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Autore: Adeia Di Elferas    25/03/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Prospero Colonna aspettava l'inizio della battaglia con lo stesso fremente ardore che l'aveva animato da ragazzo, le prime volte che si trovava sul campo, la mano della spada pronta a vibrare il colpo, e le gambe paralizzate dalla paura.

Certo era che, rispetto a quando era un giovanotto, ora aveva sulle spalle l'esperienza di quasi cinquantun anni di vita, di cui molti passati in armatura. In più, in quella specifica occasione, era certo di aver preparato una bella sorpresa per i francesi. Mai come quel giorno si sentiva un alfiere orgoglioso del re di Spagna: i Borja volevano conquistare tutto con la forza bruta, schierando, anche quel giorno, un esercito che fosse imbattibile per numero di componenti, più che per le sue capacità... Ebbene, lui avrebbe dimostrato che un cervello agile valeva più di dieci braccia forzute, se veniva valorizzato.

Innanzitutto, lì a Cerignola, dove si sarebbe per certo tenuto lo scontro, dopo aver guadato l'Ofanto, Prospero aveva fatto scavare un fossato e poi erigere un terrapieno lungo tutta la linea spagnola. E proprio dietro di esso aveva posizionato la fanteria, mettendo al centro i lanzichenecchi, lasciando sulle ali gli imponenti contingenti di archibugieri e balestrieri, supportati dall'artiglieria leggera. La cavalleria pesante, infine, era posta come riserva. Piè di ottomila uomini erano pronti a eseguire senza indugio i suoi ordini e anche gli altri comandanti, come Consalvo di Cordoba o suo cugino Fabrizio Colonna, non aspettavano altro che fosse lui a guidarli alla vittoria.

L'attesa era sempre più palpabile, ma Prospero voleva cercare di stare calmo. Si aspettavano l'arrivo dei francesi da un momento all'altro e tutti i suoi uomini, già in posizione da tempo, sembravano trattenere tutti quanti il respiro. Perfino il cavallo del Colonna, una bestia di stazza ragguardevole e dal temperamento fumantino, era immobile come una statua, e se non fosse stato per le froge, che si aprivano ritmicamente ad annusare l'aria di quel 28 aprile, si sarebbe potuto dire che fosse un animale impagliato.

Quando arrivarono, i francesi lo fecero in modo chiassoso e scomposto. Prospero, che sapeva quanto peso avesse quella battaglia, non appena scorse il primo pennacchio d'Oltralpe, cominciò a dare ordini, con la voce ferma e con i tempi giusti, quasi che stesse orchestrando dei musici e non dei soldati.

La cavalleria francese, assieme agli svizzeri, partirono subito con una carica centrale, al cuore dell'esercito spagnolo. Il Colonna non trattenne un sorriso, quando li vide subito fiaccarsi e ritirarsi, per preparare la seconda carica. Era tutto come aveva immaginato. Era così semplice, da sembrargli quasi un gioco.

Anche in quel secondo assalto, l'artiglieria posta sui fianchi, vanificò lo slancio francese. Fu il Duca di Nemours, Luois d'Armagnac, a capire che di quel passo sarebbe stato inutile continuare a caricare.

Guidando in prima persona i suoi uomini, si mosse lateralmente, riuscendo, per un breve istante, a togliere perfino il sorriso dalle labbra di Prospero. Fu solo un istante, appunto, perché appena i francesi impattarono con il fianco destro delle truppe spagnole, gli archibugieri iniziarono a far fuoco, riuscendo laddove la più grossolana artiglieria sarebbe fallita.

Il Colonna seguiva, sull'altura di Cerignola, a una certa distanza, ma pronto a intervenire, la battaglia, cercando di continuo con lo sguardo la vistosa armatura dell'Armagnac. Sapeva che se fosse caduto lui, buona parte dei francesi si sarebbe scompaginata in fretta.

