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Autore: rya_204    26/04/2023    3 recensioni
[ Steve / Bucky - AU - Alpha!Steve - Omega!Bucky - Baby!Nat - Fluff - Kid Fic - Mentions of Mpreg ]
Nella sua carriera di investigatore privato, Steve aveva visto tanti cuccioli chiedergli di genitori scomparsi, ma arrivavano quando avevano quindici, sedici anni. A Steve strinse il cuore perché era chiaro, dall’odore che impregnava il suo cappotto, che quella bambina era molto amata e ben protetta da chi c’era già nella sua vita e non da chi l’aveva abbandonata. Steve non voleva vederla rincorrere fantasmi.
«Lei è bravo a ritrovare cose perse,» gli disse la cucciola.
Steve annuì. «Cose e persone, ma ogni situazione è una storia a sé.»
Natalia era arrivata lì per riprendersi qualcosa o qualcuno, ma lui non accettava casi da bambini di sei anni.
Finché non lo fece.
Genere: Fluff, Omegaverse | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Natasha Romanoff, Steve Rogers
Note: AU, Kidfic | Avvertimenti: Mpreg
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Fluff -  BuckyBingo
Alpha/Beta/Omega -  StuckyBingo
Solitudine -  AllCapsBingo
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul forum Ferisce la penna: Oscar della Penna





 
Baby Nat vs Detective Rogers
 
 

 
Una volta
 
La bambina indossava un cappotto bianco e il cappuccio di pelliccia le stava come una corolla spumosa e nivea tutt’intorno al volto. Steve la guardò procedere fino alla sua scrivania.
«Natalia Barnes,» e allungò una manina.
«Detective Steve Rogers,» e gliela strinse. Anche la manica si chiudeva con uno strato morbido di pelliccia, ma la delicatezza terminava lì. Il cappotto aveva il taglio di un’uniforme militare. Era comune per i cuccioli indossare felpe o giacconi enormi. Erano gusci protettivi che richiamavano il calore della tana, che trattenevano l’odore dei genitori e li facevano sentire al sicuro. Ma spesso si preferivano forme più morbide, si abbondava con i colori. Quella cucciola, invece, si era costruita una scorza fredda e regale.
 
Nella sua carriera di investigatore privato, aveva visto tanti cuccioli chiedergli di genitori scomparsi, ma arrivavano quando avevano quindici, sedici anni. A Steve strinse il cuore perché era chiaro, dall’odore che impregnava il suo cappotto, che quella bambina era molto amata e ben protetta da chi c’era già nella sua vita e non da chi l’aveva abbandonata. Steve non voleva vederla rincorrere fantasmi.
 
«Lei è bravo a ritrovare cose perse.»
Steve annuì. «Cose e persone, ma ogni situazione è una storia a sé.»
Natalia era arrivata lì per riprendersi qualcosa, ma lui non accettava casi da bambini di sei anni.
La bambina tirò giù la cerniera della tasca e tirò fuori ritagli e articoli di giornale. Steve si allungò sul tavolo a sbirciare. Natalia aveva avuto cura nel sottolineare alcuni dei suoi successi che avevano raggiunto la stampa. Dovette riconoscerle che aveva fatto bene le sue ricerche. Dirle di no sarebbe stato difficile.
 
«Il mio papà ha perso il lavoro,» la cucciola aprì la manina e rivelò una catenina d’oro che fece scivolare sul tavolo. Gli puntò gli occhi addosso e gli disse: «Lei glielo deve ritrovare.»
Oh.
 
 
 
 
Un’ora dopo
 
«Sono mortificato.»
James continuava a scusarsi. Steve faticava a capire come lui, un alpha sconosciuto che gli si era presentato alla porta tenendo per mano la figlia, potesse avere diritto a delle scuse.
 
