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Autore: Violet Sparks    10/04/2023    9 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
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Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO XXII
Lascia che sia
 
Ad un certo punto,
devi prendere una decisione.
I confini non tengono fuori gli altri,
servono soltanto a soffocare te.
La vita è dura e noi siamo fatti così.
Quindi, puoi sprecare la tua vita a tracciare confini
Oppure puoi decidere di vivere superandoli.
È vero, ci sono dei confini che
è decisamente molto,
molto pericoloso superare…
 
 
La luce di un lampo illuminò per un istante l’intonaco del soffitto, rischiarandolo quasi per intero di un bagliore asettico e freddo, simile ad una lastra di ghiaccio.
Poi, il buio.
Non aveva mai smesso di piovere.
Il temporale di poco prima si era trasformato in una pioggerella fitta e ostinata che profumava l’aria di un odore muschiato intenso e scandiva il passare delle ore con un sottofondo regolare, monocorde. Il cielo sembrava aver placato la sua ira. Non c’erano stati più tuoni, rombi o boati furibondi; solo lampi, come flash pallidi e privi di suono, a disturbare l’oscurità altrimenti perfetta della notte.
Forse – rifletté Wakatoshi – a quella calma soltanto apparente, lui preferiva la collera.
Voltò la testa per l’ennesima volta verso lo schermo a led della sveglia poggiata sul suo comodino: erano ancora le due e trenta.
Si sentiva così stanco, eppure non era riuscito in alcun modo a prendere sonno.
Dopo essere rientrato in casa insieme a Hinata, si era buttato sotto la doccia più in fretta che aveva potuto, e con la stessa lena aveva indossato il pigiama, infilandosi nel letto, convinto di collassare non appena la sua testa avesse toccato il cuscino.
Non era stato così.
Il peso dei pensieri aveva cominciato a gravargli addosso, quasi che ognuno di essi fosse stato di pietra, un ciottolo attaccato all’adiacente da una passata di stucco che, un pezzetto alla volta, lo stavano murando vivo su quel letto improvvisamente troppo piccolo.
I dubbi che gli affollavano la mente sembravano infiniti: aveva fatto bene a raccontare il suo passato a Hinata? Era stato un rischio mettersi così a nudo di fronte a qualcuno? Aveva commesso uno sbaglio, lasciandolo avvicinare tanto?
No, non era stato uno sbaglio, quella era la sua unica certezza.
Non riusciva a pentirsi di ciò che era accaduto con Hinata Shoyo poco ore prima, anche se lo agitava, anche se gli rimescolava il sangue nelle vene, anche se gli faceva paura.
Parlargli del suo passato lo aveva aiutato a razionalizzarlo, ma soprattutto ad estirparlo dall’affranto buio e remoto in cui lo aveva ricacciato senza rendersene conto e quello, intanto, era cresciuto, si era alimentato, aveva messo su radici, intossicandolo come la muffa nel seminterrato di un palazzo elegante.
Adesso che lo osservava alla luce del sole, lontano da sé e dal suo subconscio, Wakatoshi scopriva che il passato aveva spigoli acuminati come coltelli, che avevano sparso cicatrici ovunque in quella vita che si era illuso di controllare e rendere perfetta e invece, sotto la superficie, nascondeva crepe e detriti, voragini profonde quanto la bocca di un vulcano.
Sradicare quei ricordi lo aveva reso più consapevole, più lucido, alleggerendolo di un macigno che non si era mai accorto di portare sulla schiena. Eppure, ora che finalmente ne era libero, la verità era che non sapeva che cosa farsene, di tutto quello spazio vuoto, non riusciva a trovare un equilibrio, gli sembrava di dover imparare a camminare una seconda volta.
Si sentiva irrequieto, mancante, un funambolo a cui era stato amputato un arto in cancrena: l’operazione gli aveva salvato la vita, certo, ma gli aveva anche cambiato il baricentro e ogni passo sulla fune, adesso, era diventato un’incertezza.
Si sedette sul bordo del letto, issandosi di scatto, premendo la parte inferiore dei palmi contro le palpebre per minuti interi.
Gli stava mancando l’aria.