“Che succede?” chiese Fabrizio Colonna, al cugino, che ancora strizzava gli occhi, per distinguere qualcosa tra la polvere sollevata dai combattimenti.

A far nascere la sua domanda era stata una serie di grida anomale che arrivavano dal fossato in cui si stava guerreggiando. Era qualcosa di scomposto, di diverso dal consueto fervore bellico che si vedeva in battaglia...

“Eccolo!” esclamò questi, facendo sobbalzare il cugino: “Eccolo! L'hanno preso!” gridò, entusiasta.

Aveva fatto appena in tempo a vedere il Duca di Nemours contorcersi e cadere da cavallo, per sparire poi in mezzo alla confusione e alla polvere. Nel momento stesso in cui il francese era caduto, tra le sue file si era scatenato il panico. Uomini scappavano, altri si arrendevano, altri ancora mulinavano la spada disperati, convinti di essere a un passo dalla fine.

Il Capitano degli svizzeri cercò di ricompattare le file, ma ormai la confusione era impossibile da arginare. Trattenuti dal fossato, privati del nemico, che aveva lasciato quella gola artificiale, per lasciare libero sfogo all'artiglieria e agli archibugieri, gli elvetici poterono solo annaspare sul posto, per poi vedere anche il loro diretto comandante cadere morto, crivellato di colpi.

“Adesso!” ululò Prospero, calandosi la celata sugli occhi e alzando la spada, cogliendo quasi di sorpresa perfino il cugino, ma non i suoi fanti.

Le file di uomini scelti correvano tutt'attorno a lui, dando la carica ai nemici già sfiancati e decimati. I francesi, così come gli svizzeri, ruppero subito quel che restava delle loro righe, e scapparono in ogni dove.

Finalmente era il turno anche del Colonna di darsi da fare. Dopo aver dato ordine di saccheggiare i corpi dei vinti e di prendere prigionieri tutti gli stranieri che sarebbero stati trovati ancora vivi, partì al galoppo, seguito da una ristretta cerchia di cavalieri suoi fedeli.

Rincorse la colonna più consistente di francesi fuggitivi per almeno sei miglia, catturando prigionieri e uccidendo i più animosi. Non volle però fermarsi. La giornata era sua, anzi, era stata sua nel giro di nemmeno mezz'ora.

Era cosciente che la sua fosse stata non solo una vittoria degna delle più grandi onorificenze possibili, ma anche una vittoria che avrebbe consegnato di nuovo il sud saldamente nelle mani del re di Spagna. Dopo la vittoria a Seminara, quella battaglia a Cerignola sanciva la fine dei francesi nel regno napoletano e, sperava Prospero, di quello dei Borja nel sud dell'Italia. Con un po' di fortuna e se il re spagnolo avesse dato sempre il suo appoggio, gli italiani come lui e come gli Orsini – l'odio per il Valentino avrebbe di certo saputo riunire perfino due famiglie storicamente rivali come le loro – avrebbero potuto riprendere forza e stringere il cerchio attorno al Vaticano, soffocando Alessandro VI, suo figlio e tutti quelli che da loro dipendevano e prendevano forza.

“Torniamo indietro?” chiese il suo attendente, quando fu sicuro che di francesi da inseguire non ne fosse rimasto nemmeno uno.

“Andiamo al loro campo.” decise repentinamente Prospero: “Questa notte voglio dormire nel letto di un francese!”

Detto fatto, la cavalleria, guidata dal Colonna, irruppe nel campo francese, ormai a breve distanza da loro. Trovarono solo poche guardie, i cucinieri, qualche sbandato che stava al seguito delle truppe, varie donne di malaffare e una buona provvista di cibo e vino.

Prospero attese paziente le notizie da Cerignola. Si erano contati i morti e i feriti e fu immensamente felice di sapere che se da parte spagnola i morti erano stati solo un centinaio, da parte francese erano stati circa quattromila. Tra i caduti nemici si annoverano grandi nomi, oltre all'Armagnac: Chandée, Guiffray, Clermont, Chevannes, Cacciavillano Dal Corno, Roult, Jahn, Maubranches, La Cousture... Si diceva anche che tra i feriti ci fosse Antonello Sanseverino...