La stanza era angusta, ma ben riscaldata e, entrando, Steve aveva finto di studiare i disegni della carta da parati perché l’anatomia intima di quel nido gli aveva stretto un nodo alla gola. Subito dopo l’uscio, un collage di foto decorava la superficie di un comò e una, in particolare, aveva catturato la sua attenzione. Ritraeva la bambina, con le braccia intorno al collo del padre, in una posa così possessiva e con uno sguardo così deciso verso l’obiettivo, che Natalia appariva come una leonessa protesa a proteggere il suo branco. Gli ricordò lui con sua madre, anche quando era appena un pulcino incapace di tenersi su, aveva avuto quello stesso sguardo feroce e ingenuo.
E ora sedeva sul loro divano, stretto fra il bracciolo da un lato e dall’altro Natalia che se ne stava in piedi sopra la seduta del sofà. Più la cucciola gesticolava e cercava di porgergli il curriculum del padre, più James la bloccava e si scusava, ancora e ancora.
«Papà, Steve ritrova le cose che la gente perde! È bravo!»
«Le chiedo scusa, mia figlia non capisce che perdere il lavoro è solo un modo di dire.»
Steve si curvò su se stesso, sapeva che il suo aspetto poteva mettere soggezione, e alzò le mani in segno di resa. «Sono stato cresciuto da un’omega single anche io, ora vediamo come posso aiutarvi.»
Natalia alzò le manine in segno di vittoria.
James si appoggiò con le mani al comò come se avesse bisogno di un sostegno. «Quindi non sporgerà denuncia ai servizi sociali?»
Lo disse come qualcuno che si preparava a ricevere uno schiaffo e Steve capì la portata del problema da affrontare. Quel giovane omega, senza un alpha, senza un branco a sostenerlo, e quella cucciola, che si orbitavano intorno senza mai lasciare l’uno lo spazio dell’altro.
«La signora Raynor viene a farci visita una volta a settimana,» mormorò Natalia e la cosa la fece sentire così giù che si buttò a sedere accanto a lui come se la gravità le si fosse abbattuta di colpo sopra. «Fa un sacco di domande, ma non ascolta le nostre risposte.»
«La signora Raynor è l’assistente sociale,» spiegò James e accarezzò i capelli della figlia ricoprendola con il suo odore.
Steve fece quello che gli veniva meglio, si affidò al suo istinto. «Posso aiutare, voglio aiutare.» E quell’unica parola fece tutta la differenza.
 
 
 
 
Pochi giorni dopo
 
«È un albergo lussuoso e io ho poche esperienze,» James se ne stava sul ciglio della porta, a passarsi da una mano all’altra una scatola e Steve gli fece segno di entrare.
«Nulla di cui preoccuparsi,» lo rassicurò. «Fanno sempre le stesse domande a questi colloqui e so quali risposte vogliono,» aprì il cassetto, ne aprì un altro, poi sospirò e lo guardò. «Devo solo trovare il tuo fascicolo.»
 
Steve sapeva come appariva il suo ufficio, come superando quella porta si aveva la sensazione che il soffitto si abbassasse, quando in realtà erano le colonne congestionate di schedari e scatoloni a chiudere la visuale dall’alto e ai lati. I faldoni che sbucavano come erbacce tra gli scaffali zeppi, le file mute di cassetti chiusi a chiave, la quantità oscena di rullini mai sviluppati che come soldatini sorvegliavano l’intero perimetro della sala. Ma più di tutto, Steve sapeva che le prime tracce di bianco si erano fatte strada sulla sua barba e sulle tempie, di tutti i colpi della vita che lo avevano lasciato sempre un po’ più ammaccato rispetto a prima e ora, davanti a quell’omega così giovane, così puro, sentiva il peso di tutta la sua inadeguatezza.
 
James posò la scatola sulla scrivania. «In due si trova prima.»
L’odore della scatola era così invitante che Steve si ritrovò a sollevare il coperchio senza pensarci. «Sono panini fatti in casa?»
L’omega annuì. «Oh, hai delle allergie? Sono così abituato a farli per Nat che non nemmeno…»
Steve infilò un fagottino in bocca e chiuse gli occhi. Erano ancora tiepidi.
«Lo sai che non devi cucinare per me, vero?»
«Sai che non possiamo pagarti, vero?»
Steve scacciò quelle parole con la mano. «Non è per i soldi che lo faccio.»
«E io non ho cucinato perché mi sentivo obbligato, Alpha.»
James era girato di tre quarti quando lo disse. Steve rimase con il braccio a mezz’aria, la sensazione fisica, dolorosa come di un argine che gli si ruppe dentro. Perché James non poteva essersi rivolto a lui con quella parola, non poteva perché erano anni che nessuno la usava più guardandolo, perché da dopo il divorzio, da quando si era immerso nel lavoro, la solitudine era diventata come un cappotto e lui chiuso, rinchiuso, muto dentro la fodera. Senza un branco, senza qualcuno di cui potersi prendere cura, senza nessuno a cui poter dedicare i propri istinti.
«Dovrei avere del tè, sì, da qualche parte, io,» si alzò, con il viso rivolto verso lo sgabuzzino, incapace di girarsi e incontrare lo sguardo dell’omega.
 
