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Autore: Quella Della Pasta    27/03/2023    0 recensioni
[crossover: Miss Fisher's Murder Mysteries/Sherlock Holmes/Agatha Christie's Poirot/Agatha Christie's Marple]
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[WARNING: polycule - Phryne Fisher/Irene Adler; Irene Adler/Sherlock Holmes; Phryne Fisher/Jane Marple; Jane Marple/Hercule Poirot]
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Perché, cos’è una relazione segreta plurima, senza un po’ di sano spettegolare sulle défaillance dei rispettivi amanti?
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Partecipa al COW-T #13 (quinta settimana) col prompt: Missione 3 (polycule) - 06. La doppia V: una persona ha una relazione con altre due, ciascuno dei due ha una relazione anche con un’altra persona.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Irene Adler, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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(Titolo e citazioni da All The Girls You Loved Before, di Taylor Swift.)


 

All of the girls you loved before

Made you the one I've fallen for

 

Solo un’altra giornata di sole in quel di Melbourne. Troppo sole. Irene strizzò gli occhi già chiusi, affondò di più la faccia in quel morbidissimo cuscino di piume che si ritrovava sotto la testa artisticamente arruffata, ma dannazione se c’era ancora troppa luce. E tutto perché non avevano tirato le tende avanti alla finestra, la sera prima. Non che ne avessero il tempo o anche solo la voglia di pensarci, impegnate com’erano le loro mani. Tutto quello slacciare di corsetti…Irene non sentiva la mancanza di Londra, per quello. Solo del suo generico, onnipresente e rassicurante cielo nuvoloso. Rassicurante per i suoi poveri – ma pur sempre belli, eh – occhioni, se non altro.

Mugugnò di fastidio, non riuscendo a scampare a quella tortura. Sentiva quella dannatissima luce mattutina – ma, come minimo, sarà stato mezzogiorno pieno. Come minimo – pizzicarle le spalle nude, e tanti saluti alla sua delicata pelle di porcellana. Se le avesse lasciato il segno dell’abbronzatura della sagoma di quelle stramaledette tende, fosse stata anche solo un’ombra leggerissima degli anelli.

Mugugnò un po’ più di sollievo, avvertendo quei leggerissimi baci freschi risalirle le spalle. «Mmh…buongiorno.»

«Buongiorno a te.» Phryne le sorrise contro la pelle. Irene immaginò le sue braccia tornite avvolgerla, esattamente come aveva fatto la sera prima, ma era soltanto uno di quei pensieri folli del dormiveglia. E dopotutto, per quanto affettuosa, la stimabile lady Fisher non era così romantica, in fondo in fondo, da regalarle un risveglio così zuccheroso, abbracciate fino al pomeriggio. Irene, tra l’altro, nemmeno l’avrebbe apprezzato. Aveva una sua routine mattutina e le avrebbe piantato le unghie – e il medio che s’era scheggiata contro la testiera del letto, in una maniera molto interessante, proprio la sera prima – ben bene conficcate in quella pelle stramaledettamente perfetta per l’età che Phryne aveva e come diavolo faceva a non dimostrare. Sì, Irene sarebbe stata pure contenta di regalarle un seppur minimo difettuccio.

Ma, se non volerle bene, godeva fin troppo della sua piacevole compagnia per volerla allontanare con un simile, stupido screzio. «Devo prepararmi…ho il treno alle due.»

«Chiamo la colazione in camera.»

Un suono argentino, simile alla risata di Phryne, riempì per un istante l’aria. Irene ringraziò mentalmente il genio che aveva inventato il cordone col campanello per scomodare la reception, a quattro piani di distanza dalla loro camera, per ogni loro minimo capriccio. Doveva essere stato un uomo, quanto a pigrizia di quell’invenzione. Irene sorrise, ogni tanto anche loro riuscivano a combinare qualcosa di buono.

Si convinse per l’ultima volta ad uscire da quelle lenzuola così belle – cotone morbido come seta, ma le sarebbe mancato di più il profumo di Phryne, quando a Londra. Doveva assolutamente ricordarsi di chiederle quale usasse, visto che se l’era dimenticato fin troppe volte per sopperire a quella nostalgia così fastidiosa.

Phryne era già in piedi, bellissima anche col caschetto rovinato dalla dormita e le occhiaie ad adombrarle il volto. Irene sospirò appena. «Non è giusto.»

«Che cosa, mia cara?»

«Sono più giovane di te, e tu sei sempre più bella di me. Anche dopo tutti questi anni.»

Phryne si concesse una risata leggera, prima di lasciarsi cadere accanto a lei. «Non dirlo a nessuno, ma potrei dirti lo stesso.»

«E sei più brava di me a mentire», commentò Irene, fingendo un tono caustico cui non ricorreva mai in presenza di Phryne. Solo di Sherlock, come se a lei importasse. Chiuse gli occhi, sorridendo tra sé nell’accogliere quel bacio del mattino. «Ma adesso devo proprio prepararmi», si risolse poi, quando Phryne la lasciò per andare ad aprire la porta al loro cameriere.

