Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    25/04/2023    0 recensioni
Prosegue la saga de “Le cronache dei draghi e dei re”, cominciata con “L'apprendista di fuoco” e continuata con “L'avvento dei Sette”. Il conflitto è ormai scatenato. Mentre le case nobiliari che governano l'occidente continuano ciecamente a misurarsi tra di loro, l'oriente è chiamato da solo al confronto con un nemico intenzionato ad estinguere l'intero genere umano. Sarà forse possibile sconfiggerlo utilizzando quell'antico e sopito potere chiamato magia? E al fine di utilizzare al meglio tale potere, è forse il caso che i sette maghi dell'origine vengano definitivamente annientati? È partendo da questi interrogativi di base che Constant della Casa Lannister sta infine preparando la sua guerra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 15

LUCE SUL NIDO

 

 

 

La compagnia con le insegne del re all'occidente, Constant della Casa Lannister, giunse infine nella innevata Valle di Arryn in una bella giornata di sole pomeridiano. Il caldo che veniva dalla luce in alto forniva solo vagamente un certo tepore: buona parte dei componenti di quella squadra non provenivano da regioni di freddo: dorniani, gente dell'est, perfino gente del nuovo continente Myriedos, che forte risentiva del calore dell'anomalo vulcano magico strettamente connesso con il drago Corarus: tutta quella terra versava più o meno in questa condizione, o almeno la parte che Xenya l'esploratrice aveva avuto modo di indagare. Certo, la baia dei Sayun-sama, più lontana dal vulcano, era un po' più fresca per via della corrente oceanica... ma l'aria comunque rimaneva torrida. Per tutti costoro la Valle era gelida, indipendentemente dal sole, pure brillante, che ci fosse.

Facevano eccezione invece gli uomini del gruppo Applegate che anzi consideravano quel clima perfino piacevole e ci mancava poco che non si spogliassero di tutti i loro armamenti e rimanessero solo con le maniche corte. Non lo facevano perché erano soldati ed erano abituati a mantenere un certo decoro militaresco, ma Xenya glielo leggeva in viso che stavano soffrendo, esattamente per come l'avevano già fatto a Dorne e a Crakehall, nelle Terre dell'Ovest. Per quanto invece riguardava coloro che provenivano da queste ultime, tra cui il re Constant e i suoi uomini più stretti nonché la stessa Xenya – che in quelle zone era nata ma che in realtà viaggiava in giro per il mondo fin da quand'era ragazzina – la loro casa in realtà era di norma grigia e piovosa. Ma, per gli uomini del nord estremo, niente da fare: quello era clima caldo. Con la pioggia o con il vento, sempre ghiaccio non era e quindi era caldo.

La verità era che erano una compagnia di venticinque persone tutte diverse, che probabilmente si sarebbero state tra di loro molto antipatiche (se non detestate), ma che purtroppo avevano degli interessi comuni: la lotta contro il re sul Trono di Spade e, più sul lungo termine, quella contro il drago che aveva dichiarato guerra all'umanità. Già il clima, dal momento della partenza, era cambiato. Quando infatti la compagnia aveva raggiunto circa la metà dell'itinerario preventivato, avevano cominciato a moltiplicarsi i manipoli di soldati Baelish sulla strada per Nido dell'Aquila. Non c'era nulla di sorprendente in questo: pressoché per le vie di tutte le città del mondo – Xenya immaginava – più ci si avvicinava all'agglomerato urbano e più si moltiplicavano gli uomini armati dell'esercito governativo; nulla di più prevedibile! Ma la situazione ora s'era capovolta, perché se quand'erano partiti da Crakehall, il re Constant e tutti gli altri erano una maggioranza nei confronti del solo uomo Baelish tra di loro (precisamente Lord Petyr il vecchio), adesso invece Lord Petyr era a casa sua ed era circondato da uomini armati fino ai denti, tutti al suo comando. Xenya non sapeva se il re Constant, che era un uomo da lungo tempo addentro alle dinamiche politiche del paese, avesse previsto questa situazione in cui Baelish li aveva portati: lei non l'aveva fatto di certo. Vale a dire: Baelish aveva dato vita a tutta quella situazione, essendo il principale sostenitore della distruzione dei demoni del re alla Capitale, si era presentato come un agnello innocente consegnandosi – lui da solo – a potenziali nemici (non solo il re Constant, ma anche gente dal nord, dall'est e dal sud), e ora però si trovava in una situazione di estremo benessere e vantaggio. Non che nulla cambiasse; il piano era sempre quello: distruggere il demone, questo Baelish aveva detto e ripetuto di volere e questo tutt'e venticinque stavano andando a fare, ma... c'era qualcosa che a Xenya non convinceva in tutte quelle guardie. Forse perché lei era stata abituata a muoversi in contesti relativamente spartani. Gli ultimi luoghi che aveva visitato erano stati nell'ordine: un regno di selvaggi in lancia e gonnella al di là dell'oceano, comandati da un drago; un castello di un re fuori sede, freddo, solenne e – per la verità – anche un poco spoglio; e infine Dorne, che era colorata e piena di buon cibo, bella gente e buoni odori, ma... non era una vera e propria capitale dei Sette Regni per come raccontavano le cronache. Nido dell'Aquila invece sì. Si respiravano in quel contesto potere e ricchezza millenari. E anche un non so che di sinistro.