Alla fine, decise semplicemente di rinunciare all’idea di addormentarsi, per cui si mise in piedi e uscì dalla camera da letto, diretto in cucina o in palestra o forse in salotto… non ne aveva la minima idea. Sapeva soltanto di aver bisogno di mettersi in movimento con il corpo e con la mente, dando un senso al ritmo frenetico con cui il cuore stava martellando dentro la gabbia toracica.
La casa era immersa in una oscurità tenue, frastagliata dalle luci artificiali che provenivano dall’esterno; Wakatoshi camminò lentamente lungo il corridoio, indovinando i profili del mobilio a mano a mano che gli si presentavano davanti durante il percorso. Il pavimento fresco, sotto i suoi piedi scalzi, donò subito una sensazione di sollievo alla sua pelle velata di sudore, così come la leggera corrente che doveva provenire da qualche finestra lasciata aperta in una delle altre stanze, gli rizzò i capelli bagnati dietro la nuca, aiutandolo a respirare meglio.
Stava giusto meditando di togliersi la maglietta del pigiama per lasciare che quella piacevole brezza raggiungesse porzioni più ampie del suo addome, quando si accorse del chiarore dorato che proveniva dalle fessure della porta di Hinata.
Si fermò dov’era.
Possibile che anche Hinata fosse ancora sveglio? Oppure aveva solamente dimenticato la luce accesa?
Era abbastanza tardi, forse era meglio sincerarsi che stesse bene. Hinata non gestiva bene l’ansia, lo aveva dimostrato in più di un’occasione – ad esempio, durante la loro trasferta a Tokyo, quando aveva avuto un vero e proprio attacco di panico in mezzo alla calca della metropolitana di Shinjuku- e di certo la discussione avuta con sua nonna a cena lo aveva sconvolto parecchio.
D’altra parte, però, qualora si fosse addormentato e basta, senza spegnere l’abatjour sul comodino, sarebbe stato preferibile lasciarlo riposare…
Ormai Wakatoshi non si sorprendeva neanche più di provare quel bisogno impellente di accudire il ragazzino come fosse stato sua responsabilità da sempre.
Come se Hinata Shoyo fosse una cosa sua.
Per lui che aveva fatto del controllo e del distacco la sua personalissima armatura, curarsi del benessere e degli stati d’animo di un altro essere umano al di fuori di sé stesso, era una volontà sconosciuta quanto fastidiosa, eppure, da quando conosceva Hinata, avvertirla gli veniva talmente naturale che spesso se ne accorgeva solo dopo che ogni fibra del suo organismo era stata già pervasa da quell’urgenza.
Si dondolò sulle gambe, indeciso se entrare o meno.
In effetti, anche lasciare la luce accesa così immotivatamente era deleterio, si trattava di uno spreco di corrente bello e buono. Però, accedere alla camera di Hinata senza permesso, mentre magari lui era immerso nel sonno, costituiva una violazione della privacy davvero poco educata, per cui…
“Japan, sei tu?”
Wakatoshi trasalì. Nel giro di un istante, ebbe la chiara consapevolezza che la ragione principale di tanta esitazione, risiedeva nel fatto di non sentirsi assolutamente in grado di affrontare un’altra conversazione con il piccolo corvo, quella notte.
“Japan?”
Sospirò, seccato. “Sì, Hinata, sono io.” tentò allora, rimanendo piantato in corridoio “Mi stavo solo chiedendo perché la luce fosse accesa, non ti preoccupare.”
“Entra, per favore.”
“Non ce n’è bisogno, torna a dormire.”
“Ti prego, entra…”
A quel punto, Wakatoshi capì di essere con le spalle al muro. Raddrizzò il busto, chiamando a raccolta tutta la calma e la razionalità che ancora albergavano, superstiti, dentro di lui, quindi afferrò la maniglia ed entrò nella stanza che un tempo era stata la sua camera degli ospiti.
Trovò Hinata seduto a gambe incrociate al centro del letto, con la schiena poggiata su una vaporosa pila di cuscini, simile ad un buffo gatto arancione appollaiato su una nuvola di ovatta. Portava un pigiama di cotone scuro, estivo, con dei disegnini che la semioscurità dell’ambiente non permetteva di distinguere; il colore creava un contrasto netto rispetto al candore lattiginoso della sua pelle, in particolare sulle gambe, snelle e nodose, che la stoffa dei pantaloncini arricciata dalla posizione, lasciava quasi completamente esposte.