Quando riemerse, tazze e tovagliolini in mano, James sventolava il suo fascicolo. Steve si aggrappò a quell’appiglio. «Lo hai trovato.»
«Mai pensato di assumere un segretario?»
Si lasciò cadere sulla poltrona. «Uno di quei faldoni,» e con la mano indicò vago verso la parete, «è composta da tutte le lettere di dimissioni che ho accumulato negli anni.»
L’espressione di James si fece cupa. «È così spaventoso lavorare nel ramo investigativo?»
Si passò una mano sul viso. «Mi chiamavano sfascia famiglie, i miei assistenti. Hai idea di quanti omega al mese entrano qui per poi procedere a un divorzio? Le famiglie sono piene di segreti e dopo un po’ questo lavoro ti aliena dagli altri. Nessun segretario ha mai retto più di pochi mesi e alla fine ho smesso di assumere.»
James inclinò il capo e Steve abbassò gli occhi sul suo tè per non guardare quella linea del collo pura e intatta. Era stato così facile in tutti quegli anni ignorare ogni omega incontrasse, era così facile ignorare tutti tranne James.
«Nessuno si sveglia un mattino e decide di mettere alla prova il proprio compagno per caso. Sapevano già che avresti trovato qualcosa.»
Steve sorrise. «Non tutti la vedono così.»
«E tu? Come ti vedi?»
«Non mi piace chi mente. E non mi piace chi lo fa nascondendosi dietro la scusa o la pretesa di proteggere chi ama. La verità spesso ha un potere liberatorio e, quando arrivo alla fine di un caso, mi piace questa sensazione di aver riappacificato qualcuno con la propria realtà.»
 
 
 
 
Un mese dopo
 
Nat era entrata come una trottola. E Steve aveva girato con lei per dieci minuti buoni, mostrandole il computer e la stampante e la macchina fotografica, così, quando era andato a salutare Bucky, l’omega era già immerso negli scatoloni del sottoscala. Aveva un metodo, ne erano la prova le pile di sacchi da buttare da un lato e gli schedari mezzi riempiti dall’altro.
«Lo sai che non sei obbligato, vero?»
«Sì, Steve, me lo hai fatto notare la settimana scorsa e quella ancora prima.»
«Dico solo che è il tuo giorno libero, un lavoro lo avresti trovato con o senza di me, non sei obbligato a ripagarmi riordinando questo...» e spalancò il braccio a racchiudere tutta la stanza.
«Volevo far aggiungere un secondo lavoro al mio fascicolo, più scartoffie per la signora Raynor.»
Steve si illuminò. «Potremmo farlo davvero. Ho un contratto precompilato da qualche…»
«Steve! Stavo scherzando!»
«Steeeeeeve! Posso stampare le foto?»
Steve si girò verso la voce. «Il capo chiama, però davvero Buck non mi devi nulla.»
«Lo so, Alpha.»
L’omega gli rispose con una voce così bassa che Steve, interdetto, si fermò a guardarlo. Bucky aveva tratti delicati, sorrisi timidi, sempre trattenuti e capelli castani che cambiavano colore a seconda della luce. Steve avvertiva l’impulso di toccarli ogni volta che succedeva.
 
In ufficio, Nat si era accoccolata sulla poltrona di Steve rivendicandone la proprietà e si era tirata addosso il cappotto di lui alla maniera di una coperta. Si era ricoperta del suo odore, come se lui fosse il suo alpha.
Steve sentì i suoi istinti protettivi azzannargli il petto.
Quella cucciola e quell’omega lo stavano scegliendo come loro alpha. Il divorzio aveva radicato in lui questo sentimento di desolazione, di essere un alpha destinato a venire abbandonato e lui si era arreso alla solitudine. Ma ora con quelle richieste timide e sommesse e così fragili, Bucky e Nat gli stavano chiedendo di venire accolti nel suo branco. E lui rispose al loro richiamo.
 