I prigionieri, invece, si aggiravano intorno ai seicento uomini.

Tra gli spagnoli non era caduto nemmeno un comandante.

Quella notte, sfinito dalla battaglia brevissima, ma intensa, e raddolcito dal vino conquistato, da un paio di meretrici e da cibo a sazietà, Prospero Colonna trovò il riposo nel letto – un letto vero, malgrado fosse in una tenda da campo – del defunto Duca di Nemours, il povero Louis d'Armagnac che, con la sua tragica fine, aveva dato inizio a una fine di dimensioni ben più colossali: quella del dominio francese in Italia.

 

Lorenzo aveva fatto fatica a tornare a palazzo Medici, quel giorno. Il sole di inizio maggio era abbacinante, lo aveva accecato e gli aveva quasi dato la nausea. Il caldo gli sembrava soffocante e la polvere che si alzava dalla via Larga, mentre passavano uomini e cavalli, gli aveva riempito i polmoni, facendolo tossire.

Nel momento in cui aveva varcato il portone di casa, trovandosi nel cortile interno, aveva avuto un momento di incertezza. Si era chiesto se fosse mattina o pomeriggio e poi, con un grande smarrimento, si era ritrovato a chiedersi perfino se quella fosse o meno la sua dimora.

Massaggiandosi la fronte, che gli doleva in modo particolare, occhieggiò verso un servo che gli si avvicinava. Sapeva di conoscerlo, ma non avrebbe saputo dire il nome. Quando quello gli chiese se stesse bene, il Popolano agitò con forza la mano e poi farfugliò qualcosa che lui per primo non comprese.

Con la bocca secca e le gambe incerte, il Medici trovò, al secondo tentativo, la strada per arrivare a una delle sale più vicine. Si sedette sul primo scranno che trovò e si prese la testa tra le mani. Stava sudando freddo e ogni fibra del suo corpo era attraversata da un leggero tremito.

Chiuse con forza gli occhi, ripiegandosi ancor più su se stesso e poi, così com'era venuta, la nebbia parve diradarsi di colpo. Sapeva di essere a casa sua. Sapeva che era lunedì. Sapeva che era mattina.

Si stropicciò il volto, che negli anni – specie negli ultimi mesi – si era fatto smunto e pallido, e poi fece un paio di profondi sospiri. Stava tornando tutto quanto, i discorsi sentiti alla Signoria, riguardo le ultime pesanti sconfitte francesi a Seminara e Cerignola, che avevano de facto restituito il sud Italia agli spagnoli, e riguardo la fuga dell'Alègre da Capua, uno degli ultimi capisaldi di re Luigi al sud. Gli tornarono in mente anche le battutine strane e cattive che aveva sentito fare, che lo vedevano come protagonista negativo.

Sapeva che Firenze lo vedeva come l'uomo che li aveva portati a legarsi tutti quanti a filo doppio con il papa e, a un tempo, con la Francia. Sapeva che presto, in caduta libera com'era, qualcuno avrebbe formalizzato un'accusa di tradimento nei suoi confronti.

Sempre che qualcuno non l'avesse già fatto... I suoi legali, quel giorno, all'alba, gli avevano fatto cenno a qualcosa, ma lui era stato troppo, troppo, davvero troppo concentrato sul resto del discorso, che riguardava quella sgualdrina di Caterina Sforza, per far caso a eventuali processi a carico per tradimento della Patria.

Sventolandosi con la mano, colto da un grande caldo, Lorenzo borbottò tra sé qualche ingiuria, pensando che, se mai la Repubblica avesse preteso la sua testa, la colpa sarebbe stata sempre e solo di quella donnaccia che un tempo era stata una Contessa e che era stata in grado di stregare suo fratello Giovanni, costringendolo a sposarla e cacciando tutti loro in quell'immenso guaio...

