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Autore: Quella Della Pasta    11/04/2023    0 recensioni
«Ho trovato un gregis pazzo abbastanza da finanziare l’idea di una compagnia teatrale tutta mia. E voglio recitare lì, nel primo, vero teatro della capitale! Hai idea della pubblicità che regalerà?» Il sorriso gentile di Sabina si stiracchiò lentamente, e fu allora che Naevius la riconobbe per quello che era: l’astuta gatta ladra delle colonie della Magna Grecia, capace di mutare forma come un attore con le sue tre maschere a rotazione. «Pensa ai sesterzi che ci lanceranno gli edili per tornare a recitare lì ad ogni ludus …»
Naevius alzò le spalle. Lui, d’altra parte, degli affari teatrali non ci aveva mai capito davvero qualcosa.
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Il Leverage team in salsa Antica Roma. Riusciranno a rubare il teatro di Pompeo prima che venga effettivamente costruito, o anche solo prima della fine di questa oneshot?
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Ha partecipato al COW-T #13 (sesta settimana) (...ed ultima) col prompt: Missione 4 (sguardo alternativo) - 17. Ancient history.
Genere: Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nathan Ford, Sophie Devereaux
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il titolo, un po' rimaneggiato, dovrebbe significare: 'il senato e i ladri di Roma', anche se quel 'romanus' è palesemente sbagliato ma ormai non ho più la sbatta di correggere il titolo anche su altri archivi dove ho postato questa fic.
E, dato che i nomi originali nel contesto dell'antica Roma mi facevano cringiare abbestia, qui la tabellina per capire chi è chi:
Nathan -> Naevius;
Sophie -> Sabina;
Parker -> Aquila (nome unisex, stando a Behind the name, e dunque la cosa più vicina all'ambiguo "Parker" che potessi trovare);
Eliot -> Helvius;
Alec Hardison -> Albus Hadrianus;
Jim Sterling -> Julius Sextilius.









 

La notizia della costruzione, da parte di nientepopodimeno che il sommo Pompeo, di un teatro stabile in muratura aveva destato non poche preoccupazioni nella corte dei senatori. Intanto, per l’annosa questione della corruzione dei costumi; ma soprattutto – anche se gli intoccabili rappresentanti del buon governo romano non l’avrebbero ammesso mai, nemmeno se fosse tornato Cesare dalle sue campagne in Gallia a minacciarli tutti a fil di spada – la questione più preoccupante, nel foro ma pure nelle tasche degli stessi senatori, era la quantità esorbitante di appalti che sarebbero stati presentati agli occhi – e ai giri di malaffare, perché negarlo – dei questori edili. E non solo per la stessa costruzione materiale del teatro, ma anche e soprattutto per le compagnie teatrali che avrebbero avuto la priorità di recitarvi.

E Naevius osservava tutto quel balletto di mores, oratoria e sesterzi sonanti dall’alto della sua storica imperturbabilità (derivante anche dall’essersi scolato una giara di vino Falerno, ma finché reggeva il passo, il conto ancora da pagare in taberna non era un suo problema). Ben presto, si sarebbe ritrovato tra le mani più richieste di assistenza del suo collegium per sorvegliare che andasse tutto bene durante la costruzione del teatro – affidata, chiaramente, a chi avrebbe sborsato di più, alla faccia del pericolo di corruzione dei costumi sociali o che altro si fossero inventati i retori sodali di quel seccatore di Cicerone. Naevius non sopportava più le loro arringhe, montate su ad ogni angolo di strada e ad ogni ora del giorno e della notte, al punto che avrebbe volentieri pagato un istrione etrusco o un suonatore di cetra da banchetti per interromperli una volta e per tutte.

«Sempre la solita storia, eh?»

E parlando di istriones, spunta il capocomico… «Sabina…» Naevius le indicò lo sgabello vuoto dall’altra parte del suo tavolinetto. Dove, con la grazia che la contraddistingueva, la finta matrona si accomodò in uno svolazzo del pallio, sicuramente di pregio, ma che restava comunque una stola che aveva visto giorni – e palcoscenici, che spaziavano dalle tavole di legno che venivano montate e smontate per i ludi ai banchetti di senatori, processioni funebri di ricche matrone cui Sabina non era imparentata per davvero, ed una o due sfilate di prigionieri di guerra, se e quando avrebbe gradito un’interpretazione più elettrizzante – molto migliori di quella giornata di caotico mercato.

