziato e ti riporterò la pasta fritta con miele e noci, che ti piacciono tanto” aveva considerato, prima di recuperare l’unguentario di ceramica comune dalla sua bisaccia, lo aveva stappato ed aveva versato sul suo dito il rilassante dei fiumani, che aveva passato sulle gengive di Iren. Il suo amico non aveva opposto resistenza da quel punto di vista, lasciandosi drogare senza problemi. “Resta” aveva detto Iren, prima di sorridere, risentendo quasi subito degli effetti.
“Lo sai che non ho posso. Ho un impegno. Sto lavorando per noi” aveva detto frustrato Saiji, non voleva fare la conversazione che Iren, in stato di intorpidimento, voleva guidare, “Per la nostra cascina nelle terre ferriane”.
Non lo fai per noi, lo fai per te, perché non puoi smettere’ ed era vero, perché Saiji era quello che era e nulla di più. Ma Iren non lo aveva accusato di quello, dopo tutte quelle sorelle sapeva ancora come prenderlo in contropiede, “Adda sarebbe rimasta” aveva detto solamente, “Sì, Adda sarebbe rimasta” aveva detto Saiji, con la stessa sacralità di un dogma.
Da un lato credeva seriamente a quelle parole, ovviamente la ragazza sarebbe rimasta con Iren, vegliando con la stessa delicatezza di una madre, con le mani tra loro intrecciate, ma da un altro lato Saiji riconosceva la menzogna nelle sue parole: Adda non era rimasta.
Iren non aveva detto nulla a quella sua ammissione, “Se tutto dovesse andare per il meglio, forse rivedremo Adda presto” aveva considerato Saiji, sperando che i suoi amici volontisti non avessero deciso di far ballare loro due la danza degli impiccati per l’orribile peccato di essere ciò che erano: un Maniborbide ed un soldato, un bambino Benedetto e una pecora, un nobile ed un cordato.
A quell’ultima frase, Iren aveva arreso la sua resistenza, offrendo la fronte, il collo, per il pastrano, così che potesse legarlo, “Non vomiterai, vero?” aveva chiesto retorico, Iren si era sforzato di aprire gli occhi solo per poterlo guardare storto, o almeno una vaga imitazione di uno sguardo minaccioso.
Saiji aveva accarezzato con le nocche la curva morbida della guancia, ancora un po’ infantile e si era chinato facendo sfiorare con le labbra la fronte tonda di Iren. Era ancora sudato come un maiale ma non più freddo come la pietra, assomigliava ad un uomo. Le gote del suo amico si erano tinte di un rosso scarlatto, “Nessuna strana idea” lo aveva avvisato con una mezza risata.

 

Città Azalea era sorta dopo la caduta del Florido Impero, ma era vecchia quasi duemila-quattrocento Sorelle, nasceva dal palazzo signorile. Le prime case erano sorte a ridosso dell’antica cita di mura, di cui quei tempi resistevano solo vecchie porte. Di quei tempi il palazzo era protetto unicamente dal fossato e la città era circondata da mura alte e strette che circondavano la città pentacolare ed una muratura più spessa, vecchia, che inglobava il palazzo e le dimore più ricche e vecchie.
Altri borghi sorgevano appena fuori dalle cinta più esterna ed in futuro ne sarebbe nata probabilmente una terza. La città ospitava due piazze, quella principale con la Cattedrale cittadina e quella delle spezie e di viuzze di ogni genere che si estendevano i complicati intrecci urbani, come i fili di una matassa. Ben distante dall’ordine di Città Viola, che poteva vantare un centro-cittadino ereditato dall’assetto ordinato del Florido Impero.
Il luogo di cui aveva avuto necessità, era trovato su uno dei bracci più esterni e malfamati di Città Azalea, la Via del Piacere. La Serra della Signora Sarpia dei Mille Fiori era un lupanare di tutto rispetto, per quanto Saiji non trovasse quei luoghi di suo gusto, affiancato da tutti gli altri luoghi di perdizioni di Città Azalea, però spiccava tra gli altri edifici per cura, grandezza ed eleganza.
Era una casa di tolleranza di una certa raffinatezza, quel genere di posto dove Saiji non avrebbe avuto abbastanza monete neanche per indugiare, un po’ troppo, con lo sguardo, figurarsi poter pagare per la compagnia. Anche se, di rimando, Saiji non aveva mai particolarmente pensato di spendere la sua paga così – il vino era meglio e lo faceva sentire meno in colpa. Si era sempre tenuto lontano dai lupanari, da quella volta che Ser Moira lo aveva portato con l’intenzione di spiegargli il segreto peggio custodito del mondo.