Il Popolano si alzò, a fatica, desideroso di aria. La testa stava tornando a fargli un gran male e aveva la sensazione di vederci male, come se i suoi occhi avessero davanti una lente deformante che rendeva il mondo incomprensibile.

I suoi avvocati gli avevano detto molto chiaramente, proprio quel giorno, che la Tigre di Forlì stava vincendo o, forse, aveva addirittura già vinto il loro contenzioso. Avrebbe avuto il bambino e, con lui, avrebbe avuto tutti gli immobili di Giovanni e i soldi... I soldi... Quali soldi, si chiedeva Lorenzo.

Aveva già speso tutto quello che restava dell'eredità di Giovanni per pagarsi le spese legali... E la dote di sua figlia Laudomia, che si era sposata da qualche mese... E poi aveva avuto tante altre spese da fare... Quei soldi, in fondo, erano anche suoi... Aveva passato la sua infanzia e la sua giovinezza a curarsi di quel fratello più piccolo, lo stesso fratello che, nascendo, gli aveva strappato per sempre l'amata madre...

Il Medici ormai barcollava, ma non se ne rendeva conto. Vedeva delle figure indistinte in fondo a una sorta di canale oscuro e riconobbe a stento la voce di Semiramide che chiamava il suo nome.

L'Appiani, che era intenta a parlare col figlio Pierfrancesco, vedendo il marito camminare in modo incerto, con gli occhi bovini persi e la bocca aperta, incrinata da un lato, non poté soffocare un moto di sincera preoccupazione, chiamandolo per nome e andandogli incontro.

L'uomo provò a dire qualche parola, cercando di sottrarsi alle braccia della moglie, che lo sorreggevano, impedendogli, di fatto, di cadere in terra.

Semiramide era spaventata a morte. Aveva visto, a volte, Lorenzo farsi confuso e incerto, ma adesso qualcosa era cambiato. Stava accadendo qualcosa di molto grave e non sapeva come impedirlo.

“Chiama qualcuno!” gridò la donna, rivolgendosi al figlio che, invece, restava in disparte, muto spettatore, in attesa, forse, che il padre morisse davanti ai suoi occhi: “Manda qualcuno a chiamare un medico! Fai venire anche il prete! Corri!”

Pierfrancesco, seppur intimamente riluttante, vergognandosi del proprio desiderio di lasciare il Popolano al proprio destino, per amor della madre volle obbedire e, senza farsi ripetere l'ordine, si mise a correre, per cercare l'aiuto che la madre richiedeva.

Senza preavviso, Lorenzo ebbe uno spasmo violento e vomitò quel poco che aveva nello stomaco.

L'Appiani si accorse in quel momento, mentre cercava di sorreggerlo, di quanto fosse sudato e sconvolto. Anche quando il secondo rigurgito le sporcò l'abito, la donna non si mosse, continuando a chiamare il marito, sperando di riportarlo a uno stato di coscienza accettabile.

L'uomo, invece, riversava gli occhi e digrignava i denti, sempre più distante, sempre più incosciente.

Quando finalmente Pierfrancesco tornò con al seguito due serve e un medico, il Medici era in terra, la moglie accanto in lacrime. Era ancora vivo, ma, nonostante gli occhi aperti e un flebile movimento della mano, fu subito chiaro a tutti che non potesse né vedere né sentire nessuno di quelli che gli stavano attorno.

 

Malgrado le iniziali perplessità del De Marzi, Caterina aveva chiesto e ottenuto il permesso di affilare personalmente i coltelli della cucina.

Non le interessava nulla, in realtà, di quegli attrezzi in quanto tali, anzi, se le cuoche che Lorenzo le aveva affibbiato avessero fatto fatica a tagliare carne e verdure per cucinare, poteva solo dirsene felice, ma aveva il disperato bisogno di tenersi occupata. Quel movimento lento e cadenzato le ricordava, seppur in piccolo, ciò che aveva fatto per anni nella sua rocca, facendo il filo alle spade, nell'armeria di Ravaldino.

