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Autore: Bec77    09/11/2009    4 recensioni
(Clannad - After Story) Tolse la targhetta con il nome suo e di Nagisa dalla casella della posta, e in un impeto d'ira un giorno ridusse pure il vetro in frantumi. Non ce la faceva, pensava, quello doveva essere un incubo. Doveva solo aspettare che finisse, di svegliarsi e di trovare Nagisa accanto a sé, che lo guardava preoccupata. Sì, doveva solo aspettare... aspettare...
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Solo un incubo


La prima volta che tornò a casa ed entrò, con il sorriso sulle labbra, non aveva ancora realizzato nulla. Solo quando nessuno corse all'entrata per dargli il bentornato si ricordò che non ci sarebbe mai più stato qualcuno a farlo, e lentamente il sorriso sparì, la borsa del lavoro cadde con un tonfo a terra, e lui si piegò sulle ginocchia, ricominciando a piangere.
Aveva pensato che fosse stato tutto un incubo. Quella mattina, come se nulla fosse, si era preparato e presentato al lavoro. I suoi colleghi lo avevano osservato costernati, chi lasciando cadere il mozzicone di sigaretta a terra e chi semplicemente bloccando a mezz'aria una mano, nell'atto di fare un qualsiasi gesto. Lo avevano guardato esitanti per un secondo, poi si erano alzati e, mestamente, gli avevano dato delle pacche sulle spalle.
Solo ora realizzava il perché. Solo ora si rendeva conto che Nagisa non c'era più, che non era stato un incubo, che veramente lei aveva preferito mettere al mondo la loro bambina piuttosto che avere la certezza di sopravvivere pur senza quella creatura tutta rossa, urlante e dalle guance paffute.
Per un attimo pensò proprio alla loro Ushio, e un moto di rabbia lo portò ad alzare il pugno e sbatterlo sul pavimento dell'ingresso, facendosi male. Il dolore si propagò fino alla spalla, che cominciò a fargli più male del solito; se la afferrò con l'altra mano e rimase un po' così, mordendosi il labbro inferiore per arginare le lacrime di dolore, frustrazione e rabbia che lo stavano accecando. Chiuse gli occhi, li strizzò e si alzò in piedi, barcollando.
Si buttò semplicemente sul futon, sfatto come lo aveva lasciato quella stessa mattina, e lì rimase. Ma non si alzò nemmeno il giorno dopo: stette ancora lì sdraiato, nella stessa posizione, desiderando di morire o di risvegliarsi da quell'incubo.
Perché doveva essere un incubo.
Perché Nagisa non poteva essere morta. Non lei, non la sua Nagisa.
Si rifiutava di credere che non fosse un incubo, era impossibile...
Per un attimo gli sembrò di sentire il vagire di un neonato. Solo troppo tardi si accorse che la sua mente aveva richiamato i ricordi del parto, di quella piccola neonata tutta rossa che strillava a pieni polmoni, cercando di attirare l'attenzione. Era piccola, troppo piccola. Chissà come stava in quel momento, se aveva smesso di piangere, se i genitori di Nagisa l'avevano nutrita, vestita, fatta addormentare...
Lo colse nuovamente un moto di stizza. Cosa gliene importava di quella bambina, ora? La sua Nagisa non c'era più, era colpa sua, era solo colpa sua. Se non fosse nata ora Nagisa sarebbe nel suo futon accanto a lui, a sonnecchiare beatamente, magari fra le sue braccia, e lui sarebbe lì a guardarla con il sorriso sulle labbra. Per colpa sua, di Ushio, ora non avrebbe più potuto rivedere la sua Nagisa.
Di nuovo, mordendosi un labbro e chiudendo gli occhi cercando di arginare le lacrime, si addormentò.

E così fu per molti giorni...
Tanti giorni...
Infiniti... e vuoti... giorni...