«Lo so», le arrivò dalla toilette la voce argentina della sua compagna di avventure, «non resisteresti un solo istante senza le tue venti forcine nei capelli!».

Irene non replicò. Non prima del suo tè, comunque. E poi avrebbe fatto scontare alla carissima, stimabilissima lady Phryne Fisher tutte le volte che l’aveva fatta impazzire per quella sua paura dei ragni. Tanto quanto lei con le forcine che finiva per perdere, impigliate nelle dita di Phryne quando la accarezzava con fin troppa foga per una lady, ma Irene le invidiava pure il suo forza-lucchetti, e senza forcine, come diamine avrebbe dovuto arrangiarsi una povera, indifesa ragazza? No, ricordarle dell’ultima volta in cui aveva strillato tanto da far prendere un infarto a lei e a mezza Melbourne per quel povero ragnetto scovato in un angolo, sarebbe stato molto, ma molto più divertente. E soddisfacente, se riusciva a strapparle cinque minuti in più a letto. A rovinarle ancora un po’ l’acconciatura. E poi Irene avrebbe dovuto spendere altri dieci minuti avanti allo specchio, a risistemare la propria, ma ne sarebbe valsa la pena.

 

«Non serviva che mi accompagnassi, lo sai.»

«Devo partire anch’io.» Phryne fece spallucce, davanti agli occhioni appena sgranati di Irene, anche se fu solo per un momento. Era raro, che si sorprendessero a vicenda. Una cosa rara e preziosa. «Vado a trovare una vecchia amica.»

«Un’altra che ti piace accogliere di persona, quando passa da quest’isola dimenticata da Dio e dal re?»

«Purtroppo no», ammise Phryne, con un sorriso. Perché sì, le sarebbe piaciuto. Anche solo per ricambiarle un vecchio favore, di talmente tanti anni fa che nemmeno Mac ne era a conoscenza. «Ma è da tanto che ho in sospeso con lei un’ora del tè.»

Irene sospirò. E le strinse una mano, al riparo delle sue ampie gonne e dallo sguardo indiscreto del loro tassista. Phryne non capiva perché le piacesse vestirsi ancora come se re Artù vagasse con la sua corte per le campagne d’intorno. Irene le rispondeva, in quei casi, facendole il verso, ché una signora nasconde tante cose sotto la sua gonna. Come un manganello da viaggio, per liberarsi di seccatori che non hanno il buongusto di levarsi di torno al primo secco rifiuto. E a Phryne, dopotutto, piaceva liberarla di tutte quelle stoffe, una alla volta, con tutta la calma del mondo. Era elettrizzante.

Il taxi arrivò in stazione appena in tempo. Irene avrebbe poi raggiunto con la corriera apposita il porto, e la nave di lusso che l’avrebbe riportata a Londra. Phryne, invece, avrebbe preso un vagone di prima classe per raggiungere un’amena località sulla costa. La sua vecchia amica aveva bisogno di respirare aria buona, lontana dalle nuvole di carbone che avevano raggiunto, ormai, anche la sua bella campagna del Middleshire e i suoi preziosi cespugli di rose.

Irene si lasciò accompagnare alla corriera, mantenendo sulle labbra imbellettate di rossetto un broncio adorabile, semplicemente ad hoc per provocare Phryne a baciarla in pubblico. Lei faceva lo stesso, dopotutto. «Divertiti, col tuo spasimante segreto delle campagne inglesi…»

«Non c’è nessun spasimante», ribatté Phryne, divertita. Perché era vero, e perché Irene gelosa era uno spettacolo ancora più adorabile del suo broncio.

«Sarà…» Sulla scaletta, Irene si voltò per regalarle un sorrisino. L’ultimo, finché non le avrebbe inviato una lettera, corredata di fotografia, che l’avrebbe ritratta a bere il tè su una terrazza che s’affacciava su New York, Firenze o Praga. Phryne non ne aveva buttato neppure una, custodite gelosamente nel cassetto di mezzo della sua toilette, quello di cui non aveva la chiave neppure la carissima Dot. «…non ti divertire troppo, però. Se no, non ti mancherò a sufficienza.»

«Lo terrò a mente…» Phryne si tenne il cappellino, che un refolo di vento dispettoso voleva farle volare via.

Lo fece anche per nascondere sé e Irene, e l’ultimissimo bacio che doveva dare a quelle labbra deliziose.

«E tu salutami il tuo, di spasimante!», fu il congedo di Phryne, mentre Irene saliva sulla corriera e, da dietro un vetro sporco di polvere, le regalò un’ultimissima risata.

 


 

Com’era iniziata quella relazione spericolata tra loro due, tra le lady più stimabili del Vecchio Mondo – e con le famiglie più disperate, a vedere come stavano trascinando nel fango il loro buon nome, a seguito delle loro mille e più avventure in giro per il mondo – Irene lo ricordava bene, anzi, cristallino. Era stata tutta colpa dell’adorabile Elizabeth Macmillan, dello sherry party a cui le aveva invitate entrambe, e del raffreddore del signor Poirot. Lei s’era infiltrata in ospedale solo per ripulirsi dall’ennesimo caso compromettente che la vedeva protagonista. E aveva trovato un letto temporaneo in cui nascondersi, oltre che un’ottima compagna di bevute. Che era stata poi chiamata a curare quel bizzoso signorotto belga, prima che la sua ancor più adorabile migliore amica scoprisse che aveva rischiato di essere avvelenato. E s’era messo in piedi quel party per attirare il presunto assassino.