 
 
 
Qualche tempo dopo
 
Fare l’amore con Bucky era come visitare da estraneo il proprio corpo e più l’omega lo mappava, lo toccava e lo baciava, più Steve si sentiva diventare un luogo, uno spazio fisico al quale il suo omega potesse appartenere. Uno spazio dove Bucky potesse tornare ogni notte, in cui fosse al sicuro, accolto e amato.
Dopo l’amplesso, Bucky gli saliva sopra e si stendeva sopra la sua schiena. Gli stringeva le braccia intorno al petto e Steve si lasciava immobilizzare, il corpo del suo omega caldo e morbido sopra la sua schiena, il suo odore ad abbracciarlo. Bucky gli chiedeva il permesso e Steve diceva sempre di sì e Bucky lo mordeva sul collo.
«Lo sai che non durerà più di qualche settimana, vero?»
«Ti morderò di nuovo, Alpha.»
Le ghiandole degli alpha non funzionavano come quelle degli omega, la cicatrice sarebbe sparita, lo sapevano entrambi, ma a Steve piaceva ascoltare la risposta di Bucky, gli piaceva come la sua voce assumesse il tono di una promessa.
Potevano rimanere in quell’abbraccio per ore.
«Non ti peso?» Gli chiedeva l’omega.
«Vorresti spostarti?»
Bucky diceva il suo no con una voce sommessa, imbarazzata.
«Bene, allora riscaldami.»
Bucky ubbidiva e lo ricopriva con le braccia e tutto il corpo.
Se ne stavano sotto le coperte, insonnoliti e appagati, incapaci di rinunciare a quelle ore rubate. Bucky gli chiedeva di raccontargli una storia e lui gli spiegava i suoi casi, era importante per lui che l’omega capisse il suo lavoro, l’imprevedibilità di questo e i suoi orari anti sociali.
«Non voglio che pensi che ti trascuro o che non mi interessi abbastanza. Ma ci saranno settimane in cui mi vedrai ogni giorno e altre in cui ti lascerò parecchi messaggi in segreteria.»
Bucky rispondeva che andava bene.
«E quando non ti andrà più bene?»
«Alpha,» Bucky si puntellava con i gomiti sopra le sue scapole e Steve pensava che cercasse apposta di fargli male, di premere con le braccia per ricordargli che fosse lì, che non si sarebbe spostato. «Non quando, ma se.»
Steve si correggeva. «E se non ti andasse più bene?»
«Non ti morderei più.»
Quel morso era un bisogno per Steve tanto quanto per Bucky, avevano entrambi le loro paure da placare.
 
Un giorno Steve gli raccontò del suo divorzio. Di come si fossero sposati giovanissimi anche se tutti dicevano loro di aspettare.
«Ma siamo sempre stati entrambi testardi.»
«E poi cosa accadde?»
«Vivemmo insieme per una decina d’anni, un mutuo, una villetta con la piscina e tutto quanto. Un giorno, invece di andare in ufficio, rimasi in auto a seguire mia moglie. Due ore dopo, sapevo avremmo divorziato.»
«Mi spiace, Alpha.»
«Per anni ho creduto che non avrei mai più avuto un branco, che per chiunque ero solo un alpha di passaggio, che nessuno volesse fermarsi. La prima volta che entrai in casa tua, quel giorno che Nat venne da me, non riuscivo a non guardare la vostra tana, era come se mi fossi dimenticato che la gente fa queste cose. Costruire nidi, condividerli, era così tanto che non ne vedevo uno che… non so, mi colpì come fosse il primo che vedevo in vita mia. Mi ero scordato che le persone stavano insieme, tutto qui.»
Tirò su con il naso e Bucky lo baciò agli angoli degli occhi, asciugandogli le lacrime in silenzio.
 