Xenya naturalmente si chiedeva anche come sarebbe stato l'incontro con il nuovo demone. Di lui le era stato detto, differentemente da Mawldor, il demone delle fonti che lei già aveva conosciuto, che non fosse in grado di raggiungere una vera e propria forma umana. Anzi – a detta di Sir Bastian, che a quanto pareva lo aveva conosciuto bene – il demone delle fiamme tendeva a presentarsi in un'armatura un po' ondeggiante, come fosse riempita d'aria anziché di carne, e poi con il famoso teschio nero sorridente e una pesante corona d'ossidiana nerissima sulla testa. Aveva indossato, un tempo, una specie di maschera di carne che ne coprisse il volto: così Bastian lo aveva conosciuto. Ma quella cosa, quell'intenzione di simulare un aspetto umano che in realtà non aveva, tendeva a connaturalo di tratti ancora più mostruosi. Meglio il teschio nero della maschera di carne, che comunque era da un po' che non si vedeva più. Che ragioni aveva ora, questo demone delle fiamme, a mascherarsi? Tutti sapevano che i demoni esistevano e che fossero al servizio del re Naharis. Non molti sapevano invece che potevano essere sconfitti, che il loro danneggiamento avrebbe anche danneggiato Gabryaerys e che adesso proprio questo, venticinque uomini armati dall'occidente erano in procinto di fare.

Anche se non poi così distante dalla sua terra natia, Xenya non era mai stata al Nido dell'Aquila. Era un castello veramente – quasi letteralmente – appollaiato su una montagna. O per meglio dire: chi l'aveva costruito, aveva deciso di piazzarlo sopra una serie di creste montane, collegandone gli spazi non si capiva come, visto che inevitabilmente parti di quell'edificio dovevano a questo punto dare verso il vuoto. Solo in quel momento, Xenya ricordava le parole di un tizio della Valle con cui aveva condiviso per qualche giorno la cella di un carcere nelle Terre della Tempesta. Egli le aveva descritto la sua casa e il castello che la dominava. A Nido dell'Aquila c'erano, per esempio, delle celle di prigione che davano sul vuoto assoluto, tanto che molti condannati finivano per decidere di fare il grande salto. Ma questa doveva essere solo una delle numerose strategie ingegneristiche che si celavano dietro a quel castello unico nel suo genere.

Quando vi entrò, l'esploratrice ne rimase ovviamente meravigliata. Una luce chiarissima e quasi paradisiaca irradiava le vetrate che immense e numerose si trovavano sparpagliate tra le pareti del castello. Era come stare più vicini al cielo che alla terra, e d'altro canto il livello del mare doveva essere lontanissimo a questo punto. Si accorse, nonostante si fosse preparata, che i vestiti che portava non erano adatti a qualcuno che decideva di rimanere in quel genere di posto. A forza d'indossare quelli che pure con cura aveva scelto a Crakehall, in vista della sua partenza per la capitale della Valle, sarebbe morta assiderata nel giro di un paio di giorni. Per fortuna, Lord Baelish fin dal primo momento dell'arrivo presso il suo palazzo si mise a disposizione, insistendo perché tutti i suoi ospiti si rifocillassero.

In realtà, per qualche ragione che Xenya non comprendeva, re Constant aveva mostrato un po' di insofferenza in merito a tutti questi temporeggiamenti, perché voleva fin da subito vedere il demone prigioniero. Xenya condivideva la sua curiosità; per istinto, anzi lei era proprio il tipo che di norma avrebbe voluto vedere tutta e subito ogni cosa nuova che le si fosse presentata: aveva sempre fatto così nella sua vita. Ma in verità non le era mai capitato – strano ma vero – di percorrere un tratto di montagna così spietata, dura e pura. Anche se aveva visto molti angoli del mondo, e alcuni sconosciuti ai più, comunque Xenya era una donna di mare. Le coste conosceva, l'entroterra molto meno. Era poco preparata a quel genere di freddo, pacato e silenzioso, ma sovrano assoluto di quei territori.

Anzi, bisognava ammettere che – probabilmente grazie al fatto che vivessero in quella situazione da millenni – i castellani della Valle sapevano come risollevare significativamente la temperatura degli interni. C'era sempre freddo, ma cavolo se tutti quei candelabri, caminetti e camini più grandi disseminati un po' ovunque, facevano la differenza rispetto a fuori. Chissà dove gli abitanti della Valle prendevano tutto quel legno: ne era così pieno il Nido dell'Aquila? Più si guardava attorno meravigliata – guidata insieme a una parte del resto della compagnia da un più che appassionato padrone di casa Lord Baelish – meno Xenya si accorse del tempo che stava scorrendo. Venne l'ora della cena in un battibaleno. Xenya era una che mangiava sempre con grande appetito, ma quel giorno mangiò tanto da vergognarsi, se solo in generale gliene fregasse qualche cosa dell'altrui giudizio. Baelish aveva fatto preparare per i suoi ospiti una cena luculliana, degna di un re (che Constant in effetti era). Il Lord del castello si era dimostrato un padrone di casa veramente degno: Xenya all'inizio aveva sospettato un po' dei suoi toni leziosi e del suo palese desiderio di piacere a tutti; in più in molti le avevano sconsigliato di fidarsi, tuttavia erano ormai passati giorni di compagnia insieme. E Xenya d'altra parte non doveva legarsi per la vita a quell'individuo: era solo sua ospite, e come padrone di casa il vecchio Petyr si stava comportando in modo impeccabile. C'era poco da discutersi.