Risolto quel caso, Phryne Fisher era finita per restare per più di un bicchiere della staffa. E al diavolo le convenzioni delle brave lady inglesi trapiantate nel Nuovo Mondo. Irene avrebbe dato via tutte e dieci le dita delle sue sante manine scassinatrici, per arrivare alla sua età ed apparire ancora così giovane e tonica. Inguaiata in un abito da sera rosso borgogna, o a rotolarsi tra le lenzuola che fosse stato.

Era stato bello. Come poteva essere solo il sesso con un’anima affine. Irene si era ripromessa di non cercarla più, una volta tornata a Londra. Era stata invece Phryne a trovarla, ché s’eran ritrovate entrambe sulla scena di un crimine – questa volta, con Irene per davvero dalla parte del manico del coltello insanguinato trovato nella schiena del morto. Solo perché la vera assassina gliel’aveva bellamente fregato da casa sua, spacciandosi per camerierina inesperta di campagna. Irene non s’era mai sentita così sola, allora. Ed era stato bello pure condividere il calore di una coperta e di una tazza di tè, una volta uscita da quella sozza cella, e piantato le tende nella suite regale che Phryne occupava al tempo. Era in visita dalla sua famiglia, le aveva detto. Così come le aveva raccontato i suoi drammi col padre.

Una confessione in cambio di un’altra. Era parso giusto anche a lei.

Phryne sapeva di Sherlock e non le importava. «Cosa una signora fa delle sue frequentazioni, è solo e soltanto affar suo.» Poi aveva fatto una piccola smorfia. «Mia zia avrebbe detto così…»

Irene le era grata, tutto sommato. E non solo per averla tolta di prigione.

«Sono a casa…!», annunciò, calpestando il tappeto persiano dell’ingresso del 221B a Baker Street. Non era stato difficile scassinare la nuova serratura, ora che il dottore era via.

Un mugugno le rispose dalle scale. La signora Hudson doveva essere ancora via dalla cugina. E il tè sarà diventato freddo, pensò Irene. Da giorni. Con un sospiro, raccolse le gonne e iniziò a salire quei gradini.

 


 

«Phryne, mia cara…»

Phryne stirò le labbra imbellettate in un sorriso radioso. «Jane…» Baciò sulle guance l’anziana signora, all’apparenza l’ennesima che avrebbe potuto esser seduta sul dondolo del portico di una di quelle adorabili casupole a schiera in riva al mare, col suo scialle, i suoi gomitoli e il cappellino ben piantato sui ricci canuti. Phryne glielo sistemò, inclinandolo sulle ventitrè. «Non sei cambiata affatto, sai? Sei sempre la mia cara miss Marple…dallo sguardo acuto e brillante, come la prima volta che ci siamo incontrate!»

Jane tossicchiò una risata stanca. «E tu sei la solita adulatrice inveterata…»

Phryne si sistemò sui cuscini della sedia che Jane si teneva accanto, e che aveva probabilmente fatto preparare per lei dall’ennesima, solerte nipote che le faceva da dama di compagnia. Probabilmente assieme al bricco di tè ancora caldo, e tazzina in coordinato. Un set con deliziose roselline che la sua cara miss Marple non poteva non essersi portata dietro dalla sua casetta in Middleshire, dove Phryne era stata spedita, anni addietro, ad imparare le buone maniere da un’esasperatissima zia Prudence. Lei non aveva più di venticinque anni, all’epoca, e la cara Jane non si era ancora pensionata dal suo lavoro di tutrice per le giovani rampolle dell’alta società inglese.

«E come sta il caro Raymond?»

«Affaccendato come suo solito…» Jane Marple si concesse una risatina, mentre sbrogliava una matassa di filo di lana particolarmente cocciuta. «Sempre dietro un romanzo da pubblicare, e una gonnella da cui farsi pubblicare più in fretta…»

«Le vecchie abitudini sono dure a morire, eh?» Phryne ricordava anche lui, un piccolo lord di campagna che voleva fare il cittadino spiantato, tasche bucate e grandi sogni. E una passione ancor più grande per la dolce compagnia, a teatro o a letto che fosse stata. Phryne aveva testato di persona quanto Raymond fosse un gentiluomo senza dubbio, ma pure quanto fosse immensamente, profondamente noioso. Non l’aveva mai raccontato a miss Marple, ma aveva come il sospetto che lei in realtà sapesse tutto. Così come aveva sempre saputo tutto di lei, dei suoi vicini di casa e di ogni famiglia che aveva un tumulo riservato nel piccolo ma nutrito cimitero di St. Mary Mead.