Aveva schivato per tutto il giorno i suoi figli, non aveva voglia di occuparsi di Pier Maria, aveva evitato di trovarsi sola con frate Lauro, per paura che volesse intraprendere di nuovo qualche dialogo impegnativo, e Fortunati era di nuovo a Firenze e non si sapeva quando sarebbe tornato.

La noia, o meglio, il senso di inutile attesa che aveva attanagliato la Leonessa l'aveva portata a cercare ancor di più l'isolamento, ma, soprattutto, un impegno manuale.

Era ormai quasi sera, e stava aspettando che il personale della cucina arrivasse a scacciarla, per riappropriarsi di pentole e pentoloni per cucinare la cena. Aveva già affilato tutti i coltelli, le due mannaie e perfino la scure, quando, china sulle lame più piccole – e non veramente meritevoli di una ripassata – che sentì dei passi che ben conosceva arrivare in cucina.

“Potevi avvisarmi, che saresti tornato oggi...” fece la donna, senza nemmeno sollevare lo sguardo verso Francesco: “Non che mi cambi qualcosa, ma almeno avrei avuto qualcosa da fare: aspettarti.”

Il piovano non ribatté, se non con un lento sospiro. Portava con sé l'odore particolare di una giornata di sole passata all'aperto, un aroma che Caterina aveva quasi dimenticato. Lo spesso mantello da viaggio che l'uomo portava, malgrado il caldo, era impolverato, senza che, malgrado le sue abitudini tranquille, il fiorentino avesse corso, per tornare alla villa.

“Cos'è successo?” chiese, iniziando a preoccuparsi, la Tigre.

Fortunati si sedette davanti a lei, mettendo le mani sul tavolo e guardando il legno, un sopracciglio alzato.

“Avanti...” fece lei, mettendo da parte i coltelli e facendosi impaziente: “Hai corso fin qui per riferirmi qualcosa, e adesso stai zitto? Parla o giuro che...”

“Lorenzo è stato male.” rispose l'uomo, che stava solo cercando le parole più adatte per rendere chiara la situazione: “Non è successo oggi, ma almeno un paio di giorni fa. Dicono che ora sia confinato a letto, senza poter né muoversi né parlare... Dicono che sia grave e che potrebbe morire da un momento all'altro.”

La Leonessa, nel sentire quelle parole, fu attraversata da una serie infinita di emozioni violentissime e contrastanti. Da un lato era entusiasta di quella notizia. Se, anzi, Lorenzo fosse proprio morto, la sarebbe stata ancor di più. Dall'altro avvertiva una profonda tristezza, quasi un dolore, al pensiero che quel Lorenzo, lo stesso Lorenzo che le aveva fatto guerra, fosse l'amato fratello di Giovanni. Da un lato si sentiva ripagata dal fato, come se quel malore fosse la prova certificata della sua ragione, del torto del cognato... Ma dall'altro si sentiva in colpa per essere stata la causa involontaria dell'allontanamento tra Giovanni e Lorenzo.

“Non so cosa dire.” ammise la Sforza.

“Possiamo andare un attimo in camera tua e parlarne?” chiese il piovano, visibilmente stremato.

Solo in quel momento la milanese si rese conto di un fatto semplice, ma a cui avrebbe dovuto pensare da tempo: Lorenzo, così come lo era stato Giovanni, era stato amico di Fortunati, in gioventù. Anche se poi la vita li aveva messi – per colpa di Caterina – su due fronti opposti, era evidente che Francesco provasse ancora un barlume d'affetto per il Medici.

“Sì, andiamo in camera mia e parliamone.” accettò subito la donna.

