Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: Kuri    15/11/2009    2 recensioni
In Giappone, il tre marzo, si festeggiano le bambine, affinchè il loro futuro sia ricco di felicità e di ogni fortuna, perchè ogni cosa nella loro vita possa essere splendente di gioia.
C'è solo una bambina a cui tutto questo è negato per sempre.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Himawari Kunogi , Yūko Ichihara
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La bambina, la strega e le bambole





Nella casa bassa, acquattata tra i palazzi, il silenzio serpeggiava placido tra le stanze.
Non c'erano orologi a scandire il tempo e le parole venivano pronunciate con moderazione, con un tono di voce convenuto all'importanza del luogo e alla sacralità inquietante che la padrona di casa ispirava negli ospiti di passaggio. Le porte scorrevoli non venivano mai sbattute con violenza, sul tatami i passi veloci venivano attutiti dalle morbide ciabatte pronte all'uso nell'ingresso. Anche se i clienti si arrabbiavano, anche se disperatamente si torturavano per la propria sorte, ogni singulto veniva soffocato tra le dita premute sulla bocca.
A volte poteva capitare che si udissero risate levarsi dall'ombroso giardino interno, conversazioni melodiose che portavo le tracce di una gioia reciproca e sentita. Tuttavia erano eventi che accadevano assai di rado e che non trascinavano la loro allegria anche al giorno successivo. Non rimaneva alcuna traccia dei festeggiamenti né degli ospiti.
Quel giorno fuori soffiava un forte vento, portato dal mare.
Nel negozio si avvertiva la pressione dell'aria contro le pareti di legno stuccate di calce candida. Le campanelle di metallo appese nel pergolato interno sembravano impazzite e la loro melodia aveva un suono straziante.
Attraversando le stanze, un altro suono si faceva più nitido. Era un graffio metallico leggero, regolare. Arrivava superando la carta di riso decorata tesa sui telai di legno delle porte, insinuandosi tra le stoffe dei kimoni adagiati degli armadi, tra gli oggetti misteriosi addormentati al sicuro.
Entrando nell'ultima camera della casa, quella riparata dall'ombra irrequieta degli alberi, si poteva vedere la figura della donna adagiata sul pavimento, intenta ad armeggiare intorno ad un basso tavolino. La veste informale, nulla più che una vestaglia leggera, le si allargava attorno come dita lucide, scintillando di verde smeraldo alla luce della stanza come la coda variopinta di un pavone.
Accanto a lei si trovavano le due bambine. Canticchiavano sotto voce una canzoncina che parlava di fiori di sakura e di alberi come nuvole, snocciolandone le parole tra le piccole labbra a cuore mentre si infilavano tra i capelli i boccioli che prendevano dal tavolo, sottraendoli al lavoro paziente della strega delle dimensioni.
Lei non le rimproverava. Sorrideva anzi per quella melodia tenera e infantile, mentre tagliava con un paio di corte forbici le foglie dei fiori che aveva di fronte, facendo vibrare quel suono che aveva condotto il visitatore fino a lei e alla sua placida tranquillità.
Mancava più di un mese alla fioritura dei ciliegi e la primavera era riuscita a strappare un po' di vantaggio all'inverno, ma era ancora troppo presto. Malgrado il sole brillante, il vento soffiava freddo.
Yūko Ichihara ascoltava le parole ingenue della canzone e un'increspatura che poteva assomigliare ad un sorriso le piegava le labbra.
Spostò i fiori accennando ad un movimento lieve con le dita.
La composizione floreale si allargava nella ciotola di legno laccato con una tensione inquietante, quasi le corolle dai colori violenti non riuscissero ad impedirsi di sporgere oltre il bordo. Il modo in cui si allungavano sui propri steli, come ballerine in bilico sulle punte, non le facevano sembrare un semplice esercizio di ikebana, quanto piuttosto delle mani sollevate e rapaci, protese dal fondo di un brodo primordiale da cui qualche forza misteriosa cercava di uscire.