Sabina rivolse uno sguardo solo apparentemente annoiato alla strada ingorgata di carri e mercanti greci che urlavano nel loro dialetto aspro. «Cambiano i senatori, ma Roma resta sempre la stessa», commentò, facendosi aria con un ventaglio. Naevius notò la mappa che teneva legata al polso elegante, sarebbe stato impossibile non farlo: Sabina reggeva il ventaglio appositamente in quella mano. «Di chi è, quel fazzoletto, il regalo del tuo ultimo marito?»

«No, di due mariti fa. Non stai tenendo più il conto, Naevius?»

«Difficile reggerlo, contando già solo le collane che indossi. Questa è etrusca?»

«Egizia. Non vedi l’amuleto in lapislazzuli?»

«No, pensavo fosse uno dei tuoi soliti falsi. Sai, quelli che indossi per accalappiare gli oratori con la tua parte da liberta ingiustamente reclamata…»

Sabina gli rivolse un sorriso gentile. Il suo solito messaggio per intendere di tagliar lì la conversazione. «Hai saputo del teatro di Pompeo?»

«E come no…» Naevius versò un po’ d’acqua nel suo boccale di vino, allungandolo come da costume. Avrebbe potuto concedersi una sbronza sonora quando sarebbe tornato nella sua catapecchia in cima all’ insula più economica di tutta Roma. Non un buon segnale per reclamizzare i suoi servigi, ma d’altra parte, in quanto questore edile spedito a calci fuori dal foro, non poteva più permettersi la bella domus di campagna che aveva messo su pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, con sua moglie. Il loro divorzio aveva fatto parlare, specialmente perché Naevius non aveva ripudiato sua moglie come da costume e le aveva anzi concesso quella pratica quasi fossero stati due pari. D’altra parte, la sofferenza che le aveva arrecato era soltanto di loro conoscenza. Loro, e del tumulo che custodiva le ossa di suo figlio.

«Non dubitavo ti fosse arrivata la notizia», gli disse Sabina, sottraendogli il boccale e bevendo il suo vino tutto d’un sorso.

La solita Sabina, pensò Naevius. Si preoccupavano l’uno dell’altra, pur senza ammetterlo. Né senza che l’avessero richiesto. Ed era iniziato tutto per colpa di un triclinium rubato, ricordava…

«E tu stai già pensando di allungare le tue delicate manine sui progetti di uno degli appaltatori, eh?»

«Ti sbagli.» Sabina tornò a sventagliarsi annoiata. Naevius gettò un rapido sguardo in strada: stavano passando dei patrizi a cavallo, le toghe purpuree che ciondolavano pigre. E non aveva dubbi che avrebbero rivolto uno sguardo pure loro alla bella Sabina, con la sua stola ricamata e i gioielli che aveva rubato dal corredo che qualche futuro marito non avrebbe mai più regalato alla sua legittima mogliettina.

«Ho trovato un gregis pazzo abbastanza da finanziare l’idea di una compagnia teatrale tutta mia. E voglio recitare lì, nel primo, vero teatro della capitale! Hai idea della pubblicità che regalerà?» Il sorriso gentile di Sabina si stiracchiò lentamente, e fu allora che Naevius la riconobbe per quello che era: l’astuta gatta ladra delle colonie della Magna Grecia, capace di mutare forma come un attore con le sue tre maschere a rotazione. «Pensa ai sesterzi che ci lanceranno gli edili per tornare a recitare lì ad ogni ludus …»

Naevius alzò le spalle. Lui, d’altra parte, degli affari teatrali non ci aveva mai capito davvero qualcosa. Solo, era d’accordo con Sabina su una cosa: il giro di denaro che v’era alle spalle e che i senatori sborsavano, volenti o nolenti, poteva essere un qualcosa di davvero enorme. E ingestibile, soprattutto. «Lo sai, che non a tutti piacerà l’idea di una donna vera e propria sul palcoscenico…»

«Indosserò una maschera e farò la voce grossa. Che ci vuole? E poi, sono la scriba ufficiale della compagnia. All’impresario non importa cos’ho tra le gambe, purché gli sganci un nuovo testo ad ogni Saturnalia.»