Alla fine della cena, Lord Baelish il vecchio propose alla comitiva di fare una passeggiata a vedere non si capiva bene quale bellezza architettonica del castello, per digerire prima di andarsi tutti a coricare. Re Constant invece insistette per vedere il demone prigioniero: magari non per mettersi da subito irradiare il proprio potere magico al fine di distruggerlo – visto che pure il re, come tutti, era ormai strematissimo a causa del viaggio breve ma intenso – ma vederlo perché no? Parlarci, scoprire se il mostro avesse qualcosa da dichiarare prima della sua definitiva dipartita da questo mondo. Come fu e come non fu, alla fine Baelish si convinse: anche se non voleva. Molti della comitiva tuttavia defezionarono e preferirono direttamente la strada del letto. Non Xenya, che voleva vedere; e, con lei, il caro Jorando Pashamanyna che non l'abbandonava mai. A sua volta, neanche Sir Bastian decise di abbandonare il fianco del re, ragion per cui si recarono in cinque in visita al demone: Baelish, Constant, Bastian, Jorando e Xenya. Escluso il Lord della Valle, si trattava dello zoccolo duro degli uomini (e la donna) più fidati attorno al sovrano dell'occidente. Quelli su cui un cronachista a cui interessava il gioco della politica, avrebbe maggiormente scommesso per un ruolo ad un eventuale Concilio Ristretto del re, se Constant fosse stato veramente il re. In realtà, avrebbe pure potuto nominare per vie ufficiali un suo gabinetto all'ombra di quello che governava alla Capitale, ma re Constant non era il tipo da andare appresso a queste buffonate,del tutto simboliche. Bastian, Xenya e Jorando erano i suoi più stretti consiglieri: con o senza nomine formali.

Chissà come mai, lungo il tragitto per arrivare alla “prigione” (che Xenya immaginava naturale) che manteneva in una trappola di ghiaccio il demone delle fiamme, Baelish decise di rivolgere le proprie chiacchiere verso l'argomento del proprio figlio tenuto prigioniero da Gabryaerys a Delta delle Acque, per mano di alcuni emissari del re e in particolar modo di un ennesimo demone al suo servizio: probabilmente quello di roccia. Ancora la questione del demone infuocato non era stata risolta, e lui già – con garbo ma anche con lezio – tornava sulla questione che più gli premeva: la liberazione di suo figlio, da farsi – a suo dire – il prima possibile e ancora una volta tutti assieme. L'eloquio del politicante era pure credibile, e più parlava più Xenya gli avrebbe anche dato ragione; ma c'era un problema: se Constant avesse perduto tutti i suoi poteri, anche temporaneamente, per distruggere il primo mostro, allora inevitabilmente altre strade non si prospettavano, se non quella di scendere a Roccia del Re per accettare la nomina a Primo Cavaliere della regina. Ma Baelish, per quanto viscido e navigato come politico, era pur sempre un padre e ragionava come un padre. Se Xenya conosceva un minimo re Constant, costui non avrebbe mai accettato di scendere a Delta delle Acque a meno che lo sforzo richiestogli per distruggere il demone delle fiamme non fosse stato per lui meno che minimale. Altra cosa, quest'ultima, decisamente improbabile.

Dopo un po' che in cinque camminavano per i corridoi del Nido dell'Aquila, Xenya si accorse di provare un certo calore. Si aspettava che via via il gruppo si sarebbe diretto all'esterno, perché solo in uno di quei panorami ghiacciati di cui la Valle disponeva, poteva trovarsi il teschio nero e spoglio del mostro la cui anima era indissolubilmente legata a quella del re che sedeva sul Trono di Spade. Invece Baelish aveva guidato il gruppo verso segrete sempre più in profondità e piene di torce e fiaccole anche più dei corridoi dei piani alti del castello. Tanto era vero, che Xenya – cosa anomala per una che si trovava alla Valle di Arryn – aveva perfino cominciato a sentire un certo tepore. Non tanto da togliere la pelliccia prestatagli gentilmente dal padrone di casa, ma da starci fin troppo bene sì. E più si andava avanti, più calore si avvertiva e meno neve si vedeva. A un certo momento, lo stesso re Constant ebbe a domandare: «Lord Baelish: è ancora molto distante la prigione del demonio? Devo ammettervi che arrivando a questo punto avevo immaginato che avrei sentito freddo»

«No, Maestà, non è lontana» rispose il Lord della Valle «ma... ecco, è lontana dal castello. Abbiamo deciso che questa fosse la decisione migliore: seppellire sì il teschio nel ghiaccio, ma lontano dall'abitato e dal palazzo. Per questo stiamo attraversando tutta questa serie di cunicoli. Non siamo più nella zona del castello: siamo scesi, ma ci siamo anche allontanati nel sottosuolo»

«Astuto»

«Doveroso, direi. Per proteggere la mia gente».

Avevano pensato fin troppo. Proprio ora che Constant aveva sollevato la questione, il Lord della Valle portò lui, Xenya, Bastian e Pashamanyna davanti a uno spesso muro, cinto da una nera cancellata. Baelish cacciò fuori dalla tasca un rumoroso mazzo di chiavi ed aprì il cancello. Continuava ad esserci sempre più caldo. Quello che Xenya vide al di là del cancello, non le piacque per niente...