Yūko sfiorò i petali mentre appuntava piccoli fiori viola alla base del vaso, andando a riempire le zone lasciate vuote dall'equilibrio divergente dei tre fiori principali, vermigli come sangue.
Qualsiasi maestra di ikebana sarebbe inorridita nel vedere le assurde composizioni di Yūko. Tutto era contrasto violento, un grido che fendeva l'aria soggiogando il buon senso.
Un fiore scivolò di lato e si afflosciò sulla superficie lucida del tavolo.
Yūko si sentiva annoiata. Immensamente annoiata, malgrado il canto di Maru e Moro contribuisse a rendere meno ferma l'atmosfera della stanza e dell'intera casa.
Forse era quella la sensazione che provavano i normali esseri umani quando aspettavano, stringendosi sotto le pensiline delle fermate degli autobus nei giorni di pioggia. La voglia di battere i piedi con insistenza, quasi il ticchettio isterico potesse far innervosire il tempo, per farlo scorrere più veloce. Oppure l'aria che gonfiava le guance ed usciva con uno sbuffo violento, per far sapere agli dei la propria insoddisfazione.
Yūko non si lasciava andare a manifestazioni così evidenti di insofferenza, ma inevitabilmente di tanto in tanto sentiva l'attesa gravarle un po' sulle spalle, come un pensiero fastidioso. Alcuni eventi le rendevano a volte le cose più semplici. Gli amici interessanti, i clienti e le loro fragili vite, gli spiriti che tentavano di sfidare la sua potenza.
Tuttavia, mentre minuto dopo minuto il destino si avvicinava, Yūko si accorgeva che qualche volta tamburellava le dita sul tavolo sovrappensiero, quasi il suo corpo riconoscesse emozioni che la sua mente aveva imparato già da tempo a controllare. Allora rideva di cuore di sé stessa e tornava ad occuparsi delle proprie faccende.
E aspettava, in attesa che una sagoma dinoccolata e buffa si stagliasse contro la parete, evidente nel contrasto creato dalla luce. Tuttavia, il sole che avrebbe dovuto mostrarle tutto quello non era ancora sorto, e a lei non rimaneva altro che attendere paziente.
Maru e Moro alzarono la testa di scatto, appena sentirono la porta dell'ingresso aprirsi con titubanza. Anche Yūko distolse lo sguardo dal vaso di fiori per voltare appena la testa sopra la spalla, come se fosse in ascolto. I capelli neri le scendevano lungo la schiena sciolti, senza neppure un gioiello a trattenerli.
«Maru, Moro, andate ad accogliere le nostre clienti e fatele accomodare. Vi raggiungo subito.»
Le bambine annuirono con solerzia, lasciando cadere sul tatami i fiori che avevano in mano, e sgambettando fuori dalla stanza con la spensierata allegria che solo due anime vuote potevano avere. Di ogni situazione avrebbero potuto capire la gravità, ma mai avvertirne la sofferenza. Avrebbero sperimentato il lutto, ma a questo non sarebbe seguito nessun dolore.
Yūko provava una sorta di sollievo ogni volta che si fermava ad osservare le loro piccole, innocue attività. Nel momento finale, malgrado il loro ruolo, Maru e Moro almeno non avrebbero sofferto.
Si alzò con una smorfia pigra sulla bocca, sebbene quel gesto non le fosse costato alcuno sforzo.
I suoi passi non produssero alcun suono mentre percorreva le stanze, fino ad arrivare a quella in cui erano state fatte accomodare le ospiti.
Non vide neppure la donna che aspettava nervosamente stringendo il manico della borsetta tra le mani. I suoi occhi rossi scesero sulla bambina al suo fianco, sul figurino chiuso nel cappottino nero dai polsini bianchi, che faceva risaltare il pallore della pelle.
Anche la bambina alzò lo sguardo su di lei, sollevando il nasino in alto, per poter osservare quella donna strana che la studiava con tanta intensità. Aveva i riccioli neri fissati dietro il capo con un nastro candido e gli occhi scuri scomparivano di tanto in tanto dietro le palpebre dalle ciglia lunghissime.
Yūko si chinò fino a trovarsi alla stessa altezza della piccola.