E Sabina era troppo furba per farsi soverchiare dalla voce grossa di chiunque altro, ricordava Naevius. «Va bene. Mettiamo che funzioni, sì?, che la tua compagnia avrà l’appalto per recitare come prima compagnia nel teatro di Pompeo. Stai dimenticando una cosa importante, però.»

«Cioè?»

«Che il teatro non è ancora costruito. Anzi, i senatori ancora non hanno approvato effettivamente la proposta, l’hanno soltanto messa ai voti…»

«Ed è qui che entro in gioco io…» Col suo solito sorriso da gatta furba, Sabina sciolse il fazzoletto che portava al polso. Lo dispiegò sotto gli occhi di Naevius, rivelando una piccola palla di carta all’interno. Dispiegò pure quella pallottola, che si rivelò scribacchiata in un latino quasi incomprensibile. «Ho convinto Pompeo a costruirlo sulle scale del tempio di Venere vittoriosa. Le stesse gradinate del teatro costituiranno la scalinata del tempio.»

«Mossa intelligente», commentò Naevius. E non gli servì controllare nello sguardo di Sabina, per sapere che pure i suoi occhi si erano accesi di una luce ben diversa dall’ubriachezza o dalla sua solita atarassia verso il mondo. «I senatori non impediranno mai la costruzione di un tempio alla madre divina del nostro fondatore…certo, sempre se non graverà troppo sulle casse di Roma…»

«Ho pensato anche a quello», ammise Sabina, ritirando foglietto e fazzoletto.

«La tua abilità nel mettere la pulce nell’orecchio ai nostri governanti ha quasi della stregoneria, lo sai?»

«Oh, ti ricordi di quella volta in cui ho interpretato una fattucchiera?» Lo sguardo di Sabina da furbo si fece sognante. «Al processo, avevo il pubblico intero che pendeva dalle mie labbra…»

Naevius scosse il capo, e si versò direttamente dell’acqua nel boccale. Sabina non sarebbe mai cambiata, indipendentemente dai mores o dai censori. «E quindi?» Bevve un sorso, almeno per rinfrancarsi la gola da quella chiacchierata che non era ancora diventata una delle loro contrattazioni infinite. «Perchè me ne sei venuta a parlare, da principio?»

«Perché una delle pulci che dici io sia tanto brava a mettere nell’orecchio, è venuta a sussurrare al mio che tu sei il papabile collegiale che verrà richiesto affinché sorvegli la regolare costruzione del teatro…»

«Oh, mi consola saperlo.»

«E sono qui per riscuotere un vecchio favore, da te.»

«Non ne dubitavo…» Naevius stornò lo sguardo in strada. A quanto pareva, l’ingorgo dei carri non si sarebbe sbrogliato prima di sera. Sabina aveva previsto a tutto, con una confusione simile nessuno sarebbe mai riuscito ad origliare la loro conversazione. «Cos’è che ti serve, mh?»

«Devi trovarmi qualcuno che mi assicuri l’appalto della prima rappresentazione.» Sabina s’era fatta seria. «Ci ho scommesso troppo, per poterla perdere.»

«Be’, potrebbe esserti di lezione…»

«Anche se ti dicessi che il questore a cui verrà commissionata la gestione dei lavori è Julius Sextilius?»

Naevius sentì qualcosa accendersi nel petto, a quel nome. Una fiammella di rabbia che solo gli anni passati a diventare il freddo calcolatore che era, riuscirono a contenere dal tramutarsi in un rogo distruttivo vero e proprio. «Continua…»

 

L’ultimo ricordo felice che Naevius aveva del suo vecchio compagno di collegia, era una partita a latrunculi fatta sotto il portico della sua domus, una ciotola di fichi da sbocconcellare e suo figlio, ancora vivo, che giocava con le noci. Ma quel tempo era finito, e ora c’era soltanto da lavorare.