Era esattamente per come glielo avevano descritto: alto ed inquietante, con un corpo vestito di lunghissime lane e cotoni, una sorta da gigantesco pastrano da vecchio nobile, ma... decisamente non umano. In alto, l'orrendo teschio nero e sorridente. Sulla parte alta di esso, una lucente corona nera piena di punte. La corona d'ossidiana. Il corpo, celato dal cappottone scuro, sembrava esser composto da aria o denso fumo. E poi il particolare più importante: il demone delle fiamme non era imprigionato. Non lo era, e si trovava circondato da fiamme ad una temperatura che Xenya avrebbe giudicata più che consona per la sua “salute”, o almeno per il suo benessere.

«TU, BAELISH!» gridò re Constant «Brutto verme!»

«Ve l'ho detto, Maestà!» disse il Lord traditore, correndo rapidamente dietro l'accesso alla cancellata e richiudendolo con numerose mandate: il re, Xenya, Bastian e Jorando erano quindi adesso chiusi dentro una gabbia. «Ve l'ho detto, Maestà!» riprese Baelish «La mia priorità assoluta va a mio figlio. E il re sul Trono di Spade, mesi addietro, mi ha giurato che lo libererà se vi consegno a lui»

«Schifoso!» commentò Sir Bastian «Lo prospettavi da mesi! Sin da quando ci hai raggiunti a Crakehall!»

«Da prima, mio signore. Ma non c'è nulla di personale: lo giuro. Solo politica, re Constant, squallida, nauseabonda politica». Furono le ultime parole del Lord della Valle, che sparì per i corridoi che avevano condotto tutto il piccolo gruppo in quella trappola.

«È lui» fece ancora Bastian, che dei presenti era l'unico che conosceva il demone, «è Corarus. Lo stregone delle fiamme, servo di mio fratello»

«Non pensavo di rivederti, Bastian» fece il mostro con voce spettrale «Immaginavo avessi trovato un posto comodo da qualche parte, che ti evitasse il rischio dell'azione»

«Non hai mai saputo niente di me, demone. Né capito»

«Importa poco. Anzi, sarà un vero piacere incenerirti con il resto dei tuoi nuovi alleati»

«Basta chiacchiere!» gridò Constant che già da un pezzo si stava preparando: Xenya aveva osservato ogni momento della trasformazione di entrambe le mani e gli avambracci del re in gelidi pezzi di ghiaccio, pronti a liberare energia fredda; ma l'aria rovente e ferma di quella cantina glielo avrebbe permesso abbastanza a lungo?

Anche lei decise di non aspettare oltre e, non appena Constant pronunciò quelle sue ultime due parole, gettandosi sopra il mostro, lei tirò fuori la sua balestra e cominciò a colpirlo a sua volta, cercando di mirare al teschio. Anche il signor Pashamanyna fece lo stesso con il suo arco e le sue frecce: ormai il dato era acclarato, bisognava staccare la testa ossea e marcia dal resto dell'energia da essa sviluppatasi a conformante quella specie di “corpo”.

Passò davvero poco e Xenya si rese conto che forse era davvero finita. Stavano per essere sconfitti. Il re scarseggiava, in quell'ambiente, a ritrovare abbastanza potere per creare del gelo. E il demone, a sua volta, pareva acquisire sempre maggior vigore dalla situazione. L'aria dentro il pastrano sembrava gonfiarsi sempre di più. Finché dalle maniche del mostro, anziché le braccia grigie che c'erano state fino a poco prima a brandire il gigantesco spadone nero a due mani, spuntarono come delle colate di quella che a Xenya parve lava. Una lava liquida ma senziente, che il mostro direzionava come fossero le sue braccia. Non era diverso da quello che aveva fatto il demone delle fonti, Mawldor, con le onde del mare presso il quale era avvenuto il suo ultimo scontro: ancora una volta, contro Xenya, Constant e Pashamanyna. Gli stessi che stavano ora per morire per mano del demone di fuoco.

«È finita, vostra maestà!» gridò dunque il demone, mandando fuori una vampata di fuoco e luce che irradiò tutta l'ampia cella sotterranea; Xenya pensò che in effetti fosse finita davvero. Ancora il demone: «È giunto il momento di bruciare!». Così quindi finiva il viaggio di Xenya l'esploratrice: dopo anni e anni di viaggi all'aria aperta in giro per il mondo, sarebbe morta nelle profondità di una montagna innevata, senza più aria nei polmoni e con un mucchio di cenere e fumo a farle compagnia per l'eternità.

Ma non avvenne. Un rumore fortissimo si precipitò sull'ambiente, ben più forte di qualsiasi vampata infuocata o urla di demone. Mille volte più forte! Era il suono di un'intera parete di muro e roccia che crollava tutta assieme: scostata, fatta da parte. E di un drago che esalava tutta la sua bestialità. Non però un drago comune: un drago composto interamente di luce verde.

Successe tutto rapidamente, ma nella testa analitica e abituata alle emergenze di Xenya, fu invece piuttosto lento: il demone delle fiamme, visto che d'improvviso piovve il gelo su lui e tutt'e e quattro le sue quasi vittime, perse in una volta ogni sua forza, ridivenne soltanto un teschio, cadde al suolo e scivolò lontano sugli strati di neve in pendenza, forse andandosi a sfracellare da qualche parte a valle. Il re paradossalmente riprese un po' di energia, e ritornò alla sua vecchia possibilità di utilizzo sia di fuoco che di ghiaccio, energie che subito – svolazzando – riversò sul nuovo nemico che era sorto. Dopodiché: lei, Pashamanyna e Bastian, a loro volta salvi per miracolo visto che il drago di luce si era portato via un'intera parete causando tra l'altro una discreta valanga. Tutt'e tre loro, come già il re, si rivolsero al drago cercando di fare quello che potevano: ma le loro armi non facevano breccia sul “corpo” del nuovo mostro; era come se l'attraversassero. Pareva che l'unica cosa in grado di impensierirlo fosse la magia e dunque, in quel momento, solo re Constant.