Jane sospirò, d’un tratto. «Non mi va di rievocare i vecchi tempi…» Rimise quella matassa annodata al suo posto, nella borsina di tappeto che si portava sempre dietro.

Phryne sospettava pure dove volesse andare a parare con quella malinconia improvvisa. «Hai solo bisogno di un po’ di riposo, vecchia ragazza. Tutto qui.» Abbozzò uno dei suoi sorrisini, di quelli capaci di far voltare persino l’irreprensibile miss Marple, improvvisamente affaccendata nel dispiegare gonne e centrini pur di non farle notare che fosse arrossita. «Sai bene pure tu quanto l’Inghilterra possa essere faticosa, in campagna o in città che sia…»

«L’hai detto, Phryne.» Era sempre stata l’unica, a parte sua sorella, a riuscire a pronunciare correttamente quel guazzabuglio di nome che il suo scapestrato padre le aveva appioppato.

Ma Phryne non avrebbe voluto vederle in volto quel sorriso triste. Per quanto le donasse, ancora, dopo tutti quegli anni. «Sto invecchiando. E non una delle tue creme di bellezza, né una delle cure miracolose che mi promette di trovare Raymond, impediranno ciò che c’è alla fine di questo mio viaggio, di arrivare a conclusione...»

«Non dire così.» Phryne oltrepassò il tavolino del tè e la stoica decenza delle lady inglesi – non che non ci fosse abituata, comunque – per afferrarle una mano. Grinzosa, macchiata dall’età, ma ancora morbida come la ricordava. E il suo adorato profumo alle violette.

Si sforzò di sorriderle, anche se pure lei sapeva che era inutile. «Sei in vacanza, dopotutto…»

Ché nemmeno il suo fascino avrebbe mai potuto nulla, contro la morte.

 

Jane Marple si era concessa più vizi, durante la sua insospettabilmente lunga vita, di quanto i suoi vicini di casa e al suo consesso di amiche della parrocchia piacesse spettegolare durante l’ora del tè. Ha fumato sigarette francesi di nascosto nel cortile del collegio, dietro le baracche delle infermerie di trincea, e finché i suoi polmoni gliel’hanno permesso; ha avuto una relazione con un uomo sposato, che solo la guerra aveva potuto troncare, e un’altra ancora con un uomo che compariva regolarmente sul giornale che arrivava persino nel suo villaggetto, e di cui neppure Phryne ne era a conoscenza, e nemmeno Raymond, che pure l’aveva intervistato per uno dei suoi romanzi; e la prima volta che era giunta in Australia, la primissima cosa che aveva chiesto alla cara miss Fisher era di portarla in uno di quei locali segreti a ballare il jazz, bere cocktail che il suo stomaco avrebbe retto solo con molti biscotti senza sale, e a dimenticarsi, per una notte sola, di essere una vecchia megera avvizzita e senza un cane a farle compagnia. E Phryne aveva fatto in modo di rispettare quel suo desiderio, così come molti altri. Le aveva portato un pacchetto delle sue sigarette preferite, dopo la guerra, anche se Jane non poteva più fumarle. Le era bastato il conforto.

«Mi piacerebbe», riprese dopo un po’, dopo qualche istante rubato alle sabbie del suo tempo sempre più esigui, solo silenzio in cui aveva voluto guardare il mare con Phryne, respirare assieme le onde salate che bagnavano la sabbia, e creare un’altra piccola, miserevole perla da aggiungere alla collana dei suoi ricordi più dolci, «sai, Phryne…tornare in quel locale dove mi hai portato la prima volta…a bere, e ballare, e chiacchierare coi tuoi stravaganti amici jazzisti…».

«Il Green Mill purtroppo ha chiuso i battenti», rispose Phryne, rimasta seduta accanto a lei per tutto quel tempo. Le regalò un altro dei suoi sorrisi luminosi. «Ma sono sicura di poter trovare un’alternativa valida per ‘stasera.»

«E tu non c’entri niente, con la chiusura di quel locale, vero?»

«Sei troppo intelligente per non sapere già la risposta, Jane…»

Miss Marple ridacchiò. «No, non è vero.» Avesse avuto sul serio il cervello che suo nipote e tutti i suoi conoscenti dicevano che avesse, non si sarebbe mai arrischiata a farsi sedurre da quell’intrigante giovanotta australiana, la nipote scapestrata della sua azzimata vecchia compagna di collegio, solo e soltanto perché si sentiva sola, e vecchia già all’epoca, quando ancora avrebbe potuto trovarsi un ricco marito eroe di guerra e vedovo anch’egli. E invece, tempo dopo che Phryne aveva lasciato St. Mary Mead, Jane s’era trovata un bizzoso zitello come lei. Per un’ironia della vita che ancora non voleva smettere di sorprenderla.

Non hai più tutto il tempo che credevi di avere, vecchia ragazza… «Ti devo ringraziare, Phryne.»

«Per cosa?»

Jane chiuse gli occhi. Solo per un momento. Era così bello, il calore del sole sul volto, la salsedine che le pizzicava dolcemente la pelle…come quando Phryne l’aveva convinta a restare ai bagni di Brighton, in quella cabina gelida, col timore che qualunque poliziotto di ronda o un’altra coppietta in cerca di un posto in cui appartarsi avrebbe potuto scoprirle, e col solo fiato a scaldarle, ché persino le loro mani erano gelide.