«Ciao. Come ti chiami?»
La bambina trattenne appena il respiro nel sentire la voce bassa e calda della strega. Non aveva paura di quello sguardo che la scavava dentro, perché sapeva che erano sempre stati gli altri ad avere paura di lei, anche se era buona ed educata, e diceva sempre le cose in modo carino e sorrideva a tutti.
«Kunogi Himawari.»
«E dimmi, Kunogi Himawari, sei venuta qui perché desideri qualcosa?»
Quella domanda sembrò riecheggiare nella stanza milioni di volte, e quell'eco sembrò crescere d'intensità, invece che diminuire. Himawari rimase a fissare la donna, travolta dall'intensità del suo sguardo, e fece piano segno di 'no' con la testolina.
Tuttavia c'era qualcosa che la bambina desiderava, più di ogni altra cosa, ma alla mamma non avrebbe fatto piacere sentirlo, e questo lo capiva già molto bene, malgrado avesse solo sei anni.
Kunogi Himawari desiderava solo di non essere mai esistita.
Yūko sembrò annuire a quella flebile frase appena pensata, chiudendo gli occhi dalle palpebre truccate di viola. Si rialzò lentamente e voltò lo sguardo verso il tavolo, incrociano un'altra delle sue assurde composizioni di ikebana.
La madre ebbe un singulto.
«La prego, faccia qualcosa per la mia bambina!» la sua voce strideva di lacrime, ma Yūko non la stava guardando, persa com'era nella contemplazione dei fiori. Quella donna non era altro che una figura sbiadita nel suo campo visivo. Non riusciva a vederla, sovrastata com'era dall'immagine della piccola bambina al suo fianco «Le bambole Hina[1]... se mercoledì non saranno al loro posto e accadrà ancora qualcosa di simile, noi...»
«Cos'è accaduto?»
«Eravamo andati in soffitta a prendere le bambole Hina per prepararle per la festa, quando ci siamo accorti che erano sparite. La sera, quando mio marito è uscito di casa per gettare la spazzatura, si è accorto che erano accanto ai rifiuti, come se qualcuno le avesse messe lì per gettarle via.»
Yūko spostò ancora la propria attenzione su Himawari. In quegli occhi dolci e profondi non si leggeva nulla. La bambina non aveva paura, né portava le tracce della colpevolezza per aver voluto fare un dispetto ai propri genitori. Piuttosto, in fondo a quella mansuetudine pacata, si poteva scorgere un'immensa tristezza e uno sconfinato senso di rassegnazione.
«Mi dispiace, ma non posso fare nulla per voi. Il prezzo per ricompensarmi sarebbe decisamente troppo alto.»
«Ma...!»
Bloccò le rimostranze della madre alzando la mano affusolata e candida.
«Posso solo darvi un consiglio. Preparate altri dolcetti. Forse le bambole potrebbero decidere di restare.»
La donna afferrò la mano di Himawari, stingendo le dita tanto che le nocche le sbiancarono. Eppure, sul viso della piccola, non comparve alcun segno di sofferenza.
«Quanto le devo?»
Yūko scosse la testa.
«Era solo un consiglio. Non mi deve nulla.»
Guardò ancora Himawari, cercando di sorriderle.
«Ci vediamo presto, Kunogi Himawari.»
Lei annuì mentre la madre la trascinava via e si richiudeva la porta alle spalle, scortata da Maru e Moro verso l'uscita.
Yūko sospirò, avvicinandosi al tavolo che occupava il centro della stanza. Aprì un cassetto sul fianco del mobile e ne estrasse uno specchio dall'aria antica, come se fosse appena stato tirato fuori da uno scatolone abbandonato per molti anni in una soffitta polverosa.
Lo girò tra le mani, fino a trovarsi a fissare la superficie riflettente. Non vedeva il suo viso, sebbene lo tenesse dritto di fronte a sé. Nello specchio era intrappolata l'immagine di Himawari, il suo piccolo viso malinconico, troppo triste per una bambina di quell'età, che avrebbe dovuto solo pensare a correre e cantare e a tutte le storie fantastiche che riusciva ad immaginare. Quello era il volto di qualcuno che aveva dovuto riconoscere troppo presto il dolore.