 

 

 

Petyr il giovane, dodici anni compiuti, quel tardo pomeriggio si stava addestrando addestrando con la spada. Quella normale, a una mano questa volta, anche se lui – per quanto gracile – per qualche motivo prediligeva le armi a due mani. Colui che ormai da diverse settimane lo stava addestrando, il demone delle rocce Helmon, gli aveva spiegato che un vero guerriero – uno utile, poliedrico, che in battaglia aveva sempre qualcosa da fare – non si specializzava mai in un'arma sola. Almeno in due, e che fossero diversissime. Avevano provato con l'arco, pure fondamentale e a cui Helmon ancora non aveva rinunciato del tutto, ma in sincerità Petyr non ci si trovava. Con la lama semplice invece non stava andando malissimo. Si annoiava molto più che con le armi a due mani, non ci si vedeva, non la considerava l'arma cui subito sarebbe corso in casi di emergenza, ma... l'addestramento non poteva dirsi che stesse andando male. L'ultima volta, Helmon lo aveva riempito di gratificazioni e non era una cosa accadeva sempre. Il fatto era che il demone al servizio di re Gabryaerys era tipicamente di poche parole: non diceva nulla che non fosse necessario, tutto il contrario dell'approccio che Petyr era stato educato ad avere. Gli studi di retorica che aveva compiuto lui, lautamente pagati da suo padre il Lord della Valle e della Terra dei Fiumi, prevedevano che lui avesse invece sempre qualcosa da dire. Cioè, in pratica, Petyr era stato addestrato alle parole come Helmon avrebbe voluto addestrarlo con le armi. Evidentemente, i due mondi – quello del nobile figlio di un pari e quello di un sicario tra i più temibili al mondo – ripartivano in maniera diversa le priorità loro.

Petyr aveva appena finito di fare a pezzi tutti i manichini che amorevolmente Helmon gli aveva fatto predisporre quel giorno: ed erano stati un bel po', tanto da farlo sudare non poco. In pratica, il mostro era il vero padrone del castello, anche se era una sorta di “battitore libero”. Nel senso: eseguiva l'ordine generale datogli dal re dell'occidente di tenere Petyr lì a Delta delle Acque senza farlo allontanare mai. Ma per il resto, se ne fregava altamente di tutte le responsabilità e i crucci amministrativi che spettavano ai quattro nobili signori che il re aveva piazzato al controllo di quella regione. Lui non temeva loro, ma loro temevano lui. E questo faceva di quella strana creatura, quel titano alto due uomini il cui corpo era interamente scolpito nella pietra, colui che veramente dominava il Tridente e tutto ciò che c'era attorno, anche se in verità occupava poco del suo tempo su Delta delle Acque e sui suoi abitanti. Alcune volte aiutava Petyr con i suoi addestramenti: anche spesso. Ma per il resto, il giovane Baelish non aveva idea che cosa Helmon in effetti facesse. Riposare, forse?

I manichini di quel pomeriggio non li aveva mica predisposti direttamente il mostro! Aveva ordinato a qualcuno di farlo. E a Delta delle Acque tutti facevano quello che lui chiedeva: era lui ormai il padrone. Ma non erano stati granché duri come avversari, anche quando Helmon incominciò a lanciarglieli contro: erano troppo leggeri. Troppo fasulli per essere qualcosa che simula la fisionomia di un uomo. Petyr pensava che fosse oramai giunto il momento di mettersi ad allenare con qualcosa di diverso, di più utile, più verosimile. Ma non aveva idea di come fare. Aveva anche accennato al mostro che cominciava a sentire questa esigenza e che, per quanto apprezzati, quegli addestramenti stavano incominciando a divenire via via ripetitivi. Ma come fare, se non con una persona in carne e ossa?

Il giovane Baelish li aveva già visti prima, mentre si allenava, ma adesso quel gruppetto di sei ragazzini popolani – tutti lerci e smilzi – che aveva ridacchiato tutto il tempo, si stavano addirittura avvicinando. Uno biondino, un po' più alto della media degli altri, con una faccia un po' più da furbetto, si permise di dire: «Hey: sei scarso, principino! Torna a palazzo a leggere i libri, che la spada non è cosa tua!»

«Non mi pare che io stia facendo niente che vi disturbi» rispose Petyr, che era linguacciuto e non aveva niente da temere da quei poveracci, «siete voi che lo state facendo con me! Perché non andate da qualche altra parte a ridere o a... fare qualunque cosa facciate voialtri»

«Noi cerchiamo un ottavo: per un torneo tra di noi, ragazzi. Alla spada. E tu... sei nostro coetaneo»

«Un ottavo? Siete in sei!»

«Il settimo è malato. Si riprenderà. Oh, ma: principino, noi facciamo seriamente eh! Non abbiamo intenzione di pagare qualcosa per averti fatto male. Lo dicevo: per me, sei scarso e puoi tornare al tuo castello. Ma Garvyn, qui, dice che invece ci sta di invitarti»

«Ci manca comunque un ottavo!» disse il più grassoccio del gruppo «Che torneo è?»