Non sei la prima insegnante che ha una relazione trasgressiva con una sua alunna. Se l’era ripetuto diverse volte, dopo quella notte. E dopo quel pomeriggio passato a rimettere in ordine i centrini che s’era lasciata cadere, per la sorpresa di quel bacio inaspettato. Jane si chiese se Phryne aveva ancora le labbra morbide di allora. Dandosi poi della sciocca, ché sicuramente era così. Era lei, tra le due, quella sul soglio dell’incartapecorimento. E ne sorrise. Era stata molto fortunata, in vita, sì…

«Per fare ancora compagnia a questa vecchia signora…cos’altro, se no?»

 

La cara Phryne l’aveva lasciata in serata, col sole che, tramontando, incendiava l’acqua increspata di quella piccola baia. Dei baci appassionati della sua gioventù, Jane non se ne aspettava neanche uno. Phryne la sorprese ancora, approfittando di risistemarle lo scialle.

Fu un bacio dolce, gentile. Tutt’altro che delicato, per non crepare le labbra di biscotto di una vecchia signora. Mi mancherai, voleva dirle, senza parlare. «Ti aspetto la prossima estate», Phryne le disse invece. Come se entrambe non sapessero già che era più probabile che Jane non avrebbe visto una nuova primavera nemmeno dal suo bel giardino di rose. Ma avevano pur sempre tempo per illudersi, e passare qualche giorno di vacanza anche dalla tristezza passeggiando sulle belle spiagge di Inverloch.

Phryne aveva insistito per dormire insieme, almeno l’ultima notte che avrebbe passato lì. Jane aveva gentilmente rifiutato, così come s’era costretta a fare per il resto dei giorni di quella piccola follia che si era concessa dopo che Raymond aveva lasciato St Mary Mead, assicurandosi che la sua amata zietta si era ripresa da quel malore. Erano aumentati durante l’inverno, finendo per stabilizzarsi, ma Jane non si faceva illusioni, almeno su quello: stava invecchiando, la sua debolezza ne era semplicemente la prova. Presto non sarebbe riuscita a tenere in mano nemmeno uno dei suoi romanzi, figurarsi i ferri da calza. O la lente d’ingrandimento, quell’affarino a forma di cuore che aveva affascinato Phryne, da ragazza. Jane l’aveva visto come un segno, che poi era diventata una detective privata.

«Non serve che fai da coperta a una vecchia decrepita…»

Strano, dunque, che non avesse intuito che si vergognasse, semplicemente. Che una bella donna come lei volesse scaldare le gambe e le ragnatele che v’erano in mezzo di un’anzianotta del Middleshire come ne esistevano tante altre. Che le restassero i ricordi delle loro carezze, quando ancora le sue coperte preferite profumavano di rose e dalla radio non irrompeva ancora la voce del primo ministro, annunciando i bombardamenti imminenti. Jane si accontentava benissimo di quelli.

«Lascia allora che prepari io, il tè, questa sera.»

Ma Jane era altrettanto così debole da dirle di sì. Aveva congedato la sua pupilla per quella sera – Cherry non aveva protestato, probabilmente ingolosita dall’opportunità di andare a sgambettare un po’ in giro giù in città, invece che restar relegata in quel paesino di mare per anziani coi reumatismi – ma non prima di aver fatto infornare il dolce che Phryne adorava, quando era ancora a lezione da lei. Un pan dolce alle rose che, laggiù in Australia, Jane era sicura che non sarebbe riuscita a trovare tanto facilmente. Non seguendo la sua ricetta segreta, perlomeno.

Le si sarebbe spezzato il cuore, vedere Phryne andare via al mattino dopo. Così finse di dormire ancora, quando la sveglia trillò sul comodino e avvertì il calore delle braccia di Phryne lasciarla. Alla fine, Jane s’era convinta a lasciarla dormire con lei, abbracciate come si permettevano quando persino lei era ancora giovane e idealista. E la relazione con una donna e per di più giovanissima le pareva una parvenza di ribellione alle castranti regole della società cui aveva obbedito per tutta la vita, volente o nolente.

Jane non riaprì gli occhi nemmeno quando le labbra fresche e morbide di Phryne le sfiorarono la fronte per un ultimo bacio. Probabilmente la credeva svenuta dal sonno, distrutta dai dolori della vecchiaia. Già mettersi a letto, con tutto il sole e il calore respirati a tamponare i suoi reumatismi, era stata una fatica. Phryne aveva scherzato su borse dell’acqua calda e le tisane miracolose del suo maggiordomo, ma Jane non era riuscita a riderne di cuore come avrebbe voluto. Era la realtà, in fin dei conti. E non poteva tornare indietro, ad essere l’energica maestrina di campagna di un tempo, nemmeno se avesse voluto fingere.