Le pareti dell’edificio erano di un bianco lucido macchiato di venature azzurre, che sotto le luci delle lucerne, risultavano di un verde acquamarina. Le pareti non erano di vero marmo, ma grazie alla mano che le aveva dipinte lo potevano sembrare, specie con le luci soffuse della notte. La bellezza era accresciuta dalla presenza di ogni varietà di fiori e foglie, dai glicini, platani piangenti, pratoline e violette, che si alzavano in verticali, prima di intrecciarsi in forme geometriche, grazie ad un intricato sistema di pergolati in legno smaltato di bianco. Il portone principale, ampio e rispettabile come quello di una chiesa principale, era realizzato con ferro battuto con volute di foglie d’acanto e intessiture viminea. Costeggiato ai lati da due colonne posticce, che rovinano l’immagine di eleganza e bellezza.
Era l’epitome di quelle persone splendide, belle, vicine alla perfezione, ma non benedette.

C’era una guarda alla porta, vestiva in abiti civili, ma Saiji riconosceva lo scintillare del ferro scuro, sotto l’orlo della blusa – una maglia di bronzo ad anelli circolari. La postura dell’uomo era rivolta verso la strada trafficata, l’unica a quell’ora della città, ma gli occhi neri, attentissimi, non perdevano di vista nessuno degli uomini che passava sotto l’argo di bronzo decorato.
Saiji si era avvicinato all’ingresso con passo attento, passando una mano per cancellare le pieghe inesistenti del camiciotto blu notte che aveva indossato. Alla locanda, prima di legare Iren, si era lavato il corpo per liberarsi dell’odore della natura e dei cavalli, ma aveva potuto farlo solo con l’acqua fredda, non avendo avuto tempo di riscaldarla e con poche gocce di olio di lavanda. Era stata la figlia del locandiere, attirata da quell’area magnetica di Iren ad averla convinta a dare loro quell’ultima prelibatezza. La ragazza si era preoccupata di dare a Saiji anche un pettine d’osso, con cui lui aveva cercato di dare un ordine ai suoi riccioli indisciplinati, si era potuto fare poco per i suoi nodi, con acqua fredda ed olio di lavanda.  Aveva anche indossato i migliori vestiti che aveva con sé, non che fossero particolarmente belli o raffinati, se il suo sangue eosiano non lo avesse già messo troppo in evidenza, la blusa con i gomiti rovinati, decorato con ghirigori in filo azzurro a cui erano saltati diversi punti e pantacalze brune ancora macchiate di sangue.