«Un torneo del popolo!» insistette il “capo” «Che duella con il popolo».

Se Petyr stava capendo bene, quei sei ragazzini – tutti più o meno suoi coetanei – lo stavano “invitando” a giocare con lui a un torneo di spade. Ma temevano le conseguenze di ritrovarsi in mezzo a loro un estraneo, con costumi, mentalità e comportamenti decisamente lontani dai loro. A lui non fregava niente di queste cose. «Va bene» replicò senza esitazione «ci sto. Quando?»

«Lord Baelish...» provò ad immischiarsi il demone Helmon il quale sì, suscitava un certo terrore nei ragazzini visto che si mantenevano ben distanti, ma comunque resistevano: cioè non erano scappati via urlando, non appena il demone aveva parlato. Chissà quanto ci avevano ragionato, prima di lanciarsi in quell'invito al loro Lord, protetto di quel mostro.

«Quando?» insistette Petyr, fregandosene dell'opinione del mostro: voleva provare un addestramento con delle persone vere e non con dei manichini. E poi: chissà, magari si sarebbe anche presentata l'occasione di un'amicizia. Lui non aveva molti amici: i figli dei grandi signori che gli faceva bazzicare sui padre erano tutti con la puzza sotto il naso, e comunque si erano dileguati da quando Gabryaerys aveva preso la Valle e aveva fatto di Petyr un prigioniero sotto sorveglianza costante. Adesso, al giovane Lord della Terra dei Fiumi era tornata la voglia di socializzare.

«Ancora non lo sappiamo... tanto ti troviamo qui praticamente ogni giorno, principino, no? Ti avvisiamo noi»

«Smettila di chiamarmi principino. Non sono un principe. Al massimo: “mio Lord”»

«Non ti ci chiamerò mai»

«Te lo farò dire con la forza»

«Va bene: ora basta!»dicendo questo, il demone degli elementi si alzò per mettersi in mezzo tra le due fazioni, ma non vi riuscì: nel tempo che lo facesse, i sei ragazzacci della campagna corsero via, ridacchiando. Uno di loro – né il capo né Garvyn – trovò, correndo, il tempo di aggiungere: «Guarda che il torneo si fa con le spade di legno eh, non con quelle vere, principino! Noi mica le abbiamo quelle vere!»

«Peccato» disse quindi Petyr al solo Helmon, poiché solo lui era rimasto, «se avesse continuato a chiamarmi principino, una bella lama vera sarebbe stata la cosa più adatta»

«Cosa c'è che t'infastidisce di quel termine?» domandò il mostro, con la sua voce cavernosa, piena di detriti, «Dopotutto: ti elevano di grado»

«È il tono. Mi deridono. È normale: la massa contro il singolo. Se fossi io circondato da cinque aristocratici come me, sarebbe quello stupido popolano in minoranza. Dì: ma tu che razza di precettore eri?»

«Sono passate ere geologiche. Questo continente, di cui noi ora calchiamo la terra, non aveva nemmeno gli stessi confini. I ricordi sono... vacui, fumosi. Ma credo che insegnassi la magia»

«E ora sei passato alle lame...»

«Questa mia conoscenza, la devo agli anni da servo del sigillo di Cair Dedalos. È secolare anch'essa ma... non la mia originaria inclinazione»

«Mi aiuterai a vincere quel torneo?»

«Secondo me, non avresti dovuto acconsentire. Non ce n'è alcun motivo serio e ti espone a dei rischi»

«Sono stanco di restare chiuso tra le mura del castello! Non è una fuga: non ho dove andare! Si tratta solo di uno svago!»

«Lo comprendo ma... potresti farti male. Non li conosci neanche quei ragazzini, potrebbero... trattarti come non devono»

«Helmon» Petyr si liberò in un sorriso sincero «Ti ringrazio! Da quando mia madre è morta nessuno mi ha fatto sentire così... pensato. Sì, insomma: che pensino al mio bene. Da mio padre ogni cosa penso che arrivi, meno che il mio bene. I suoi interessi, quelli di Casa Baelish, o del Regno: non lo so. Ma decisamente non la mia felicità»

«Sono sicuro che tuo padre ti vuole bene, giovanotto»

«Sì, ne sono sicuro anch'io. A suo modo, però»

«Esiste un modo giusto e uno sbagliato di volere bene?»

«Senti: non è questo il punto. Per una volta, non è mio padre l'oggetto della discussione. Sono io. Che ti ringrazio di pensare a me. E che ti chiedo ufficialmente... di supportarmi nel mio scontro con quelli là»

«Farò quello che posso, piccolo Lord. Ma tieni alta la guardia, siamo intesi?»

«Certo, amico mio». Chiudendo con queste parole, il giovane Baelish se la sentì di condividere un sorriso con il mostro. E quello – incredibile a dirsi – ricambiò! Il teschio nero di Helmon si dispose in modo da inarcare quella che una volta doveva essere la bocca e formare un'espressione decisamente non consueta per lui. Qualcun altro si sarebbe spaventato a morte. Ma non Petyr: lui si fidava di quel mostro. Più di quanto non facesse del suo lontano padre, il Lord della Valle, con le sue infine trame e le pallide promesse.