 


 

Jane non tornò subito nel Middleshire. Prima impostò una lettera destinata a villa Fisher, poi prese il traghetto che l’avrebbe riportata in Inghilterra. Una volta di nuovo sul suolo natìo, prese un treno per Londra, ma non per la coincidenza con la corriera che avrebbe fatto scalo a St. Mary Mead.

Si presentò all’ingresso del simmetricissimo condominio di Whitehaven Mansions con un sospiro di sollievo. Non amava più i viaggi impegnativi, non con i dolori alle ossa che si facevano risentire ad ogni curva del treno od ogni saltello delle ruote della corriera. Le serviva un bastone da passeggio, anche. Raymond fremeva dalla voglia di regalargliene uno come quelli dei protagonisti dei gialli più famosi, di legno scuro e con l’impugnatura in argento, a forma di qualche bestia terribile. Una nemesi, per esempio, come avrebbe sicuramente suggerito un suo vecchio amico.

Per Hercule, invece, Jane era più un tipo da legno chiaro. E l’impugnatura, casomai, a forma di rosa. Un innocuo bastone da passeggiate in campagna, in cerca di funghi e laghetti da dipingere cogli acquerelli, o per arrivare alla canonica per il tè delle cinque con la moglie del parroco e il resto delle comari di paese. L’ennesimo oggetto da anziana signorina perbene. Adattissimo a celare la vera natura della sua proprietaria. Hercule aveva occhio, per questo.

Jane venne accolta dalla carissima signorina Lemon, con la sua proverbiale cortesia e un tè nero ben accompagnato da una torta alle ciliegie. La nuova passione del capitano Hastings, a quanto sembrava. Lui e sua moglie erano passati da Londra proprio qualche giorno prima, Jane li aveva persi per un soffio. Se ne rammaricò il giusto, quanto fosse opportuno per una signora della sua età. Se lo ricordava, il capitano, come un goffo ragazzone dagli occhi chiari e intelligenti, e sua moglie un’adorabile bambolina inglese, dalla mente brillante. Una coppia perfetta.

Hercule non bevve il tè, preferendovi la sua solita tisana dagli ingredienti complicati. Un ottimo rimedio per i suoi, di reumatismi. Gliene aveva fatta recapitare un cartoccio a St. Mary Mead, approfittando della sua visita ai signori Angkatell. Ma per Jane era troppo amara, occupava troppo tempo sul bollitore, e solo per risparmiargli d’offendersi e beccarsi lei un piccolo trattamento del silenzio, non gli disse nulla e anzi la relegò in un angolo della sua dispensa. Ben etichettata per non confonderla con i suoi infusi, nettamente più dolci.

«Hai fatto buon viaggio, Jane?»

«A sufficienza.»

«Ben detto…» Hercule fece una pausa per tamponarsi i baffetti inumiditi dalla tisana. E le sorrise, affabile. «Ho ricevuto la tua cartolina. Mi ha fatto piacere. Naturalmente, ho dovuto spiegare al buon Hastings che in Australia non c’è soltanto Sydney, come colonia rispettabile…»

«Ovviamente…» Jane non poté fare a meno di sorridere anch’ella. Sapeva che dietro la puntigliosità del grande Hercule Poirot c’era in realtà il più profondo rispetto per quello che era, a conti fatti, il suo più caro amico, ma l’effetto tragicomico era comunque garantito. Ovviamente, evitò di dirgli anche quello.

«E la tua pupilla? Ho letto di lei sul giornale…»

«Phryne non è fatta per la nostra vita di vecchi pensionati», scherzò Jane. Hercule annuì. 

«Be’, non lo siamo neppure noi, dopotutto», si limitò a commentare. Jane annuì, e prese un altro sorso di tè. Delizioso. Le erano mancate, le cure di miss Lemon. Non si era mai sposata, chissà perché. Ma non era più compito suo, preoccuparsene. Non lo era mai stato, le avrebbe detto Phryne. Prima di baciarle una guancia. Tutti pensieri che una signora in gentil compagnia non dovrebbe avere, così Jane cercò di distrarsi. Magari prendendo una seconda fetta di quell’ottimo dolce. Il dottor Haydock non gliel’avrebbe rimproverata, erano anni che le diceva di metter su un po’ di peso. Tanto, le ossa non avrebbero smesso di dolerle in ogni caso.

«Di sicuro», disse poi a Hercule, «tu hai una vita nettamente più interessante della mia. Ho letto che riceverai un’altra medaglia dalla corona belga, prossimo mese…».

«Faccio solo il mio dovere per la patria, come tutti.» Il che era la cosa più modesta che Jane avesse udito uscire dalle labbra di quel buffo ometto. Che si era presentato un bel giorno a St. Mary Mead, al seguito della sua fin troppo energica amica, una scrittrice giunta a prendere appunti su un caso di omicidio – quello del vicario, in cui Jane aveva preso parte alle indagini giusto per scacciare il prurito anche dalla sua gamba rotta e ingessata. Non si aspettava certo di incontrare un amico. Un’anima affine, come avrebbe scoperto poi. Prima che suo nipote la incoraggiasse un poco troppo a recarsi a Londra, avendo scoperto cosa si celasse dietro la scusa di rifornirsi di un certo tipo di lana che arrivava tranquillamente all’emporio del paese.