La guardia lo aveva fermato prima che scivolasse come gli altri avventori. “Sei sicuro, mio signore, che questo luogo ti si addica?” aveva chiesto. Aveva occhi nerissimi nel buio della notte, un viso di rame, con una chioma folta nella parte alta della testa, tagliati appena sopra l’orecchio. Saiji aveva fatto scivolare nella sua mano una damigella peripsiana.
L’uomo aveva guardato le monete d’argento ed elletrio prima con confusione e poi realizzazione, “Credo di sì, buon uomo” aveva risposto Saiji. Sfoggiando un fascino che non aveva mai posseduto. La guardia si era infilato la moneta nella casacca, “Ed io che pensavo che tutte le melanzane eosiane fossero poveri rotti-in-culo” aveva considerato, con un sorriso svelto e cattivo. “Lavoro per qualcuno, infatti” aveva dissimulato Saiji, ottenendo il lascia-passare per il locale.
Aveva attraversato il corridoio all’ingresso, cupo e stretto, illuminato da lampade di cera, sistemate in lanterne di ferro, con figure nere, che si riflettevano nelle superficie. Il soffitto era a lunette di fritta blu su cui erano rappresentate stelle d’orate, incorniciate in cerchi smeraldi.
Non era solo lui presente nel corridoio, ma tutti, insieme si muovevano come una processione. Saiji aveva riconosciuto alcuni arazzi sconci, appesi alle pareti.
E poi, il corridoio lo aveva condotto in porticato pieno di statue, pieno di persone, che con colonne bianche, sottili, terminante in capitelli compositi, foglie d’acanto nella parte superiore e bestie ruggenti nell’inferiore, circondava uno splendido giardino.
Aveva attraversato il pavimento mosaicato, fino a raggiungere il cortile, sentendo sotto gli stivali la pressione diversa dell’erba fresca, lì, l’odore di fiori era così forte, da averlo lasciato spaesato, fumi d’incenso bianco si aprivano da bracieri posti ai quattro angoli. Esistevano panchine di marmo, cassettoni di sarcofagi – reliquie del Florido Impero – rovesciate, perché la parte piana fosse usata come seduta.
E lì, in quell’ambiente, corpi si intrecciavano tra loro, in una sinfonia di sospiri ed urli, pelli contro pelli, stoffe trasparenti e sudore.
E voglia.
Saiji era rimasto quasi incantato nell’osservare una coppia arpionata non lontano da lui, così stretti ed avvinghiati tra loro da sembrare un’unica bestia amorfa … e poi mentre si lasciava conturbare da quella visione aveva visto lei. Una donna, con un passo felpato come quello di uno spettro, ondeggiare verso di Saiji. “Buona sera, Freor” lo aveva chiamato suadente; aveva sentito un fischio nelle sue orecchie per l’idioma eosiano, non che la cosa avrebbe dovuto stupirlo, la donna stessa apparteneva alla stirpe delle genti oltre il mare.
Era una donna affascinante, ma non nascondeva in toto la sua età, la signora doveva era più adulta di quanto fosse Saiji, sulle centosessanta, forse centosettanta sorelle.
Aveva gli occhi leggermente allungati, dalla forma di mandorla, estesi in una riga dritta in tintura di galena grigia, accompagnati da palpebre in verde malachite e le guance omogenee con la polvere di agretto bruciata.
Come lui doveva essere una meticcia. La sua pelle era tannè, come quella degli eosiani purosangue, ma aveva le labbra sottili dei fioriani, così come un naso piccolo, era di statura minuta. Così come gli occhi, verdi come l’erba, troppo chiari ed inusuali per le calde terre oltre il mare, forse anche per le terre del pregiatissimo impero, addirittura poteva condividere con lui sangue ghaadiano o forse delle terre-della-fine-del-mondo. I capelli però erano eosiani, erano folti, scuri come legno d’acero, che scivolavano in onde morbide come l’acqua che si increspava sulle coste, portati sciolti come le fanciulle nubili; a Saiji aveva ricordato quelli della sua Marra.
Nonostante l’altezza non così elevata, il corpo della donna aveva la forma di una clessidra, accompagnato da curve morbide dei fianchi, dei sani pieni e dalle cosce carnose. Non era nuda, non completamente, non formalmente, il corpo era nascosto da un vestito di tulle acquamarina, che permetteva di scorgere ogni dettaglio del corpo.
Anche il fiore sul suo petto era visibile: tre fiori di ganzania, uniti da gambi sottili, con petali dai colori vibranti.
Se Saiji non fosse stato educato per l’interezza della sua vita a prestare attenzione ad ogni dettaglio – un errore, una dimenticanza e sarebbe stato cibo per i vermi – lo avrebbe definito un fiore benedetto, ma non era così. Il fiore della donna era quello di un bimbo sbagliato, ma era stato aggiustato, abbellito e migliorato da inchiostri umani: colori troppo finti per essere le delicate sfumature del pennello del Dio-di-tutte-le-cose-buone, così come i petali, troppo carichi di colore, quasi scintillanti.