Di puro istinto, gli occhi di Wakatoshi le percorsero per intero, bevendole grammo a grammo, risalendo dalla linea tesa delle caviglie alla curva morbida dei polpacci, fino a inciampare sulla carne più dura dei muscoli nella porzione interna delle cosce.
Si vergognò di se stesso, quando il desiderio di compiere lo stesso tragitto, gli si srotolò pure attraverso le dita.
“Perché sei ancora sveglio? È molto tardi.” domandò comunque, mettendo forse un po' troppa autorità nella voce, dato che Hinata si morse le labbra con espressione colpevole.
“N-non riesco a prendere sonno.” spiegò quello, prima di portarsi le ginocchia contro il petto e cingerle tra le braccia “Tu, invece? Cosa ci fai ancora sveglio?”
“Non riesco a dormire nemmeno io.” ammise, semplicemente.
“Perché? Non sei stanco?”
“Sì, lo sono. Ma per quanto ci abbia provato, il mio corpo continua a rimanere sveglio, è come se…”
“Se non riuscisse a spegnersi! Sì, è lo stesso per me.” concluse Hinata al posto suo “Non riesco a rilassarmi, mi batte forte il cuore e il mio cervello ronza, ronza… è pieno di pensieri! Continuo a rimuginare su tutto ciò che è successo stasera e provo così tanta rabbia e tristezza… mi stringe lo stomaco, non so spiegarlo! Sono andato un po' in cucina, prima, ho bevuto una camomilla, ho guardato qualche anime sul PC, ma non è servito a un bel niente! Ho la testa che mi scoppia!”
Di fronte a quella colorita descrizione, Wakatoshi si ritrovò ad annuire, riconoscendo esattamente lo stesso stato d’animo che stava affliggendo anche lui.
Sorrise, impercettibilmente.
Onesto e genuino com’era, Hinata dimostrava ancora una volta di possedere l’innata abilità di dare forma e consistenza alle proprie emozioni, donando nitidezza a quello che per lui era soltanto un miscuglio confuso di astrazioni.  
Senza saper bene cosa fare di sé stesso, lì piantato all’ingresso, il giovane capitano prese a scrutarsi intorno, attraverso la semioscurità della lampada.
La presenza del ragazzino pareva sparsa come polvere in giro per la stanza: i vestiti ammucchiati in maniera disordinata sulla poltrona, la divisa del Karasuno appesa vicino all’armadio, un paio di ginocchiere a terra, una tazza usata sulla scrivania, un’altra sul comodino, due paia di scarpe ai piedi del letto, il suo profumo buono nell’aria, attaccato alle pareti quasi fosse un secondo strato di vernice.
Wakatoshi allora non poté fare a meno di chiedersi quando, in quale esatto istante, Hinata Shoyo fosse penetrato tanto a fondo nella sua vita e nella sua casa da non riuscirne più a immaginare l’assenza, al pari del tetto, del pavimento – di un braccio, di una gamba, del sangue, del cuore.
“Smetterà mai di piovere?” chiese d’un tratto Hinata, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.
Aveva ruotato completamente il capo verso l’enorme porta finestra che dava sul giardino laterale, sicché la sua testa si era trasformata in una arruffata criniera arancione, come una fiamma incastrata nella notte buia. 
“Certo che smetterà di piovere. Altrimenti il nostro pianeta sarebbe preda delle inondazioni.” rispose Wakatoshi, non trovando alcun senso nella domanda posta dal piccolo corvo.
Hinata non ribatté, tuttavia si girò brevemente verso di lui, rivolgendogli una risata morbida.
Adesso che lo osservava con maggiore attenzione, notava che aveva un’espressione a dir poco sfinita; i suoi occhi erano piccoli e lucidi per la stanchezza e perché continuava a stropicciarli con i pugni, aveva le guance molto rosse, inoltre anche la sua voce era insolitamente fiacca, lenta.
“Hinata, riprova a stenderti, sei molto stanco, devi riposare.”
“Non servirebbe a niente.”
“Spegni la luce, magari il buio ti aiuta.”
“Stenditi qui, insieme a me.”