Sanae lo guardò tristemente, fissando le sue occhiaie, la barba incolta, i capelli più lunghi e com'era dimagrito. Si mise una mano sulle labbra ed entrò chiedendo con voce velata il permesso, poi si andò a sedere al piccolo tavolino tondo al centro del soggiorno, l'unico ambiente in grado di ospitare più persone, in quel piccolo appartamento.
- Tomoya-san... - lo chiamò. Il ragazzo, ancora in piedi vicino alla porta, si trascinò fino al posto a sedere davanti a lei. Fece per rialzarsi, forse per prendere qualcosa da bere, di caldo, ma Saeae lo fermò, facendogli cenno di rimanere seduto. - Tomoya-san... - ripeté, ma non riuscì ad andare avanti.
Tomoya però aveva capito. Sorrise mestamente, abbassando il capo e stringendo le mani a pugno.
- Sanae-san, sto bene – disse. Con la coda dell'occhio la vide scuotere la testa.
- No, Tomoya-san... Non sembri stare bene. Lo sai che mi preoccupo, sei come un figlio per me – replicò accoratamente, sporgendosi verso di lui per toccargli il dorso della mano sinistra, che teneva sul tavolo. Lui però spostò lo sguardo e quella mano, chiudendola a pugno sulle ginocchia, come l'altra.
- Sanae-san, non c'è bisogno che ti preoccupi. Io... sto bene -, ma mentre lo diceva si rendeva conto di quanto suonasse falso; era una frase che suonava più come una richiesta d'aiuto. Gli vennero le lacrime agli occhi, e si piegò in avanti cominciando a singhiozzare. - No, no... no, è tutto falso. Io... non ce la faccio senza Nagisa... - Pronunciare quel nome gli faceva male, ma andò avanti a farlo, continuando a uccidersi lentamente da solo.
- Nagisa... Nagisa... Nagisa! -, e più lo ripeteva più si piegava in avanti, mentre anche Sanae cominciava a piangere silenziosamente, tenendosi una mano davanti al viso, composta eppure distrutta come lui dal dolore.
Come... lui...?
Tomoya inspirò aria di colpo, bloccandosi stupefatto. Non si era reso conto di non essere l'unico a soffrire di quella perdita. Certo lo toccava nel profondo, era pur sempre la donna che amava che era morta, ma come dovevano sentirsi il vecchio e Sanae-san? Egoisticamente, non se lo era ancora chiesto.
Rialzò lo sguardo, guardando Sanae che cercava di contenere le lacrime. Aveva anche lei gli occhi rossi, un po' di occhiaie che aveva cercato di nascondere con un trucco leggero, ed era ancora più magra, sciupata. Si chiese come avesse potuto essere così egoista. Sanae-san e il vecchio avevano perso una figlia, e lui pensava solo al suo dolore.
- Sanae-san... Sanae-san, mi dispiace... - singhiozzò. La vide scuotere la testa e fermarsi di colpo, per poi emettere un lungo e straziante urlo silenzioso, piegandosi anche lei su se stessa.
Tomoya fece il giro del tavolo il più velocemente possibile, e si permise di fare una cosa che non aveva mai avuto il coraggio di fare prima: la abbracciò. Un abbraccio disperato, per dirle che condividevano lo stesso dolore; un abbraccio disperato, per dirle che poteva sfogarsi, finalmente; un abbraccio disperato... semplicemente, totalmente disperato. E Sanae gli abbracciò le spalle, continuando a piangere, ma contemporaneamente sostenendolo come avrebbe fatto una madre che cercava di consolare il figlio. Tomoya sorrise ironicamente fra le lacrime, pensando che quella donna non riusciva proprio a fare a meno di essere una madre premurosa e sempre attenta alle esigenze di tutti.
Rimasero così per un tempo indefinito, tentando di condividere almeno un po' di quel dolore per alleggerirlo all'altro.