I fiori erano naturali, macchie della pelle, non avevano sempre contorni precisi e ruggenti, non più di, nei, efelidi e macchie, nonostante la loro bellezza. Però il fiore della donna aveva troppe vistose perfezioni-imperfezioni umane. Probabilmente sotto la malachite e la polvere di agretto il viso avrebbe rivelato la sua umanità, forse nascosti dai capelli nerissimi, svettavano orecchie ingombranti. Sicuramente, la donna era quello che si soleva dire: non-lontana-dalla-perfezione.
Se Saiji avesse dovuto sbilanciarsi avrebbe detto che ambedue i suoi genitori dovevano essere benedetti, ma non anime condivise tra loro. Similmente a Saij, che aveva una madre figlia del destino ed un padre non-lontano-dalla-perfezione.

“Buona-luna, Sarra” le aveva detto ricambiando il vezzeggiativo famigliare, dopo aver perso troppo tempo a studiare il fiore. La donna non era stata turbata dai suoi occhi sul suo seno, probabilmente qualcosa a cui una lupa di baci doveva essere avvezza.
La donna aveva sorriso a quel vezzeggiativo; gli eosiani, o chi aveva solo una goccia di sangue di quel popolo, in terre lontane dalla patria, si appellava sempre così. Saiji conosceva a malapena l’eosiano, aveva imparato la versione imbastardita con il ghaadiano che sua madre parlava – e che Moria si era impegnato perché non parlasse più - e i loro costumi anche meno. Conosceva quello che la sua Marra le aveva insegnato, che nonostante professasse con orgoglio il suo sangue eosiano, era nata in Ghaadia e non aveva mai veduto Eos con i suoi occhi.

“Come posso servirti, Freor? Cosa cerchi? Quali desideri il tuo cuore vuole colmare?” aveva chiesto sensuale la donna, sfiorando con l’indice della sua mano la stoffa turchese della sua blusa, “Puoi cogliere qualsiasi fiore qui nella Serra” aveva aggiunto.
Così vicina, Saiji poteva sentire il suo odore, era intenso, ma non floreale, più vicino all’intenso. “Un uomo” aveva risposto lui.
L’espressione della donna non era cambiata di una virgola, gli occhi erano rimasti attenti ed il sorriso terribilmente educato, “Peccato per me” aveva scherzato, “Ma qui di certo non mancano, giovani, adulti, anche vecchi per certi gusti. Ghaatiani” – pronunciato con il suono del th che con la d – “con la pelle di fata, sussurranti con capelli d’oro, fioriani tulpee, fioriani istiani, fioriani boghiani per farla breve: ogni fiore del Pregiatissimo Impero. Oltre che ferriani di ogni tipo, eosiani come vedi, errantiani con l’occhio stretto, fiumani con campanelli alle caviglie ed anche kartissiani alti come giganti” lo aveva invitato, “E figli del Destino, i bambini benedetti” aveva aggiunto nel farlo si era fatta scivolare una mano sul suo stesso petto, dove appariva il suo fiore rifinito, poi con voce più dura aveva aggiunto: “Nessun fanciullo però e se tu lo volessi, questo non è luogo per te”.
Saiji aveva sorriso, “Se posso essere onesto, Sarra, cerco un uomo sbagliato, anzi più che sbagliato … e si maturo” aveva spiegato, un’espressione leggera di confusione si era aperto sul viso della donna, “Un uomo dannatamente lontano dalla perfezione; imponente, leggermente fiacco sul ventre, con orecchie grandi come amboni, denti gialli come girasoli e sopracciglia spesse come code di furetto, su una bella fronte spiovente” aveva spiegato con assoluta leziosità Saiji.
Lo sguardo leggermente confuso della lupa, si era presto arrestato, ma non aveva recuperato la grazia e compostezza che aveva ostentato fino a quel momento; sul suo viso invece di era dipinta un’espressione più genuina, così come il suo sorriso era stato più gentile. “Oh!” aveva esclamato, “Lei deve essere Ser Alderichi! Scarabocchio non mi aveva preparato a un mio Froer. Dal suo gentilizio mi aspettavano un ghaathiano con la pelle di cera e gli occhi blu come il mare delle sirene” aveva spiegato la donna. Saiji le aveva sorriso con più spontaneità anche lui, “Quello era mio padre, ghaadiano in tutto il suo splendore” aveva risposto, “Da lui che ho preso i capelli.”