Wakatoshi ci mise un tempo indefinibile a processare la frase appena pronunciata da Hinata e in realtà, a giudicare dallo sguardo sgranato di quest’ultimo e dal guizzo improvviso che ebbe tutta la sua figura, era probabile che stesse avendo serie difficoltà anche lui.
Perfino la pioggia sembrò fermarsi, in attesa.
“Oddio! Mi è uscita malissimo! Non uccidermi! Non sgridarmi!” esclamò subito il ragazzino, saltando in ginocchio al centro del letto e agitando le braccia come un uccellino spaventato “Non c’era niente di sess- cioè, sì, sai, sessual- insomma, non c’era niente di sconcio nella mia proposta, te lo garantisco!”
“Ho capito, va bene, calmati.”
“Ho solo pensato che, visto che nessuno di noi due riesce a dormire, magari se ci stendevamo insieme - completamente vestiti e ognuno dalla propria parte di questo letto gigante- forse diventava più facile rilassarci, non credi anche tu?!”
“Non lo so, n-”
“Io faccio sempre così, davvero! Cioè non è che dormo con della gente random! Ma quando non ho sonno, accendo la tv ed è come essere con altre persone!”
“Sì, ho afferrato il concetto.”
“Solo che, nel nostro caso, saremmo noi a parlare e non degli attori dentro uno schermo! Anche s-“
“Shoyo, calmati, basta!”
Al tuono di quel rimprovero, Hinata smise all’istante di straparlare, per poi sgonfiarsi su se stesso come una specie di palloncino bucato: sorpresa, delusione, imbarazzo e terrore iniziarono a saettare sul suo viso in modo talmente caotico e repentino, che Wakatoshi ebbe giusto un secondo per rammaricarsi di aver usato, ancora una volta, il nome di battesimo del piccolino, prima di sospirare mesto, e affrettarsi ad adottare l’unica soluzione che riuscì a partorire al fine di evitare che Hinata continuasse a dare di matto.
“Va bene, mi stenderò vicino a te.” disse, facendo uno sforzo immane per controllare le corde vocali e, nel frattempo, reprimere l’istinto di fuga che invece graffiava attraverso il reticolo dei suoi vasi sanguigni.
Hinata sbatté le ciglia freneticamente, in silenzio.
Il rossore sulle sue guance era ben visibile, nonostante la semioscurità della stanza.
“Se-se non ti va, io…”
“Rimango finché non ti addormenti, nulla di più.”
“Non ti voglio disturbare…”
“Ho già detto che va bene.” ribadì ancora Wakatoshi e, sapendo quanto già si stesse pentendo di quella decisione assolutamente irrazionale e pericolosa, decise che era meglio non rimuginarci oltre.
Chiuse la porta accanto a sé con una leggera spinta – il clic della serratura gli rimbombò nelle orecchie come un colpo di pistola- sgranchì il collo, tentando di alleviare la tensione che d’un tratto aveva ghiacciato, una ad una, tutte le ossa del suo corpo, quindi camminò fino al letto, fissando rigorosamente il parquet lucido che si dipanava sotto ai suoi piedi.
Il fruscio delle lenzuola gli lasciò intendere che Hinata doveva essersi spostato in modo da fargli spazio.
Non lo guardò nemmeno in quel caso.
Si stese di schiena, sul margine più estremo del materasso, faccia al soffitto e rigido quanto una carcassa abbandonata da diverse ore. Dal proprio fianco sinistro, avvertì l’altro ragazzo fare la stessa cosa dopo qualche maldestra manovra di assestamento che fece cigolare le doghe di legno.
Poi furono di nuovo immersi dal rumore della pioggia.
Era impossibile per Wakatoshi descrivere ciò che stava provando. Il battito del suo stesso cuore gli stava martellando nelle tempie, il suo stomaco si era svuotato completamente e nelle porzioni nude della sua pelle, gli pareva di percepire l’ossigeno intorno in ogni singola molecola, quasi che le sue cellule si fossero trasformate in una miriade di minuscoli ricettori.
Ma non era soltanto qualcosa di fisico.
Era un rimescolarsi di sensazioni inesplicabili che cozzavano l’una contro l’altra, amplificandosi fino all’esplosione. Sentiva tanto, troppo e, allo stesso tempo, non riusciva a cogliere niente. Era come se un meccanismo conservato in un posto remoto dentro di sé fosse appena andato in tilt e adesso i bulloni stessero stridendo, in una cacofonia di suoni metallici, assordanti.