E da impedire che Helvius facesse saltare la testa di Hadrianus con un pugno. «Signori», e Naevius gettò uno sguardo alla ballerina etrusca – Aquila, dicevano si chiamasse, ma nessuno cui Naevius avesse chiesto era mai riuscito a confermarlo per davvero – che sedeva al capo del tavolo dove gli altri due uomini non avevano trovato posto. «Signore…» Sentiva che Sabina fosse in un angolo in ombra di quella taberna affollata, dove la notte e gli avventori dediti al gioco dei dadi e al commento ad alta voce dell’ultima giornata di mercato li avrebbero sufficientemente celati allo sguardo dei pretori e del resto delle guardie fin troppo zelanti che bazzicavano lì in giro. «Sapete già del teatro pompeiano. La paga è uguale per ogni membro di questo tavolo, e se non ritenete sicuro immischiarvi coi senatori, le loro guardie del corpo e il questore edile che ha mandato al Tullianum più cittadini liberi di quanti schiavi vengono catturati in una sola giornata di guerra, potete benissimo lasciare questa taverna e tornare ai vostri affari. Nessuno di voi verrà denunciato alle autorità, ma se volete restare, quasi sicuramente faremo il colpo più grosso che le tasche del Senato di Roma abbia mai visto. La vostra decisione?»

«Sarà pericoloso», commentò Helvius, e Naevius ci avrebbe scommesso su che l’avrebbe fatto notare. In ogni caso. I suoi bracciali di cuoio, a nascondere i segni sbiaditi delle manette di guerra, ben poco facevano per celare la vera natura delle sue braccia muscolose da muratore, lavoratore dei campi e vecchia stella dei giochi gladiatori, con un passato di pretoriano alle spalle e di cui tendeva a non parlare troppo spesso. A meno che il suo interlocutore non gradiva l’idea di perdere un orecchio, un dito o entrambi.

«Io ci sto», disse invece Hadrianus, con un cenno vispo. Albus Hadrianus, con la pelle scura che tradiva le sue origini dalle province d’Africa e le tabelle cerate che si portava sempre dietro: Naevius l’aveva fortunosamente sottratto al taglio delle sue sante manine, non tanto perché fosse un borseggiatore esperto (tutt’altro) quanto perché fosse riuscito a sottrarre più sesterzi lui alla casta senatoria di Sabina, i giochi gladiatori e le tasse messe insieme. E, riscattando la sua libertà dall’ultimo patrizio che se l’era comprato per fargli i conti in tasca, non si era certo guadagnato la sua fedeltà. Ma la promessa dei cari, vecchi sesterzi sonanti era un vincolo molto più attraente.

«Sarà molto pericoloso», rincarò Aquila, bionda ed esile e assottigliando gli occhi in una maniera che rese inquietante anche il suo volto da bambolina d’avorio. Non che il suo sorriso fosse molto più rassicurante, comunque. «Per me va bene.» Naevius non aveva trovato informazioni sufficienti su di lei da trarne un ritratto appena più preciso di ladra, scassinatrice e contorsionista a giornata. C’era chi dicesse fosse la figlia scomparsa di una ricca famiglia vicina alla gens Iulia, altri invece l’avevano smentito, alludendo a origini cartaginesi e un incidente in mare su una galera misteriosamente andata a fuoco. Qualche che fosse il vero, a Naevius non importava. Così come a tutte le anime a quel tavolo, Sabina inclusa (ovunque fosse), importava soltanto del bottino che avrebbero guadagnato da quell’impresa.

Annuì, conscio che si stava per cacciare in un pasticcio ben più grande della sbronza che gli fece mandare a fuoco la casa. Ma la prospettiva di far incancrenire lo stomaco di Sextilius, be’, batteva tutto. Anche la possibilità di finire in ceppi per tutta la vita. «D’accordo. Andiamo a rubare un teatro, dunque!»

   
 
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