Era strano: qualche luna prima aveva sognato la sua marra e neanche qualche ora passata aveva citato il suo vecchio – che mai lo era stato – e … realizzava fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che gli aveva pensati con così tanta intensità. Ricordava ancora i loro volti, non credeva avrebbe mai potuto dimenticarli, ma le loro voci, oh, quelle aveva cominciato a dimenticarle.
“Un bel coraggio ad averti dato il suo gentilizio, i ghaathiani sono gente bizzarra; qualcuno dice si sposino le loro cugine perché non possono scoparsi le sorelle” aveva commentato la donna, dedicandosi ad uno preconcetto terribilmente blando e circostanziale. Saiji aveva compreso quello che doveva essere il fine ultimo della donna: rassicurarsi che lui fosse davvero Saiji.
Non credeva che Scarabocchio non l’avesse preparata ad un mezzo-eosiano con un gentilizio ghaadiano, ma potevano esistere meticci, con una mistura sui capelli che sapevano fingersi figli di ghaadiani. “Era un It Ghaadiano, anche se non era l’uomo più devoto di questa terra, non lo era decisamente visto che in questa luna sono qui. Quando ha scoperto che mia madre era incinta, la ha sposata, mandando a Il Principio i suoi voti, i voleri della sua famiglia e quant’altro” aveva raccontato Saiji.
Non era la verità, non del tutto – ma era la storia che aveva raccontato a Scarabocchio durante la Sorella della Quisquiglia.
La donna lo aveva guardato, con attenzione, con quegli occhi troppo chiari sul viso, pareva rassicurata ma non soddisfatta, “E Ser lo sei davvero o è un inganno ben pensato?” aveva inquisito con leggera menzogna. “Ordinato cavaliere a settanta sorelle, decimana più, decimana meno, al pianoro delle mandorle, dal Duca Bergen Ramberra, vecchio signore di Querce Grandi” aveva raccontato e quella non era decisamente una menzogna, “Scarabocchio era con me.”
La donna aveva riso, con un gusto amaro, “Una melanzana cagliata[1], che combatte Cavalcatori Erranti al fianco di Fioriani” aveva raccontato, Saiji non aveva preso male il vezzeggiativo razzista, abituato a ben di peggio, “Nominato cavaliere da niente di meno che il padre dallo
Scintillante Generale. Trovo tutto questo sublime” aveva quasi squittito la donna.
Che strana reazione aveva pensato Saiji, “Siete la sola. Ser Moria pensava non avessi fatto abbastanza per tale titolo. Nessuno nel Pregiatissimo Impero gradisce che un meticcio possa avere un titolo, per quanto privo di pecunia quale quello di ser” aveva raccontato. “La Gloria, mio freor, è comunque notevole; è un passo, piccolo o grande, ma pur sempre un passo verso la prossima sorella” le aveva detto.
Saiji era rimasto perplesso da quella parola, non era sciocco, lo aveva sempre saputo che con quell’azione, più di una persona – Moria – aveva voluto leggerci qualcosa di più grande, nel bene e nel male, ma Saiji non era un vessillo né una fiaccola.
Il silenzio che si era creato, era stato rotto dalla donna, “Che maleducata che sono stata, Ser Alederichi. Io sono Luezhjana[2], ma le lingue annodate di questi fiorellini preferiscono chiamarmi: Lues” si era presentata. “Figlia del Grande Fiume” aveva pronunciato lui, quasi senza controllo.
Lei aveva sorriso, “Un antico nome tradizionale. Due delle più grandi regine di Eos lo hanno indossato” aveva ammesso, “Immagino che anche il suo nome Ser Alderichi, sia stato castrato per queste lingue di pietra” aveva ammesso.
Saii aveva annuito, “Saijiorahavish[3]; in effetti” aveva ammesso, “Il guerriero più coraggioso” aveva considerato Lues. “Il nome è eosiano, ma lo ha scelto quel cagliato di mio padre” aveva ammesso, anche quello era una verità.
Non sapeva perché, da bambino non aveva mai pensato di chiederlo e di quelle lune non gli era più consentito farlo. “Splendido nome, sì. Buon gusto, per un ghaathiano. Allora, abbiamo perso fin troppo tempo” aveva stabilito la donna, accompagnando quella frase, battendo anche le mani fra loro.
Saiji non si era aspettato quel repentino cambio di tono, né il ferreo movimento che ne era seguito. Lues le aveva preso la mano, scattante, ed aveva cominciato a condurlo, con passo bellico, quasi, verso il sentiero scolpito dalle colonne del portico, fino a svicolare in un ingresso, che conduceva ad un corridoio a forcipe, anche quello pieno di peccati e lussurie.
E poi in un'altra stanza, ed un’altra. Arazzi di ogni tipo, con posizione sessuali di ogni genere, uomini, donne, con uomini e donne, intrecciati in ogni modo.
Quasi, quasi, stuzzicanti anche per lui.
E poi, Lues lo aveva condotto in una ampia stanza absidata.
Saiji era sconvolto dalla Serra, non aveva compreso la dimensione originale di quell’edificio, sembrava una di quelle ville agresti che un tempo avevano occupato gli agri del florido impero, qualcosa fuori-tempo, fuori-luogo, fuori-tutto.