Arrivati in stanza, il piovano si tolse il mantello e il giubbone nero, e poi, dopo essersi sciacquato il volto usando la toeletta di Caterina, come faceva spesso, si andò a sedere sul letto accanto a lei. Le spiegò meglio del malore, di come la notizia fosse trapelata a fatica fuori da palazzo Medici, di quando Laudomia fosse disperata e di quanto, invece, si diceva che il giovane Pierfrancesco fosse sì attonito, ma ben poco addolorato per la sorte del padre.

Discussero un momento delle possibili cause di quella malattia improvvisa, e poi passarono a discutere della sorte del processo.

“Ormai la vittoria era tua comunque.” soppesò Francesco, che sembrava essersi ripreso un po': “E se Semiramide è la donna che ricordo che fosse, non insisterà oltre.”

Caterina, in uno slancio, prese la mano del fiorentino e sussurrò: “Dimentico sempre che un tempo erano tuoi amici.”

“Un tempo, hai detto bene.” sorrise triste lui: “Poi le cose sono cambiate...”

“Da quando Giovanni mi ha sposata e Lorenzo ha cominciato ad accusarmi di essere solo una meretrice capace di irretire gli uomini con le mie pozioni.” riassunse la Sforza, sostenuta.

“Volendo spezzare una lancia in favore di Lorenzo – provò a dire il piovano, molto cauto – non era facile accettare che tu fossi la moglie di Giovanni... Avevi una certa nomina, eri appena uscita da un episodio tremendo che in Italia aveva fatto parlare moltissimo...”

Nel sentir rivangare quel momento della sua vita, la Tigre faticò a trattenere le lacrime e a moderare la voce, nel dire: “C'è anche da dire che se Lorenzo avesse amato davvero suo fratello, lo avrebbe anche stimato abbastanza da crederlo capace di capire un eventuale inganno... Avrebbe dovuto fidarsi del suo giudizio, non trincerarsi dietro le sue posizioni senza voler sentir ragioni...”

“Magari lo amava così tanto da temere che stesse commettendo un errore e basta...” provò a ragionare Francesco.

La Leonessa avrebbe voluto ribattere con durezza, ma pensò a quando lei stessa aveva commesso o rischiato di commettere lo stesso errore e così sussurrò solo: “Può essere.”

“Comunque sia – riprese l'uomo, deciso a non sollevare il Medici da tutte le sue colpe – è stato lui il primo a chiudere i ponti con Giovanni, non il contrario.”

Ancora una volta la Sforza avrebbe voluto contraddirlo, facendo presente che, purtroppo, non era del tutto vero, dato che Giovanni l'aveva sposata senza consultarsi con il fratello, senza, anzi, farglielo nemmeno sapere, in un primo momento. Alla fine, però, tacque e basta.

“Comunque, mi terranno informato su come evolverà la cosa.” concluse il piovano: “Anche Lucrezia, che è sua cugina, avrà presto notizie fresche e ce le farà avere senza indugio.”

Nel sentire citare la Medici, la Tigre fece un'espressione strana, a metà strada tra l'indifferenza e lo scetticismo, ma non si espresse né in un senso né nell'altro.

Il resto della serata passò tranquillo, così come la cena, ma se il piovano era riuscito visibilmente a calmarsi, altrettanto non si poteva dire della Sforza. Pur senza esprimere ciò che le si agitava nel petto, la donna non fece altro, per tutto il tempo, che pensare al cognato agonizzante – così le era stato, in fondo, descritto – a letto, e nella sua mente quell'immagine andava a sovrapporsi senza soluzione di continuità a quella di un Giovanni appena trentenne che si spegneva pian piano, in un modo forse in parte simile.

Scesa la notte, Caterina aspettava che Fortunati la raggiungesse in camera, e l'uomo non la deluse.

Come sempre, dopo aver scambiato qualche parola e aver letto qualcosa, su iniziativa della Leonessa, i due cominciarono ad avvicinarsi. Però, più cercava le labbra di Francesco, più la milanese ricordava quelle di Giovanni e, come se ci fosse un nesso logico imperscrutabile, a quelle di Giacomo.