Lo spazio fra sé e Hinata era una voragine ribollente di lava.
Quello era tutto un altro livello di intimità.
Quello era tutto un altro livello di intimità e Wakatoshi capì di averne paura – come non ne aveva mai avuto per niente in vita sua. Perché in quella zona grigia e inesplorata, non aveva il controllo su niente, non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva cosa c’era, ma soprattutto non sapeva chi lui stesso fosse e che ruolo avesse, e perché mai reprimere il desiderio di toccare Hinata, all’improvviso, fosse diventato così difficile da risultare doloroso.
“F-forse è meglio se spengo la luce!” balbettò il piccolo corvo, con una voce tesissima che alimentò anche la sua, di agitazione.
“Sì, spegnila.” si limitò a snocciolare Wakatoshi, congiungendo le mani al centro dello stomaco, giusto per dar loro uno scopo.
Non appena furono immersi nell’oscurità della notte, tirò un sospiro di sollievo: almeno – constatò – al buio era più facile far finta di essere solo, dimenticarsi l’identità del ragazzo con cui stava dividendo il letto.
“H-hai freddo? V-vuoi una coperta?” chiese Hinata, dopo qualche secondo di silenzio.
“Sì, va bene.”
“Ecco, prendi un po' della mia.”
“Ne vado a prendere una di là.”
“No, non ti alzare. È abbastanza grande, possiamo coprirci tutti e due!”
Wakatoshi afferrò il lembo di morbido pile che gli veniva offerto e cercò di sistemarselo addosso, tirando il tessuto meglio che poteva. Si arrese, dopo qualche tentativo: non era la coperta ad essere troppo corta, il problema era la distanza macroscopica che c’era fra di loro.
“Non fa niente, posso stare senza.” disse il giovane capitano, restituendo il plaid al ragazzino.
“Ma, ti prenderai un malanno!”
“Non ho freddo.”
“Basta solo…” e senza nemmeno finire la frase, Hinata si spostò lungo il materasso in modo da ridurre il vuoto in mezzo ai loro corpi.
A quel punto, la coperta effettivamente riuscì ad avvolgere entrambi, ma Wakatoshi si sentì andare a fuoco neanche se un incendio fosse appena divampato da qualche parte nella stanza: il ragazzino, adesso, era talmente vicino che sarebbe bastata una sola mossa falsa per permettere ai loro arti di toccarsi.
Si impegnò a rimanere immobile, a focalizzarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse il leggero tepore che aveva preso a irradiarsi sul suo braccio sinistro o i rumori che Hinata produceva, ticchettando le dita, accavallando le gambe, grattandosi la testa, sistemandosi i vestiti.
Avrebbe voluto calmarlo.
Avrebbe voluto prendergli le mani, stringerle forte, cancellargli di dosso quell’ansia latente che stava intossicando lui, le nuvole, il quartiere, la pioggia e tutta l’aria intorno, ma c’era quella sensazione - come un formicolio sotto l’epidermide, un prurito tra i globuli del sangue - che gli diceva che semmai lo avesse fatto, poi non avrebbe saputo più fermarsi e così, dopo le mani, avrebbe stretto anche i polsi e le costole e i fianchi e le ginocchia e il collo e…
Buttò fuori l’aria, a disagio.
“Quale è la tua squadra preferita di pallavolo?” chiese Hinata, di punto in bianco, sussurrando quasi non volesse disturbare qualcuno.
Wakatoshi aggrottò la fronte, “Me lo hai già chiesto tempo fa, sono gli Adlers.”
“Mmh, okay sì, hai ragione… allora, il tuo piatto preferito?”
“Sai anche questo, è il riso hayashi.”
“Uffa! Aspetta, ci ragiono meglio: quante lingue straniere conosci?”
“Anche di questa domanda sai già la risposta, Hinata. Ho imparato l’inglese a scuola, come tutti e parlo spagnolo perché me lo ha insegnato Nana.”
Davanti all’ennesimo buco nell’acqua, il ragazzino non proferì più parola.
Ci furono dei rumori indistinti, però, seguiti da uno strano incurvarsi del materasso e un sommesso dondolio delle coperte, finché un calcio dritto nello stinco non spinse Wakatoshi a buttare un’occhiata alla sua sinistra, per capire cosa stesse succedendo.