 

 

 

Se solo un qualche cantore furbo avesse deciso di metterci su un paio di ballate, Garhel Sawela era sicuro che la storia di quella giornata avrebbe garantito successo assoluto tra tutti coloro che sarebbero venuti, abitanti della Valle o anche di altri luoghi. Lo scontro tra un re magico e un demone millenario mai prima d'ora descritto in nessuna cronaca, e poi l'avvento di un drago di luce – che Sawela personalmente era certo avesse qualcosa a che vedere con quello vero, latitante in Essos – era qualcosa di inaudito. Tre, quattro forze – di cui una metà sovrannaturali – tutte mescolate insieme, ma con interessi diversi, e dunque in guerra l'una con l'altra: una roba da poema epico. Lui quel demone dal teschio nero di cui tutti parlavano, purtroppo non l'aveva visto: gli avevano solo raccontato quello che era accaduto. Ma il drago: oh, se l'aveva visto. Doveva esser stata una creatura della medesima natura di quella che, in oriente, aveva fatto in poltiglia in pratica l'uomo più ricco e potente di quell'angolo di mondo: Lord Goldsmith di Braavos.

Aveva le dimensioni di un drago e faceva i suoni che uno immagina facciano i draghi. Però, era materiale fin quando si trattava di sputare un devastante fuoco verde brillante in grado di ardere ogni cosa; ma non lo era veramente: non c'era modo di scalfirlo con nulla, non lo si poteva toccare! Un'arma devastante e pericolosissima che in effetti aveva fatto danni incommensurabili allo splendido castello di Nido dell'Aquila: che era tutto il contrario delle case dove a Garhel sarebbe piaciuto abitare, ma che non si poteva negare fosse un capolavoro dell'antica architettura, una di quelle strutture uniche al mondo. E Garhel poteva dire, nella sua condizione di uomo dimezzato, di aver assistito a tutto questo ed esserne uscito vivo. Chiaramente, ne aveva capito poco e niente man mano che la cosa si andava sviscerando. Ebbe tutto chiaro solo una volta che gli avvenimenti smisero di correre come battiti di un cuore esagitato e un pover'uomo non anziano, ma neanche più giovane (come lui), avesse modo di metabolizzarli.

Tutto accadde non appena finita la cena offerta dal Lord di quel luogo. Quest'ultimo, il re Constant e un paio di suoi confidenti (tra cui una donna, la navigatrice Xenya) che Garhel aveva avuto modo di conoscere nell'arco delle scorse settimane, si alzarono per andar a far visita al demone. Lui, Garhel, non riteneva che sarebbe stato in alcun modo utile qualora presente, e siccome non era né incuriosito dalla cosa e né francamente ben riposato, declinò gentilmente l'invito a far parte dell'itinerario, meditando invece di mettersi a dormire quanto prima. Tuttavia, come spesso accade, l'intenzione non venne seguita immediatamente dai fatti. Dopo che il Lord della Valle, il re e gli altri lasciarono la sala da pranzo, Garhel rimase un altro po' a chiacchierare con chi c'era: cortigiani del Nido più i soliti dorniani e gente del nord e dell'est, che già il re s'era portato appresso da Crakehall. Discussero di facezie, tutte già dimenticate quasi nell'istante in cui erano state dibattute. Dunque un bel manipolo di almeno sessanta uomini armati sopraggiunse nel bel mezzo della discussione su quanto fossero più poppute le femmine del sud e dal ventre largo quelle del nord, e sguainando delle lame dichiarò tutti in arresto. Adesso Garhel, Banfred, quegli Applegate del nord e quei mercenari di Dorne erano tutti sotto il controllo dei cavalieri di Nido dell'Aquila. Alla fine il tordo aveva cantato la sua canzone. Baelish non aveva smentito la lunga e assodata tradizione della sua famiglia: aveva fatto il doppio gioco.

Per quanto il colpo di scena fosse in effetti riuscito, in realtà fino a quel momento si trattava di qualcosa di prevedibile. Garhel la prese con filosofia: non gli era mai piaciuto Baelish, e adesso aveva una motivazione in più per non apprezzarlo. Ma tutta quella situazione di andarsi a impelagare nelle dinamiche politiche del Westeros – altra cosa che non gl'interessava manco quando era Tribuno Popolare del re – non l'aveva mai condivisa. Aveva detto e ripetuto a Banfred che non capiva cosa cavolo ancora ci stavano facendo lì, appresso a un re che pubblicamente ed esplicitamente gli aveva ormai fatto capire che per lui i loro problemi erano secondari. Ma Banfred era quello con le gambe funzionanti, e quindi Banfred momentaneamente decideva. Ora, ovviamente, le cose non erano andate come previsto, perché mai nel Westeros andavano come previsto: tutto era sempre molto più ingarbugliato e complicato rispetto all'oriente. Ogni cosa aveva un sottotesto, un altro significato.