La figura, sempre viva nella sua memoria, del suo secondo marito, la trafisse in pieno, come una stilettata. Improvvisamente le mani del fiorentino sui fianchi le davano fastidio, e così i suoi baci e ancor di più la presenza fisica del suo corpo, il suo calore, il suo odore...

Proprio mentre il piovano, ignaro del processo mentale inesorabile che era scattato in Caterina, provò a farsi avanti in modo deciso, ella scosse il capo e, sottraendosi in modo plateale, disse un semplice, ma secco: “No.”

Stordito, ma volendo subito imputare quell'inattesa ritrosia alle emozioni confuse scatenate dalla notizia dell'infermità di Lorenzo, Fortunati rimase immobile, senza provare a trattenerla, mentre lei si alzava e gli voltava le spalle. Senza dire nulla, non volendo rispondere a domande scomode, la Leonessa si infilò i calzari e una vestaglia da notte e uscì dalla stanza.

Camminò nel buio quasi perfetto della villa per un po', finché, attirata da una luce fioca, andò nella sala delle letture. C'erano un paio di candele accese, probabilmente dimenticate da qualcuno dei suoi figli, ma a una prima occhiata la sala sembrava deserta.

La Tigre aveva gli occhi velati di lacrime, quindi la sua visione non era perfetta, ma era troppo stanca per controllare anche dietro la scaffalatura centrale. Senza forze, sentendosi ora anche in colpa verso Francesco, a cui imponeva il suo carattere scostante e le sue reazioni difficili da capire, la donna iniziò a piangere in silenzio, il capo chino, tra le mani.

Non riusciva a strapparsi di dosso il ricordo di Giacomo che, in fondo, era morto solo da nemmeno otto anni, benché le sembrasse passata una vita intera. E con lui tornavano tutti gli altri: Giovanni, Manfredi, perfino Pirovano, che non era morto, ma l'aveva tradita, diventando per lei solo un altro fantasma da inseguire... E finiva a pensare a Lorenzo, un uomo che aveva odiato senza conoscerlo, che aveva visto pochi volte e di cui ricordava a stento i tratti del volto.

Dopo quella che le parve un'eternità, la Sforza riuscì a smettere di piangere e raddrizzò le spalle. Si pulì il naso nella manica della vestaglia, e lo stesso fece con le guance. Respirò a fondo un apio di volte, chiedendosi se tornare o meno da Fortunati e mostrarsi in quello stato pietoso.

Nel silenzio tombale della notte, la milanese sentì un rumore appena percettibile, che arrivava da dietro lo scaffale di legno centrale: “Chi c'è?” chiese, quasi spaventata.

Sforzino, che era stato lì per tutto il tempo, sentendosi scoperto uscì lentamente dal suo nascondiglio e, abbassando lo sguardo tanto da far risaltare il suo doppio mento, si scusò dicendo mesto: “Non volevo disturbarvi... Mi ero alzato per prendere questo – sollevò appena un volumetto che teneva in mano – e siete entrata...”

Caterina non sapeva se sentirsi furiosa con il figlio che non si era annunciato per tempo, o grata per la sua presenza, che andava in parte a lenire la solitudine immensa che provava in quel momento.

“Avvicinati.” gli disse, alla fine, restando seduta dov'era, ma allungano un braccio verso di lui.

Il ragazzino, incerto, fece come gli era stato detto e quasi sobbalzò, quando la madre, appena l'ebbe abbastanza vicino, gli prese una delle mani grassotte e la strinse, con trasporto.

Deglutendo, il Riario provò a dire: “Anche io a volte sono triste...”