Appena messo piede in quell’ambiente, Saiji aveva dovuto abituare gli occhi all’ambiente più cupo. Sotto le stelle del portico, illuminato dai bracieri, aveva potuto godere di più luce, che in quella stanza angusta. Oltre il predominante buio, la stanza era accompagnata da veli d’incenso e fumi, che impregnavano non solo la vista ma anche l’olfatto. L’unica luce che era presente in quell’ambiente, era dato da candele con fiamme tremolanti, dedicando alla stanza un tono quasi mistico, religioso.

Ma se l’ambiente poteva ricordare una chiesa alle veglie notturne, nella Sorella Pallida, ciò che più richiamava a sé l’attenzione, era il coro di piacere, una cacofonia di voci, in un continuo crescendo. Uno spettacolo di dissolutezza, in toni che andavano dai sospiri sussurrati a voci acutissime. “Sai, spero, Saijiorahavish che Scarabocchio non ti stia mettendo nei guai. Per la legge non scritta della Madre Pietra dovrei cantare i lamenti per tre decimane per il sangue di un freor” aveva ricordato la donna, aveva lasciato la sua mano, ma aveva continuato a condurlo per un labirinto di tende, arazzi e bestie a più braccia. “Più il contrario” aveva ammesso lui. Lei si era arrestata, “In tal caso, spero tu non lo uccida, o in tal caso dovrei ammazzare te e fare i lamenti per entrambi” aveva considerato. Saiji era rimasto fermo, colpito, come da una secchiata d’acqua gelida, prima che Lues si lasciasse andare in una risata fresca, pregna di innocenza e dolcezza. Qualcosa che Saiji doveva ammettere: non aveva mai pensato di trovare in un lupanare. “Tranquillo, Freor, Scarabocchio ha il ferro al posto delle ossa” aveva aggiunto Lues, Saiji ebbe l’impressione dovesse conoscerlo bene, forse intimamente, “E anche una smodata passione per le cause perse e le scemenze, se non ricordo male” le aveva dato credito lui; “Ovviamente, gli uomini con passioni moderate non colgono qui i loro fiori” aveva considerato Lues.