Un brivido gli attraversò la nuca.
Il ragazzino si era girato completamente sul fianco e, sebbene la semioscurità della notte celasse quasi per intero il suo volto, Wakatoshi intuì che lo stava osservando, imprimendo quei suoi occhi giganteschi e vividi su di lui come due chiodi nel muro.  
Avrebbe dovuto distogliere lo sguardo.
Non ci riuscì.
“Un ricordo felice che hai con la tua famiglia.”
“C-come hai detto, scusa?” proruppe Wakatoshi, scuotendo il capo per tornare in sé.
“Dimmi un ricordo felice che hai con la tua famiglia, il primo che ti viene in mente. Mi hai raccontato solo cose tristi, ma devono esserci stati anche dei momenti felici coi tuoi genitori, no? Dimmene uno. Uno soltanto.”
Per qualche istante, calò il silenzio.
La domanda di Hinata lo aveva colto decisamente di sorpresa, per cui Wakatoshi impiegò un tempo piuttosto lungo, prima di trovare una risposta adeguata. Una vocina dentro di sé, gli fece notare che stava permettendo ancora una volta a Hinata Shoyo di avvicinarsi, di abbattere una nuova barriera tra loro due. Eppure, dei mille motivi che aveva sempre avuto per tenere il ragazzino alla larga, per respingerlo e per difendersi, in quel momento, non gliene venne in mente neanche uno.
“Un pomeriggio, i miei genitori vennero a prendermi prima da scuola. Andammo al parco, quello dove io e mio padre di solito giocavamo a pallavolo. Era la prima volta che veniva anche mia madre. Me lo ricordo come se fosse ieri. Aveva fatto un esame, era radiosa. Portava una treccia con dei fiori tra i capelli e un vestito bianco, leggero, di… pizzo di sangallo. Lei si mise sul prato a leggere, mentre io e papà cominciammo a fare dei passaggi. Ricordo che, ad un certo punto, la palla finì sul caffè che mamma stava bevendo, sporcandola da capo a piedi. Fece una faccia buffissima, poi cominciò a rincorrerci per tutto il parco. La gente ci guardava come se fossimo pazzi. Penso di non aver mai riso tanto, in vita mia.”
Un profondo senso di vuoto si impossessò di lui, risalendogli nelle viscere a ondate, come una marea. Capì che doveva trattarsi di quella che le persone chiamavano tristezza - un sentimento a lui quasi completamente sconosciuto- tuttavia non gli era affatto chiaro perché mai un sentimento così potesse sgorgare da qualcosa di luminoso e limpido come il ricordo che aveva appena raccontato: forse, constatò, i ricordi felici erano più dolorosi di quelli normali.
Tutto si spense, nell’istante in cui le dita bollenti del ragazzino si aggrapparono alla manica della sua T-shirt.
“È un ricordo bellissimo, Japan.” mormorò il piccolo corvo, stringendo un poco la presa.
“Dimmene uno tu.” disse Wakatoshi, parlando all’oscurità “Un ricordo felice che hai di tuo padre.”
Il singulto di Hinata gli rimbalzò nel petto quasi fosse proprio.
Si rese conto di aver sbagliato, di avergli posto una domanda indelicata con il solo intento di placare l’irrequietezza che avvertiva, allora “Scusa.” si corresse subito “Non importa, non volev-“
“Quando è nata Natsu.” intervenne però il ragazzino, con una voce incrinata, che gli si ruppe in gola “Quando è nata Natsu, io e mio padre dovemmo passare la serata da soli a casa perché, dopo il parto, mamma ovviamente aveva l’obbligo di restare in clinica insieme a mia sorella. Peccato che… beh, mio padre fosse un completo disastro con le faccende domestiche! Bruciò la cena tre volte, prima di arrendersi e ordinare una pizza. Ricordo che mi fece lo shampoo con il bagnoschiuma e lavò il pavimento con l’ammorbidente per i panni… rimase tutto azzeccato per una settimana! Fu molto divertente!” a quel punto Hinata emise in una risata piena di malinconia “Mi dispiace, il mio ricordo fa schifo rispetto al tuo. È solo che… io non ho ta-tanti ricordi di papà… ero molto piccolo… e…”
Wakatoshi se lo tirò contro il petto nello stesso istante in cui il ragazzino cominciò a piangere.