La Tigre lo guardò a lungo, valutando come, con quella luce fioca, Sforzino sembrasse ancora un bambino, malgrado avesse quasi sedici anni. Quando si metteva a parlare di Santi e di teologia, sembrava già un dotto, un uomo di Chiesa, ma quella notte per la Sforza era solo uno dei suoi cuccioli, il più trascurato, quello che non aveva mai cercato di conoscere davvero...

Il Riario stava per aggiungere qualcosa, ma non appena schiuse le labbra, la madre si alzò e sospirò: “Scusami ora... Ora è meglio che vada a riposare.”

“Certo...” annuì lui, un po' deluso: “Ora... Io mi rimetto a leggere.”

Entrambi avrebbero voluto non far cadere in quel modo il discorso, ma nessuno dei due trovò il coraggio di dire alcunché, tanto poca era la confidenza che si era creata tra loro negli anni.

A passo lento, continuando a tamponarsi gli occhi, nella speranza di farli sembrare un po' meno gonfi, la Tigre tornò in camera sua. Non sapeva di preciso quanto tempo fosse stata via, ma era certa che vi avrebbe trovato ancora Francesco.

Infatti lo trovò, ma non a letto assopito, come se l'era immaginato: l'uomo aveva liberato l'inginocchiatoio dagli abiti e dalle cianfrusaglie con cui di norma la Leonessa lo ricopriva, e vi si era sistemato per pregare.

Ancora con le mani giunte, nel sentirla rientrare, si voltò verso la porta e la squadrò per un breve istante. Di certo aveva capito subito che aveva pianto e così, forse solo per gentilezza, distolse subito lo sguardo e tornò a fissare il crocifisso appeso alla parete.

“Perdonami... Non volevo disturbarti.” sussurrò lei, restando vicino alla porta: “Forse... Vado a dormire in un'altra stanza, tanto questa villa è enorme e l'abitiamo solo in piccola parte...”

Il fiorentino scosse il capo, si fece il segno della croce e poi lasciò l'inginocchiatoio: “No, ti prego, resta. Mi ero messo a pregare solo perché non riuscivo a dormire...”

“Pregavi per Lorenzo o pregavi affinché tornassi da te più ben disposta di quanto non sia stata prima?” domandò Caterina.

Francesco non capiva se stesse cercando di scherzare o se fosse seria, così preferì non sorridere, ma parlare in modo diretto: “Non pretendo di sapere cosa ti faccia stare tanto male, stanotte. So che hai molte ferite e...” si morse il labbro e concluse: “Se vuoi stare da sola, lo capisco e lo rispetto. Sono io che devo andarmene a dormire di là, in camera mia, non certo tu...”

Detto ciò, l'uomo mosse un paio di passi decisi verso la porta, fino a trovarsi proprio al fianco della sua amante. Questa da un lato avrebbe voluto lasciarlo andare e passare davvero la notte da sola, a piangere ancora, a ripensare ai suoi fantasmi e a spaventarsi nel ragionare sul suo presente e sul suo futuro. D'altro canto, però, il fuoco che in quelle settimane aveva continuato a covare sotto la cenere senza sosta stava tornando a infiammarla.

Di colpo, come se fino a quel momento non se ne fosse resa conto, la Leonessa realizzò di aver vinto il processo di affidamento di Giovannino, capì che la campagna del papa al sud si stava traducendo in una sconfitta senza eguali ed ebbe la certezza che Lorenzo non sarebbe sopravvissuto al suo male, rendendola una donna un pochino più libera.

Esaltata, senza quasi preavviso, afferrò il braccio di Fortunati e gli disse: “Piovano, tu non vai da nessuna parte...” e lo tirò a sé per baciarlo.

Francesco sentiva ancora le ciglia umide di lacrime della sua amata, il suo respiro irregolare e capiva che il suo improvviso ripensamento era legato soprattutto all'incapacità di gestire il caos che regnava sovrano in lei, ma non gli importava.

Docile come una recluta che segue il suo maestro d'armi alla lettera, il fiorentino si lasciò ricondurre a letto e, quella volta, Caterina non gli si negò.

   
 
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