I neo-prigionieri e i loro nuovissimi carcerieri non avevano ancora lasciato la sala da pranzo: almeno una parte di loro si trovava ancora dentro, mentre un'altra metà aveva appena raggiunto il corridoio d'uscita. Garhel, per esempio, era ancora dentro, davanti al piatto che aveva terminato di ripulire fino a solo qualche istante prima. Il nuovo nemico, questo sì che gli fece accapponare la pelle, molto più dei pallidi cavalieri montanari con un uccellino canterino sullo stendardo. Innanzitutto perché, praticamente dal nulla, un'intera parete di pietra del castello venne divelta da questa specie di zampa gassosa e unghiuta di un intensissimo color smeraldo. Letteralmente atterrito, con tutte le catene e i sigilli del caso, Sawela – che di norma si reputava un uomo coraggioso – in un primo momento si ritrovò a darsela a gambe levate: il che lasciava intendere la gravità della situazione, visto che in quel particolare momento della sua vita le sue gambe erano i gomiti. L'ex Tribuno capì che non aveva dove andare: il mostro di pura energia era troppo grande! Per di più, guardandosi attorno, non poté non accorgersi del fatto che in molti avevano colto l'occasione e preso l'attacco del “drago” come un diversivo. Non solo quei cavalieri dell'albero di mele, non solo quegli strani combattenti dorniani, ma gli stessi Banfred e Sir Poll dei Gaholla stavano lottando per liberarsi dal giogo degli uomini di Baelish. C'era quindi una battaglia nella battaglia: non solo il drago contro tutti, ma anche i prigionieri contro gli imprigionatori, e tutto contemporaneamente.

A un certo momento, il mostro di pura luce emanò perfino un suono che insindacabilmente scimmiottava la voce umana. Pronunciò delle parole molto chiare, per quanto spettrali; queste: «Constant della Casa Lannister!». E poi, tanto per far rabbrividire Garhel ancora un altro po', le ripeté con inquietante precisione: «Constant della Casa Lannister. CONSTANT DELLA CASA LANNISTER». Garhel non ci capì più niente. Seppe solo ce era riuscito ad uccidere l'uomo dei Baelish che aveva cercato di tenerlo incatenato e a liberarsi rapidamente delle catene e inoltre che, da quello che lui poteva vedere, praticamente mezzo castello era venuto giù. Di sicuro l'intera sala da pranzo e tutto quello che aveva avuto attorno. Macerie e soltanto macerie era ciò che il Tribuno Popolare riusciva ora a scorgere attorno a sé. E poi, ancora dopo poco ma non pochissimo, ecco affacciare la battaglia delle battaglie: un incomprensibile e misterioso mostro di pura magia, contro un uomo. Un re. Un re volante e in grado di lanciare raggi di ghiaccio e di fuoco. E mentre con un occhio Garhel si godeva quello spettacolo irripetibile del re di Lannister contro il drago di luce, con l'altro e con la sua fedele scimitarra– sempre costretto nel suo zainetto sulle spalle dell'elefantino Panecha – cercava di dare il suo contributo nella “lotta di liberazione” da quegli aguzzini molto temporanei e traditori per tradizione che i Baelish altro non s'erano dimostrati.

La battaglia durò fino a tarda notte, ma alla fine il re riuscì nell'impresa. Garhel lo vide bene: il re scagliare la sua ultima intensissima energia. Il drago di luce esplodere in mille frammenti simili a comete nell'eternità di un nero cielo invernale senza nuvole. E infine ancora Constant: precipitare al suolo come un corpo morto, completamente senza sensi, senza forze e forse senza vita.

A nottata conclusa, arrivò il momento della conta dei morti e dei feriti. A quanto pareva, non solo Constant aveva perduto i sensi (ma era vivo!), ma anche lo stesso Lord della Valle, rimasto gravemente offeso dal crollo di un pilastro portante tra il terzo e il quarto piano del Nido. Questo significava che adesso le redini della contrattazione tra le due parti che s'erano appena combattute, ma che insieme erano sopravvissute al disastro, dovevano necessariamente prenderle altri individui. A nome di re Constant, parlò quel Sir Bastian che a Garhel non era mai andato giù, pure se era originario dell'Essos. A nome di Baelish, un Lord galoppino proveniente da una zona lì vicino. Quest'ultimo manifestò il desiderio di seppellire l'ascia di guerra, in primis cercando di stabilire una tregua che non portasse le due fazioni a tornare a scannarsi in poche ore per desiderio di ripicche e vendette varie. In secondo luogo, pur se il Lord montanaro costantemente sottolineava la sua volontà di non prendere decisioni troppo gravi in assenza del suo diretto superiore, era come se volesse sì scusarsi, ma anche giustificare il suo Lord per quello che aveva fatto, visto che lo aveva fatto per amore di suo figlio. Ora quindi, anche se non lo diceva esplicitamente, visto che ogni incomprensione era stata chiarita, suggeriva di prepararsi mentalmente ad attaccare la Terra dei Fiumi, uccidere il lì presente demone e liberare in questo modo il delfino Baelish. Quegli occidentali, avevano proprio la faccia tosta! Per fortuna, anche se aveva presenziato a quelle riunioni di confronto post-casino, Garhel si reputavo esulato da tutto questo.

Lui con l'occidente aveva finito. Lo aveva spiegato a Banfred:andava bene assecondare il re dell'occidente se si fossero visti dei frutti maturare. Invece non solo alcun frutto era maturato, ma la situazione era andata ingarbugliandosi sempre di più. Lui lo sapeva! Il Westeros e chi lo abitava erano così. Difficili, contorti, molto più di loro che abitavano il continente delle grandi dune orientali. Bisognava ritornare ai loro affari quanto prima. Loro avrebbero pensato al drago, o comunque ci avrebbero provato, mentre l'occidente avrebbe continuato a scannarsi da solo. Ora anche il giovane Panecha aveva avuto una prova di ciò che lui già sapeva. E quindi bisognava tornarsene di corsa a casa.

 

   
 
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