A volte, era Bucky a raccontare. Amava parlare della figlia, ma mai di prima che arrivasse lei, mai di sé. Non andava più indietro del giorno della sua nascita. Steve aspettò, indossò il suo morso ogni giorno con orgoglio, gli chiese di rinnovarlo quando cominciò a sparire e poi ancora e ancora per settimane. Finché Bucky non cominciò a raccontare anche di sé.
Steve ricordava che la notte in cui gli parlò, per la prima e unica volta, del padre della cucciola, pioveva e tuonava così tanto che la corrente andava e veniva, sentivano la televisione che si scollegava e ricollegava a intervalli. Steve non lo interruppe mai, se lo proibì. Bucky raccontò con una voce esile, timida, provava ancora vergogna per le colpe di qualcun altro.
«Quando dissi al padre di Nat della gravidanza, sparì per tre mesi. Quando tornò, rimase abbastanza da ottenere la mia fiducia e poi sparì di nuovo e tornò e ancora e ancora. Ogni volta stava lontano da noi un po’ più a lungo, finché Nat non compì due anni, allora me ne andai io, senza aspettare di vedere se sarebbe tornato anche quella volta.»
Ogni tanto, l’omega si strusciava contro il suo collo, cercando il suo odore. Steve piegava sempre il collo, concedendogli ogni cosa.
«Questa è la cosa che mi perdono meno, aver creduto ogni volta che fosse quella buona, aver provato così tanto a far funzionare le cose.»
Steve gli premette piccoli baci sulle dite e quando l’omega cercò di liberare le mani, gliele morse, finché Bucky non si arrese e si lasciò consolare.
«Ho passato anni ad avere paura di qualsiasi alpha, non lasciavo mai avvicinare qualcuno abbastanza da potermi lasciare addosso qualche traccia del loro odore. Non lasciavo che Nat toccasse nulla che potesse darle sulla pelle l’odore di un alpha. La pediatra mi diceva che un cucciolo non può crescere solo annusando omega, che non è sano. Poi una domenica mattina Nat mi porta un alpha dentro casa e tu te ne stavi seduto a testa bassa, con le spalle contratte, come a cercare di farti più piccolo possibile.»
A quel punto Bucky alzò la voce. «Non ricordo nemmeno l’ultima volta che un alpha abbia abbassato la testa per primo davanti a me!»
Steve piegò il collo abbastanza da baciargli il naso.
«Ho voluto corteggiarti non appena sei uscito da casa nostra e più ti corteggiavo, più mi guardavi come se volessi chiedermi scusa, come se io ti avessi rimproverato un errore. Pensavo non mi avresti mai chiesto di uscire, pensavo non ci avresti mai preso con te, Alpha.»
«Pensavo cercassi solo di essere gentile.» Steve dovette premersi le mani contro il viso.
«Volevo essere gentile, infatti. Per te, solo per te, Alpha.»
Bucky sapeva sempre cosa dire per corteggiarlo.
 
 
 
 
Due anni dopo
 
Nat entrò nel suo ufficio con le cuffie alle orecchie e, anche a quella distanza, Steve riusciva a sentire la sua musica. Dovette salutarla due volte, prima che lei se ne accorgesse. La cucciola gli si sedette di fronte, tirò fuori quaderno e matite e iniziò a colorare.
Non era da Nat tornare da scuola e rimanere in silenzio, di solito era un fiume in piena, perciò Steve capì che era successo qualcosa.
Con un occhio sulla figlia e l’altro al computer, aspettò che fosse lei a iniziare.
 
Dopo un po’, Nat gli picchiettò la matita sull’avambraccio e Steve si allungò verso di lei. Guardò il pesciolino nel disegno e Nat gli disse:
«I bambini quando sono piccoli nuotano dentro la pancia dell’omega.»
Steve fece uno sforzo per mantenere l’espressione neutra. «Lo hai letto a scuola?»
Nat annuì. «Penso che c’è un pesciolino dentro la pancia di papà ma ha paura a dirlo.»
Steve allungò la mano ad accarezzare quella della bambina. Si accorse che la cucciola teneva la voce bassa e anche lui si era allungato in avanti come se si stessero scambiando segreti, ma non c’era nessuno oltre a loro due.
«Perché pensi che papà ha paura?»
La cucciola ripassò con la matita linee già tracciate. «L’alpha prima di te se ne andò quando arrivai io.»
«Nat,» le strinse la mano e le strusciò il suo odore lungo il palmo e il polso. Il suo odore si era fatto denso, feroce, protettivo e la cucciola avvicinò il naso per assorbirne di più. «Non potrei mai andarmene, non potrei mai lasciarvi.»
Nat ci pensò su, sfregando il naso nella giuntura fra il pollice e l’indice dell’alpha e Steve si allungò a posarle tutte e cinque le dita sul collo, un marchio più duraturo.
«Sarò sempre qui per te. Qualunque cosa succeda, tu saprai sempre dove trovarmi, te lo prometto.»
Nat annuì. «Forse se lo dici a papà, anche lui smette di avere paura.»
«A me piacerebbe molto dirglielo insieme a te, che ne pensi?»
 