«Il nostro dovere…», mormorò lei sovrappensiero, guardando i fumi di vapore salire ancora dalla sua tazzina di tè. Ma non abbiamo forse un dovere anche verso noi stessi, verso i nostri desideri e sentimenti? Phryne avrebbe detto così.

Le doveva esser sfuggito di bocca, perché Hercule assunse un’aria malinconica che gli apparteneva ben poco. In rarissime volte, Jane l’aveva visto così. Come quando lo sbirciava mentre usciva da Whitehaven Mansions, perché l’etichetta gli avrebbe impedito di accompagnarla egli stesso in stazione.

«Presto andrò in pensione.»

Jane batté gli occhi una seconda volta, per la sorpresa. «Come, in pensione…?»

«Ho già deciso.» Hercule poggiò la sua tisana, e unì le mani. Come sempre, prive di anelli. Quella vista rassicurò Jane, nonostante tutto, nonostante i suoi preconcetti, l’etichetta e quei sentimenti che a una certa età dovrebbero soltanto riposare sotto la cenere del tempo. «La mia casa di campagna è confortevole a sufficienza, le mie zucchine crescono bene, e i vicini hanno smesso di darmi noia come un tempo.» Stiracchiò un sorriso sotto i baffetti impomatati. «Ormai, è giunta l’ora anche per le mie celluline grigie di un po’ di riposo. E le tranquille campagne del Radforshire, lontane da Londra e le sue incombenze, sono perfette.»

Perfette anche per stare lontano da te, vi lesse Jane tra le righe. A una distanza più che conveniente: la contea di St. Mary Mead si trovava esattamente all’opposto. Dall’altro capo della costa che la divideva dal Radforshire. Sì, era la soluzione più conveniente. Per la discrezione da dover assolutamente mantenere in società, ed anche perché il detto lontano dagli occhi, lontano dal cuore doveva pur avere le sue radici in un fondamento di verità. Erano entrambi troppo in là con l’età, per quelle visite segrete da innamorati sfortunati da romanzo, quei tascabili a pochi penny che Cherry e le altre sue nipoti avevano sempre in mano, quando Jane le dispensava dal bollire il tè o stirare le lenzuola. Era meglio così, si disse, annuendo a se stessa per convincersi. Era meglio per entrambi. Per la reputazione di Hercule, e per la sua.

Non riuscì, tuttavia, a non trovare amaro quel nuovo sorso di tè, dopo aver ricevuto quella notizia. Jane si dette della sciocca, ad ogni modo. Nessuno meglio di lei sapeva che una tisana messa a riposare, ha lo stesso sapore dell’acqua calda. Ma quella constatazione così realistica non la rassicurò come sperava.

 


 

«Forza, dormiglione…» Irene osservò, intenerita, come e quanto potesse stiracchiarsi Sherlock, rattrappito su un divanetto del suo caotico studio. Aveva dormito per ben due giorni, sotto gli effetti dell’ennesimo intruglio testato su se stesso. Irene ne aveva letto la ricetta, scritta su un fogliaccio gettato in mezzo alla scrivania. L’aveva fatto sparire. Così la signora Hudson avrebbe avuto un affanno in meno, e Sherlock un giorno in più da vivere senza rischiare la pelle. E lei un vantaggio in più, a testare quella stessa ricetta durante una delle sue prossime avventurette, ma non era affanno invece del suo amato, saperlo in anticipo. Tanto, l’avrebbe ben comunque immaginato da sé.

Si alzò da quei cuscini, battendosi le gonne per scrollarsi di dosso la polvere. «Ma non metti mai in ordine, eh?», commentò, iniziando a girare tra i tavoli stracolmi per cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Trovò solo pile di libri e bottiglie di veleni.

Sherlock, d’altra parte, si produsse in un inutilissimo sbadiglio. «Ho un mio metodo…»

«Infallibile, certo…» La teiera era disperatamente vuota, i sedimenti dell’ultimo infuso incastrati sul fondo. Irene non aveva certo voglia di perder tempo a pulirla. Sarebbe scesa a rimediare un cartoccio di pesce fritto, e tanti saluti se Sherlock si fosse lamentato della puzza che s’incollava al suo violino. Al quale s’era rimesso a suonare, ovviamente. Una nenia tristissima. Irene lo lasciò fare.

«Sei stata via meno dell’ultima volta», osservò l’ombra del grande investigatore, stagliata contro la luce pomeridiana che entrava dalla finestra aperta. Irene aveva tirato via le tende, non potendone più di quell’atmosfera opprimente. E anche per cercare eventuali cecchini sui tetti, ma doveva essere il loro giorno libero. Meglio così, si era detta. E si era messa ad aspettare che Sherlock si svegliasse.

E ora non dovrei lamentarmi, giusto? «Non avresti comunque sentito la mia mancanza», osservò invece lei, sollevando uno dei tanti giornali sparsi per la stanza. Era di due giorni prima, una testata che veniva stampata solo a Melbourne. «Hai di nuovo messo in funzione i tuoi informatori per trovarmi, mh?»