Avrebbe dovuto turbarlo quella vicinanza, corrodergli la pelle, il sistema nervoso, invece Wakatoshi non provò niente del genere, semplicemente si girò anch’egli sul fianco, lasciando che il volto umido di Hinata si incastrasse nella curva del suo collo e che le loro braccia si aggrovigliassero in un intreccio rassicurante, bollente.
Il suo cervello si era spento.
Aveva deposto le armi.
“Anche il tuo è un bel ricordo.” constatò, sinceramente, immerso nel profumo dolce dei suoi capelli.
“Ho paura di dimenticare ogni cosa e non voglio.” sussurrò Hinata, la sua bocca che scivolava a contatto diretto con la linea del mento di Wakatoshi, mettendogli i brividi “Il suo viso… la sua voce… sono sempre meno nitidi…”
“Raccontami qualche altra cosa, allora.”
“Ma…”
“In questo modo, rinsalderai la memoria. Diventerà più semplice ricordare.”
“Non importa, Japan. Non voglio annoiarti.”
“È impossibile annoiarsi, quando si tratta di te, Hinata Shoyo.”
Lo sentì sorridere contro la propria pelle.
Passarono così ore.
O forse giorni, mesi, anni.
Nel buio, la voce fragile del ragazzino divenne l’unica cosa coerente, il suo corpo sottile l’unica forma a cui aggrapparsi in mezzo ai racconti del passato e del presente, che ben presto cominciarono confondevano col suono placido della pioggia.
Wakatoshi non aveva mai parlato così a lungo.
Non aveva mai ascoltato così a lungo.
Ma preferì non porsi domande.
Si abbandonò nella corrente, lasciandosi trasportare ovunque essa avrebbe deciso di portarlo.


 
*****


Fu il rombo di un tuono, a svegliarlo.
A giudicare dal fioco bagliore proveniente dalla finestra, stava albeggiando, nonostante il cielo si fosse trasformato ancora una volta in un inferno di acqua e lampi di luce pallidi.  
Strizzò le palpebre un paio di volte, tentò di sgranchirsi i muscoli, ma un peso distribuito sulla sua intera figura glielo impedì: Hinata stava dormendo profondamente, raggomitolato contro il suo petto.
La punta di cieco panico che avvertì, per fortuna, venne vinta quasi subito dal torpore che lo avvolgeva, il quale sembrava stemperare ogni cosa, sfocando i confini non solo del mondo esterno, ma anche dei suoi stessi pensieri.
Quanto avevano dormito?
Due ore? Tre?
Era troppo stanco per ragionare in maniera coerente.
Scostandosi un poco sul materasso, si concesse di studiare il ragazzino disteso al suo fianco, approfittando di quella vicinanza irrisoria, ma soprattutto della quiete assoluta in cui il piccolo corvo verteva – un’occasione irripetibile, considerando la sua indole burrascosa.
Indugiò sul suo viso da bambino, le ciglia lunghe e chiare, la spruzzata di lentiggini che correva lungo il suo naso e sugli zigomi, la tenera rotondità delle guance. Lo sorprendeva sempre la differenza eclatante che vi era fra i loro corpi. Dove lui era roccia, Hinata sembrava fatto di piume. Dove lui era spigoli e ombre, contrasti netti, Hinata era curve e armonia, luce indomita, grezza. Era bello. Bello di una bellezza diversa dalla propria. Una bellezza di cui Wakatoshi aveva scoperto l’esistenza soltanto da poco, proprio attraverso quell’uccellino troppo agitato, col cuore sempre in vetrina: quella delle cose pulite, buone e semplici come una mattina di sole, calde e familiari come casa.
Si accorse di avere ancora il braccio fermo intorno alla sua vita, lo spostò piano.
Nel sonno, la maglietta del pigiama di Hinata si era sollevata leggermente scoprendogli l’osso del fianco, allora Wakatoshi vi posò sopra la mano, a palmo aperto, stringendo appena.