 
 
 
Un paio d’ore dopo
 
Steve guardò la figlia sollevare la bottiglia del latte e versarne un po’ sul tavolo, riprovarci e centrare la ciotola. Rimase alle sue spalle, abbastanza vicino che lei sapesse di potergli chiedere aiuto, ma lasciandola provare da sola.
Il primo uovo cercò di romperlo da sola, poi si girò a guardarlo e Steve le prese le mani e la guidò mostrandole come fare.
A poco a poco, la torta prese forma e Nat si divertì a giocare con la glassa finché non completò la dedica. Benvenuto cucciolo.
Nella sua semplicità, mostrava tutta la sua verità.
Quando tirarono fuori il dolce dal forno, aspettarono che Bucky tornasse a casa.
 
Bucky non smetteva di sorridere.
Si sistemarono sul sofà schiacciando Nat fra loro due e mangiarono la torta. Sia Steve che Bucky odoravano l’ansia della piccola e, ricoprendola con i loro odori, sapevano si sarebbe tranquillizzata. Più tardi, quando ormai Nat dormiva in camera sua, Bucky chiese a Steve cosa gli avesse fatto cambiare idea rispetto al piano iniziale.
«Non dovevamo dirglielo insieme?»
Steve sorrise e se lo trascinò addosso. Affondò il naso fra la spalla e il collo di Bucky e solo quando sentì che il suo omega e il suo cucciolo stavano bene, si rilassò. La gravidanza era ancora agli inizi e l’odore del cucciolo era troppo nascosto per poterlo annusare senza avere Bucky così vicino, davanti alla bambina cercava di trattenersi, ma appena erano soli aveva il bisogno fisico di tenerselo il più vicino possibile.
«Non so come, Nat aveva già capito tutto da sola.»
Bucky gli fece infilare le mani sotto la felpa. Anche il suo omega aveva bisogno del suo odore e Steve gli massaggiò i fianchi e la pancia ricoprendolo il più possibile con il suo odore.
«Nat ha detto anche che avevi paura.»
Bucky aggrottò la fronte. «Di cosa?»
«Che avrei fatto come l’altro alpha. Che vi avrei lasciato soli.»
Bucky cambiò espressione e Steve disse: «Non voglio che ti senti in colpa. Quello che è successo non è colpa tua e Nat reagisce a modo suo.»
Bucky gli nascose il viso poggiandogli la fronte sulla spalla. «So che hai ragione ma... saperlo e sentirlo sono due cose diverse.»
«Dai tempo al tempo.» Gli posò un bacio sui capelli.
«Quindi la sorpresa e la torta erano un tentativo di Nat di confortare me?»
«Tutti e tre?»
Bucky sorrise, Steve sentì la sua bocca aprirsi contro la sua pelle.
«Non penso che ciò che Nat abbia odorato su di te fosse paura. Ma un qualche sentimento di malinconia c’è, Buck, nel tuo odore. So che dici che sono gli ormoni a renderti emotivo, ma… sono preoccupato.»
Bucky si tirò su e gli accarezzò il viso.
«Quando aspettavo Nat le cose erano molto diverse, Alpha. Mi ripetevo di continuo che tutto andava bene, di rimanere forte e non mi sono mai permesso di ammettere quanto mi sentissi solo e spaventato. E ora che ho tutto, che ci siete voi due, mi viene da piangere perché mi sto rendendo conto di quanto sia grande la differenza fra come andò la mia prima gravidanza e come sta andando questa. Ha senso, Alpha?»
Steve lo abbracciò più forte. «Anche io mi sento così, ogni volta che mi chiami Alpha, è come se mi aprissi dentro e cancellassi tutti gli anni passati da solo.»
Bucky lo baciò sul morso che Steve aveva al collo. «Il mio Alpha.»
Steve sorrise. «Sempre.»



 

 
  
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