«Costi più caro al barone Fisher, a cui hai sottratto il diamante Fiorentino, che non al mio vecchio amico Cecil, che mi manda ogni mese l’Observer…»

Ah, certo. Irene si tenne stretta la borsetta, dove il diamante in questione, che fino a qualche settimana prima ornava il bastone del pomposo padre di Phryne – non aveva saputo resistere, Irene, un po’ per scommessa, un po’ per costringere la sfuggente lady Fisher a seguire lei, per una volta – era ben nascosto nel doppiofondo. «Se ti mancavo così tanto», replicò invece, accomodandosi su una poltrona miracolosamente sgombra, «potevi venire a trovarmi». Ma la musica di Sherlock, per quanto triste, meritava di essere ascoltata in tutta comodità. «Melbourne è bellissima, in questi tristi giorni invernali. Un po’ di sole ti farebbe bene, mio caro…»

Sherlock, se pure si sorprese o si intenerì a quel nomignolo, non lo dette a vedere. Né fece una stecca col violino, che Irene aveva pure apprezzato. Per quanto brillante, un po’ di affetto non le avrebbe guastato l’umore, a vederselo elargito oltre che nei momenti in cui erano entrambi stati in punto di morte. Una continua partita a scacchi, ecco cos’era la loro relazione. Non che Irene volesse altro, come un noiosissimo matrimonio. Per carità. Ma la vanità era il suo punto debole. Sherlock, pure, lo sapeva. Così com’era l’unico a conoscere la sua più intima fragilità. L’unico, certo, dato che Moriarty era morto. Schiacciato da una cascata di montagna di notevole potenza. Irene era stata libera di respirare, allora, e libera anche dall’ospedale in cui quel pazzo l’aveva confinata, dopo aver fatto credere sia a lei, sia a Sherlock, di averla uccisa. Invece era solo caduta nell’ennesimo dei suoi tranelli. Ed era stato bello, godersi lo spettacolo delle lacrime dello stoicissimo mister Holmes, tutte per lei. Era stato rassicurante. Ché qualunque cosa potesse ancor esserci tra loro, non era solo mera automazione.

Ma non aveva più voglia di un concerto da camera. Si stava facendo sera, e non c’era nessun programma interessante per radio, e nemmeno cartelle di casi aperti su cui Sherlock stesse lavorando. «Ho preso i biglietti per il Ruddigore, ‘stasera», annunciò Irene, alzandosi con rinnovata energia da quella poltrona vecchia e gonfia. «Una mia cara amica dice che è parecchio divertente. Se non altro, è qualcosa di diverso dal solito Don Giovanni…»

Phryne non si era granché divertita, a onor del vero. Aveva dovuto risolvere un omicidio, le aveva raccontato. Anzi, due. Irene sperava non accadesse loro lo stesso, ché poi l’attenzione di Sherlock Holmes l’avrebbe ripresa soltanto a fine investigazione. E lei voleva concludere la serata nel miglior modo possibile. Magari facendo un salto nella suite imperiale che si era prenotata per il suo ritorno a Londra. E senza vino soporifero, per una volta…

«Sono impegnato.» Sherlock concluse la sua sonata con uno svolazzo lamentoso, e ripose il violino sulla scrivania più vicina. «Ho un caso tra le mani che…»

«Non hai niente, il dottore è in vacanza e miss Hudson pure.» Irene lo prese sotto un braccio, sorridendo nel constatare che non s’era irrigidito come pensava. «Tu fatti una doccia. Al resto ci penso io, va bene?»

Gli occhi mobili di Sherlock si posarono, finalmente, sul suo bel visetto. «Non hai intenzione di rapinare la Stella d’Occidente dalla prima attrice che la indosserà, vero?»

«Fossi matta», rispose Irene, con uno sbuffo. «Troppa sfortuna aleggia su quel gioiello. E poi, è incastonato in una cornice troppo pacchiana, per i miei gusti…»

«Certo…» Sherlock stiracchiò un sorriso, un vero miracolo. «Allora, andrò a cercare il mio panciotto blu. E a telefonare al buon Lestrade, per suggerirgli che la pattuglia in più che aveva preposto all’entrata dei camerini, non servirà. Non sei d’accordo, mia cara?»

«Ma certo.» Irene gli sorrise affabilmente, sopportando quel casto bacio sulla sua guancia perfetta. Perché, anche se lo adorava, una pugnalata anche solo nel ginocchio Sherlock se la sarebbe meritata, di quando in quando. E forse avrebbe dovuto far mettere in fresco il vino soporifero, su in hotel. Per sicurezza. Casomai anche quell’operetta si fosse rivelata una delusione.

Almeno, avrebbe avuto una scusa per scrivere a Phryne. Perché, cos’è una relazione segreta plurima, senza un po’ di sano spettegolare sulle defaillance dei rispettivi amanti?

 

Every dead-end street led you straight to me

Now you're all I need, I'm so thankful for

All of the girls you loved before

But I love you more

   
 
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