Insinuò le dita un poco più su, oltre l’orlo della T-shirt, dove la pelle dello stomaco si tendeva, indurendosi sotto la spinta dei muscoli performati dell’addome. Immaginò di salire ancora, esplorare altri affranti di quella distesa lattiginosa e liscia che era la sua epidermide, svelarne i segreti, le reazioni. Vide se stesso marchiarla con i denti, assaggiarla con la punta della lingua, graffiarla fino a sentire le ossa del ragazzino incrinarsi dal bisogno.
Dal desiderio.
Si allontanò di scatto, col cuore che batteva ad un ritmo febbrile.
Si stava spingendo troppo oltre, doveva fermarsi.
Si alzò dal letto, cercando di non svegliare Hinata, con la fretta di fuggire arpionata alle gambe. Il suo battito cardiaco era ancora accelerato, ma non era un problema: sarebbe andato a correre, la fatica lo avrebbe aiutato a scaricare la tensione e mettere in ordine la testa.
Tutto sarebbe ritornato al proprio posto.
Aveva appena voltato le spalle al letto, quando una mano gli afferrò il polso: apparteneva a Hinata, il quale si era sollevato a sedere sul letto, nonostante gli occhi impastati di sonno e la testa che ciondolava in avanti nello sforzo – inutile- di mantenersi vigile.
“Dove stai andando?” bofonchiò, con voce intorpidita.
Wakatoshi non poté impedirsi di accennare un sorriso davanti a quella comica scenetta.
“Sto andando a correre, tu torna a dormire. È ancora presto.” gli intimò, cercando di sgusciare via dalla sua presa spingendolo delicatamente. Peccato però che il ragazzino gli si aggrappò alle spalle e alle braccia, facendolo quasi cadere sul letto.
Solo Hinata Shoyo poteva dimostrarsi così testardo pure mezzo addormentato.
“Rimani qui.”
“Devo andare. Rimettiti a dormire, per favore.”
“Ma piove a dirotto.”
“Sono abituato.”
A quel punto, Hinata si esibì in tutta una serie di farfugliamenti indistinguibili, mentre le sue palpebre sfarfallavano, lottando per non chiudersi. Vinto dal sonno però, all’improvviso la sua testa oscillò pericolosamente all’indietro e di certo avrebbe sbattuto la nuca contro il muro, se Wakatoshi non lo avesse impedito, prendendogli il viso tra le mani.
“Puoi fare come ti dico, per una volta?” gli chiese, senza un briciolo di convinzione, cercando di mantenergli almeno il capo dritto manovrandogli il collo, tuttavia il ragazzino trovò appena la forza di annuire, entrando e uscendo dal suo dormiveglia.
Aveva le guance lievemente arrossate, le labbra lucide, i capelli arruffati e sparati ovunque.
Wakatoshi si ritrovò a guardarlo in silenzio per lunghi istanti, senza proferire parola – forse, senza nemmeno respirare.
Poi lo baciò.
Lo baciò perché non avrebbe potuto fare nient’altro.
Era l’unica cosa giusta da fare.
L’unica cosa sensata.
Qualsiasi altra azione sarebbe stata un errore madornale, anche la più piccola.
Un singulto, un battito, un sospiro.
Tutti errori.
Una caterva di terribili, plateali errori.
Il mondo, intorno a loro, si zittì.
Quando riaprì le palpebre, vide che Hinata Shoyo lo stava guardando come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco, con due occhi piccolissimi e arrossati dalla fatica di non chiudersi.
“Wakatoshi…” soffiò piano, prima di aggrapparsi al tessuto della sua maglietta e premere la bocca morbida sulla sua, tirandolo giù con sé.
 
Wakatoshi non andò a correre, quella mattina.
 
 
Però una cosa la so:
se sei pronto a correre il rischio,
la vita dall’altra parte è spettacolare.
- Grey’s Anatomy
 
 


NOTE AUTORE
Questa scena è nata praticamente due anni e mezzo fa, insieme all'idea di questa storia ed è rimasta custodita nella mia testa fino ad adesso, mescolandosi e rimodellandosi giorno dopo giorno. Non avete idea di che emozione sia stato scriverla e, adesso, pubblicarla.
Spero di non aver deluso le vostre aspettative (mai come questa volta, sarei davvero curiosa di ricevere un feedback da tutti voi!).
Non voglio aggiungere nient’altro, questa volta.
 
A presto
Violet Sparks
   
 
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