Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• Scritta sul prompt Amore, con chi mi vuoi dimenticare della community Khorakhane (qui la tabella del claim).
• Il titolo viene da You dei Radiohead; non c’entra molto, ma morivo dalla voglia di usarlo, quindi…
• Ambientazione random. Ci sono riferimenti all’ultima parte della continuity di Catwman portata avanti dalla serie Batman presenta: Catwoman (tipo l’identità di Selina come Irena Dubrovna, Helena e l’adozione), ma niente di che.
Salta dal cornicione al pianerottolo di una scala antincendio, poi sale sul tetto, rapida, corre fino al parapetto e lì fa schioccare la frusta; si lancia sul tetto successivo e, fermandosi solo un attimo per prendere fiato, ricomincia la corsa.
Irena Dubrovna doveva essere una nuova identità e un nuovo inizio. Doveva dare una possibilità a lei e alla bambina che portava in grembo, permetterle di vivere una vita diversa e dimenticare ciò che Catwoman era stata. Ogni cosa, nel piano originario, doveva sparire: le sue azioni, il sangue di cui si era macchiata le mani, le persone di cui si circondava – tutto, persino Batman e quello che aveva rappresentato.
Da questo punto di vista, Irena Dubrovna aveva fallito esattamente come Selina Kyle.
Il loro è un vecchio gioco; assomiglia a quello del gatto e del topo, con la differenza che il topo è un gatto e il gatto è un pipistrello. Era da tempo che non provava l’adrenalina dello sfuggire da lui – non fisicamente parlando, almeno – e adesso, mentre si arrampica, corre e salta, le sembra di essere tornata indietro nel tempo, a quando la strada da percorrere era precisa e ben delineata.
Allora, sfuggirgli significava salvare il bottino e non finire in prigione; adesso, scappare via da lui non significa niente, è solo un tentativo fallito in partenza, un rituale vuoto. Ha imparato a proprie spese che allontanarsi da Bruce – e dai propri sentimenti, nascondersi da loro, persino – è inutile: dovunque andrà, la raggiungerà sempre.
Aveva avuto una gran quantità di uomini. Sam, l’ultimo, era il padre di sua figlia – quello che, tra tutti, avrebbe potuto rappresentare qualcosa di diverso, di speciale – ed era morto. Catwoman aveva succhiato via anche quella possibilità e Selina a volte pensava – pensava davvero – che sarebbe stato bello poter avere un finale alternativo.
Se la sua seconda identità non avesse rovinato tutto, Selina starebbe vivendo il suo normalissimo sogno borghese: un onesto poliziotto per marito, una bellissima figlia, una casetta adorabile lontana dall’East End. Batman sarebbe stato solo un’ombra tra le tante, di quelle di cui non doveva assolutamente preoccuparsi; Bruce Wayne solo un nome sulla lista di vecchi spasimanti, un ricordo annebbiato, nemmeno troppo felice.
Ma non si può mai sperare eccessivamente nei se.
Si ferma. Il suo sesto senso le dice che muoversi ancora è inutile: benché non lo veda o non lo senta, lui è arrivato, l’ha raggiunta. Si guarda intorno, in attesa che le ombre prendano forma, e il cuore le batte forte per la fatica, o forse per l’anticipazione.
Compare all’improvviso, scuro e imperturbabile, e avanza verso di lei con il suo solito passo sicuro; Selina sorride. «Sei in ritardo,» lo ammonisce.
«Sono stato qui tutto il tempo,» è la sua risposta. Lei non può fare altro che concordare.
Sola, in pericolo e disperata, anche Irena Dubrovna aveva avuto bisogno di Bruce – aveva avuto tanti uomini, Selina, eppure finiva per rivolgersi continuamente a lui, alla prima necessità. Lo aveva chiamato di notte e molte notti di seguito, gli aveva messo Helena tra le braccia e lo aveva immaginato marito, o quanto meno amante – qualsiasi cosa, purché avesse un nome e fosse ben definito.
Lo aveva baciato e si era lasciata stringere dalle sue braccia, quando la paura le aveva divorato lo stomaco; era scivolata sul suo corpo come se fosse l’atto più naturale possibile, ed era stato lui a concederle quel minimo di consolazione che poteva avere, dopo aver perso Helena.
Era stato lui, era sempre lui. E, di colpo, l’idea di una vita senza Bruce – l’idea di dimenticare Bruce – le era apparsa per ciò che era in realtà: inattuabile, impossibile. Una follia.
«In un’altra vita ti avrei dato tutto, lo sai,» le dice lui.
La sua voce è calda e sa di promesse; le fa desiderare ardentemente quella vita, le fa venire voglia di cercare disperatamente quell’universo in cui sono così: insieme e felici. Non ha bisogno di tirargli giù la maschera per guardarlo negli occhi, perché ormai conosce ogni piega del suo volto, ogni inflessione del suo tono – sa con certezza che, ora, è sincero.
«In un’altra vita sarei davvero riuscita a lasciarti andare, a dimenticarti,» ribatte lei. «Ma non in questa.» L’ammissione le viene più facile di quanto avrebbe creduto in principio e, una volta che l’ha confessato, è capace di accettare la consapevolezza che le cose tra loro saranno sempre a questo modo – indefinite e dolorose.
Avanza e annulla la breve distanza tra loro per posare un bacio leggero sulle sue labbra; gli si stringe contro per un istante e poi, indietreggiando, gli dà le spalle e si allontana, perché non c’è molto altro che possa fare.
La sola e unica consolazione che possiede è che nemmeno Bruce, nonostante le donne che gli girano intorno e i doveri che lo assorbono, sarà mai in grado di dimenticarla.