Lei aveva spostato un telo rosso scarlatto, decorato con fili lucenti, che descrivevano ghirigori arricciati, rivelando un’alcova, dove un ragazzo era seduto su un piccolo trono di legno, con finte placcature d’oro. Era giovane, non più acerbo, ma neanche stagionato, ma quell’unica caratteristica era l’unica caratteristica degna di nota, tutto di lui rivelava l’aspetto di un fioriano comune, come ne esistevano mille altri al mondo. Un viso comune, con la pelle della stessa tonalità del seme d’avellana, con capelli scuri che scendevano arricciati su un viso tondo e comune, fino al collo. Aveva degli occhi invitati, erano di una sfumatura castana, della stessa tonalità della birra rossa, grandi – forse erano un’altra qualità notabile. Quando gli aveva veduti, lui si era tirato immediatamente su, curioso, “Porta quest’uomo nella Stanza delle Vivace” si era raccomandata, perentoria, Lues.
Il ragazzo si era sollevato dal suo finto trono con un movimento di melassa, l’espressione annoiata che aveva avuto fino a quel momento si era ridestata dopo aver lanciato uno sguardo verso Saiji – per studiarlo. “Posso restare lì?” aveva chiesto poi, stavolta a Lues, “Se te lo chiederanno sì, altrimenti porta loro del vino e trova un altro modo per pagarti il tuo trono, pelandrone” lo aveva rimbrottato la donna, leggermente seccata, ma dopo aver pronunciato quella frase si era lanciata per tirare un bacio umido sulla guancia del ragazzo, quasi affettuoso, quasi materno. Il ragazzo l’aveva guardata con finta insofferenza, ma l’angolo delle sue labbra sollevato aveva smascherato il suo inganno.
Lues si era voltata verso Saiji facendo oscillare i lunghi capelli mossi ed aveva chinato il capo in una riverenza, “Obbligata Freor, ti lascio alle man gentili del mio amico” aveva dichiarato rispettosa; lui l’aveva imitata con la stessa educazione. Lues lo aveva guardato ancora, poi aveva detto qualcosa in eosiano, ma era stata veloce e la cacofonia del lupanare aveva oscurato il suo augurio – Saiji ne era certo – e poi si era ritirata. Aveva udito solo poche parole: marra, che voleva dire madre, e kytae, che voleva dire occhio. Che l’occhio della madre ti vegli? Divertiti ora senza l’occhio della madre?
Non ricordava i detti eosiani.

Il ragazzo aveva osservato l’ancheggiare di Lues, fino a sparire tra gli arazzi e le tende, quasi in attesa che lei si voltasse ancora per dire altro. “Ah, lei deve essere la Lupa Capobranco” aveva valutato Saiji, “Di solito non è un uomo a gestire un Lupanare?” aveva chiesto. Anche se il nome del luogo esibiva quello di una donna, non era che un’usanza. “Una volta lo era, ma il buon Fabren si è mangiato un piatto di funghi” aveva detto il ragazzo. Un nome irtoso!
“Tanti uomini muoiono così. Certi funghi sono proprio maligni” aveva risposto circostanziale Saiji. Il ragazzetto aveva riso, “Perfino il Vecchio Imperatore” aveva aggiunto, “Non che il buon Fabren fosse da paragonarsi a lui, che marciscano le sue radici con il Principio” aveva detto seccato.
“Prima o dopo la Campale di Malvasia?” aveva domandato Saiji. Sapeva che la concezione degli uomini del Pregiatissimo Impero era cambiata verso gli Irtosi, dopo la battaglia. Il ragazzo aveva ridacchiato, “Tre Fredde prima, mio signore” aveva spiegato placido, “O rischiava di essere appeso per le palle”.
“Lues deve essere comunque notevole per tenere in riga questo luogo qui” aveva considerato comunque Saiji più per riempire la conversazione, mentre aspettava che il giovane si decidesse a condurlo nella stanza della Vivace. Quello aveva annuito, “Più che una lupa capobranco, la mia buona Lues, è un cacciatore” aveva risposto con pigrezza.
Come la sua compagna di branco, anche lui indossava un non-abito, che lascava esposto il corpo. La pelle oliva, con il ventre snello ed il petto piatto, su cui spiccavano due margherite dai contorni lineare. Gli obliqui in rilievo che conducevano al pube, l’unica zona coperta da un drappo di seta nera, che scopriva le gambe toniche.
Il lupetto aveva riso divertito del suo sguardo, ma non aveva raggiunto i suoi occhi luccicanti. “Dai, ti faccio strada, mio signore” aveva concesso il giovane.

 

Ciò che lo aveva accolto nella Stanza della Vivace lo aveva lo aveva disorientato non poco.
Saiji si era aspettato un’orgia; corpi nudi intrecciati in ogni dove, l’aria impastata di sesso ed incensi, mescolata al puzzo del sudore e degli oli troppo floreali. Cascate di vino viola.
Si era aspettato nulla di diverso da ciò che aveva spiato nelle altre camere del Lupanare, ma era stato scortato in una stanza piuttosto tranquilla.
Qualche cuccioletto, tra donne e uomini, girava senza neanche i veli, per vezzeggiare gli uomini, per lo più i guerrieri, ma neanche erano gnudi, più interessati al cibo ricco del banchetto che all’invito de sesso. Qualcuno di tanto in tanto allungava una mano per tastare qualche corpo, ma sembrava più un manierismo, che una vera dichiarazione di intenti. Un uomo nerboruto – Verbe, se non ricordava male Saiji, con quei suoi occhi neri come quelli del principio – aveva invitato una donna ghaadiana chiara come il latte e con indosso solo una collana di anelli di ferro, a sedere sulle sue gambe. Lei si era accomodata, sorreggendo un cesto di vimini intrecciato carico di uve, che passava con delicatezza sulle sue labbra.