Sanae prese la tazza di té fra le mani, ringraziando con un fugace sorriso, e se la portò alle labbra, sospirando. Si sentiva più leggera, come Tomoya, e anche un po' svuotata. Si erano entrambi liberati di un pezzo di quel macigno che gravava loro nel petto, affaticando il loro respiro.
Tomoya stava per portarsi la sua tazza di té alle labbra quando Sanae decise di rompere il silenzio.
- Tomoya-san... non vuoi sapere nulla di Shio-chan? - chiese con voce flebile. Tomoya si bloccò, rischiando di rovesciare tutto il té caldo. Fissò il vuoto per un po'.
Prima aveva sentito la rabbia impadronirsi di lui, al pensiero della figlia. Ora sentiva solo un gran vuoto, assieme alla frustrazione, e il pensiero di Ushio era molto lontano, relegato in una parte della sua mente. Sanae-san gli aveva chiesto se voleva sapere qualcosa di lei... Voleva? O no?
Appoggiò di nuovo la tazza sul tavolo, sospirando profondamente.
- Come sta? E' sana? - chiese lentamente. Non perché avesse paura di una risposta negativa, o catastrofica, ma perché non era per nulla convinto. Sanae però sorrise, e fu come se il sole avesse ricominciato a brillare un po' di più. Tomoya si sentì istantaneamente meglio, pensò che era bello vedere il sorriso di Sanae-san. Ma il sorriso si spense quando la sua mente lo ricollegò a Nagisa, facendolo sprofondare di nuovo nella tristezza.
- E' una bellissima bambina, Tomoya-san. Non fa i capricci, mangia normalmente, e dorme tanto, e gioca... - Poi il suo sorriso tremò per un istante, e Tomoya aggrottò la fronte. Gli occhi di Sanae si fecero di nuovo lucidi. - Assomiglia davvero tanto a Nagisa... - sussurrò.
Anche gli occhi di Tomoya, a quel punto, tornarono lucidi, ma si sforzò di non piangere. Strinse la tazza di té fra le mani e fissò la superficie del tavolo, che rifletteva la luce del sole invernale che proveniva dall'esterno.
- Sono contento... che stia bene – disse. Non sapeva se lo pensava realmente, era una frase che gli era venuta spontanea. Era stato istintivo, dirlo. Vide Sanae fare un sorriso tremolante e asciugarsi qualche lacrima con il polsino del maglione che indossava, tirando su con il naso.
- Tomoya-san... vieni a vederla, uno di questi giorni. Ti prego – lo supplicò la donna.
Tomoya però non se la sentiva.
- Non ancora, Sanae-san... Non ancora – mormorò abbassando lo sguardo.
- Posso immaginare perché non te la senti, Tomoya-san, però è pur sempre tua figlia... - replicò lei, cercando di convincerlo. Lui a quel punto non poté fare altro che sospirare e dire che sì, uno di quei giorni sarebbe passato da casa loro per vedere sua figlia.
- Mi dispiace lasciare a voi un compito del genere – disse poi, - … ma io... proprio non ce la faccio – continuò sussurrando. Sanae semplicemente annuì.
Per quel giorno c'erano stati troppi pianti, decisero. Così Sanae se ne andò, diretta verso casa, e Tomoya tornò a sprofondare nel suo mondo, diventato ormai un baratro oscuro da cui diventava sempre più difficile risalire.


Non andò a trovare Ushio. Non passò nemmeno per sbaglio davanti alla panetteria. Quando uscì di nuovo di casa fu per andare al lavoro e sperperare i soldi in sigarette e qualche macchinetta, pur di non pensare a nulla. Quando era a casa non rispondeva mai a nessuna chiamata, non gli importava più nulla di niente e di nessuno; voleva stare solo, così aveva deciso.
Tolse la targhetta con il nome suo e di Nagisa dalla casella della posta, e in un impeto d'ira un giorno ridusse pure il vetro in frantumi. Non ce la faceva, pensava, quello doveva essere un incubo. Doveva solo aspettare che finisse, di svegliarsi e di trovare Nagisa accanto a sé, che lo guardava preoccupata. Sì, doveva solo aspettare... aspettare...

Tomoya aspettò cinque anni. Cinque anni per rendersi conto che quello non era un incubo e che lui aveva una persona di cui prendersi cura; che era stato l'ombra di se stesso per troppo tempo; che aveva perso tante, troppe cose. Cinque anni per capire che poteva andare avanti, che doveva andare avanti. Per lei, Nagisa. Per Ushio... E per se stesso.



* * *
Note finali:
Questa è un pochino più lunga della prima, e sono soddisfatta di com'è venuta. Mi sentivo ispirata oggi, e questa parte della storia l'ho sempre immaginata così, con Tomoya disperato, “solo l'ombra di quel che è”, appunto, e arrabbiato con il mondo, forse anche con Ushio. E Sanae che cerca comunque di consolarlo, pur stando male anche lei.
Ringrazio ancora suinogiallo, questa volta però per la recensione a “Ipocriti fra gli ipocriti”, e spero che se passerà di qui e leggerà questa storia, gli piaccia altrettanto ^^

Questa storia partecipa all'iniziativa di Criticoni , Criticombola . Il prompt utilizzato è il seguente: #86. Solo un'ombra di quel che è (categoria immagini).
   
 
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