Saiji aveva schiuso le labbra, “Confesso, mi aspettavo depravazione” aveva ammesso alla fine. Il suo accompagnatore aveva riso, “Fino a qualche Luna fa era assolutamente la stanza più degenerata che poteva esistere. Ma ora, i bollenti animi hanno trovato la pace” aveva spiegato. Saiji si era rivolto verso di lui, osservando l’espressione che era sorta sul suo viso, “Per questo vorresti servire qui” aveva dichiarato. Il ragazzo si era fatto rigido come la lama di una spada e si era morso un labbro tinto di rosso, ma non aveva risposto.
Come avrebbe potuto.
Era prerogativa per un Lupo di Baci mostrarsi sempre disponibile, voglioso, perché la fantasia rimanesse in piedi. A molti uomini piaceva l’idea del potere, dell’umiliazione, ma alla maggior parte piaceva l’illusione di essere amati. “Portami una coppa di vino caldo con del miele” lo aveva salvato dall’impiccio della verità, dandoli una moneta. Saiji non aveva aspettato risposta, prima di farsi spazio in quel tripudio di festa.

Non aveva impiegato molto a ritrovare l’uomo che stava cercando. Era ad un tavolo, imbandito di così tanto cibo da gareggiare all’apparenza con le cene al Bocciolo, anche se immaginava dove fosse cinghiale e pernice, lì in quelle tavole fossero pollo e maiale; comunque, molto più di quanto avesse consumato lui nelle ultime decimane. L’uomo indossava una lunga camisia di seta, drappeggiata di stoffa in più lungo il bordo del collo allungato, che esponeva le clavicole, così come il petto villoso, come quello di taluni cani da caccia. Seduta accanto a lui c’era una donna dalla pelle scura, molto più di qualsiasi eosiana avesse visto in terra fioriana. I suoi occhi non erano leggermente allungati, così come il naso era più schiacciato, le sue palpebre erano tinte d’oro e le sue labbra viola ed i capelli erano una matassa di riccioli piccoli e voluminosi. Di qualunque luogo venisse, a qualsiasi popolo appartenesse, era una donna bellissima.
L’uomo stava raccontando qualcosa di divertente alla donna, doveva davvero esserlo, perché la risata sembrava autentica.

“Saijir! O Saijir!” aveva sentito qualcuno strillare, aveva riconosciuto chi lo aveva chiamato prima ancora di voltarsi, pochi lo chiamavano con quel diminutivo e quella voce non gli era ignota. Si era voltato, senza bisogno di cercare a fondo il suo chiamatore. Era difficile non notarlo, lì, con una lunga chioma sottile di un bianco pungente, seduto ad un tavolo che stuzzicava formaggio erborinato, affiancato da un compagno che ronfava con il viso sul tavolo. “Zegros” aveva esclamato Saiji, erigendosi sopra il chiacchiericcio, raggiungendo il tavolo in questione. “Sieti e bevi con me Ser. Il mio signore comandante sta intrattenendo Jantibal” aveva detto immediatamente Zegros, “Lei adora ascoltare le sue storie”.
Saiji aveva sospettato che quando li fosse stato dato appuntamento alla Serra per l’uomo non avesse dovuto essere un posto casuale. “Senza dimenticare, che so quanto adori lui ascoltare il suono della sua stessa voce” aveva aggiunto senza malizia, Zegros non si era per nulla offeso.



[1] Melanzana è un offesa al sangue eosiano, Cagliata a quello ghaadiano (riferito al fatto che è gente con la pelle pallida come il latte)

[2] Luezhjana: Na- Figlia; Luez-Fiume; Hja-Grande

   
 
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