L'espressione di qualcuno che era già legato alle cose che sarebbero accadute.

***


La strada era deserta e si snodava come un nastro grigio attraverso i muretti di cinta delle abitazioni. In quel luogo, il cielo non era soffocato dalle altezze svettanti dei palazzi scintillanti che circondavano il suo negozio. Si vedevano le nuvole bianche sfilacciarsi nel cielo di ghiaccio, attraversate di tanto in tanto dal volo di qualche uccello e i bagliori freddi del sole che contornavano le cose, come un ricamo.
Yūko avanzava lungo la strada come se quella fosse stata una passeggiata di poca importanza, solo il giretto a vuoto di una donna che non sapeva come impiegare il proprio tempo. Lasciava che il suo sguardo scorresse sulle cose, osservandole con indulgenza.
Si muoveva con passi lenti e misurati, senza fretta.
Lasciava dondolare la borsetta che reggeva in mano da una parte all'altra, quasi fosse un pendolo che segnava il fluire del tempo.
Ad ogni passo, un secondo cadeva.
Per Yūko Ichihara il tempo era una dimensione da cui guardarsi bene e con sospetto, e lei riusciva a tenergli testa grazie alla sua consueta caparbietà che le avrebbe impedito di ritrarsi persino di fronte al potere di un dio. Il tempo prima o poi ti toglieva qualcosa. L'amore, il senno, la bellezza o il potere conquistato. Più era il tempo di cui volevi godere, più pesante sarebbe stata la perdita e Yūko non riusciva neppure a pensare cosa sarebbe stato chiesto a lei, nel momento di saldare il conto. Dopotutto era inevitabile che anche lei avesse un prezzo giusto da pagare.
Yūko cercava di non pensare al tempo che stava per arrivare, anche se le era sufficiente sporgersi dalla finestra in una notte serena, oppure gettare distrattamente lo sguardo nel fondo di una tazza da té per conoscere ogni cosa. Ed era tutto così bello e brutto allo stesso tempo che il futuro la lasciava attonita, sebbene ormai potesse dire di essere una persona che non condivideva più le semplici pene degli esseri umani. Ma la solitudine non le aveva del tutto anestetizzato il cuore. Sapeva ancora cosa causava l'affetto sincero per gli altri, che legame si instaurava tra le vite quando si ritrovavano a condividere anche un semplice bentō.
Ed era strano, perché anche se si era ripromessa di non sentire più così intensamente le persone intorno a sé, in un certo modo lo desiderava.
La strada, in fondo, si incrociava con un'altra piccola via del quartiere residenziale. Lì, in un angolo del crocevia deserto, Yūko vide chi stava cercando.
Himawari era accucciata a terra, con il peso del corpicino che gravava sulle caviglie ossute coperte dalle calzette bianche. Era chiusa nello stesso cappotto che indossava tre giorni prima e lo aveva ripiegato con cura sotto di sé perché non si sporcasse con la polvere della strada. Reggeva in mano un bastoncino e, con il viso contratto in una smorfia di concentrazione, stava frugando in un cumulo di sacchetti neri. Yūko si fermò ad osservarla da lontano. Tutti si sarebbero stupiti nel vedere una bambina tanto graziosa che punzecchiava un cumulo di spazzatura il giorno della festa delle bambole, invece di essere nel calduccio accogliente della propria casa, con i genitori ed i parenti intenti a farle festa e a contendersi le sue piccole e capricciose attenzioni.
Eppure Yūko sapeva che avrebbe trovato lì la piccola Kunogi Himawari. Le bambole Hina non si potevano certo ingannare con qualche dolcetto fatto in casa dal profumo fragrante, e Yūko aveva capito fin dal primo istante che per quella bambina non ci sarebbero state né fortuna né prosperità.
«Ciao Kunogi Himawari.» Yūko non aveva parlato a voce alta, ma quella frase era risuonata comunque forte nella via deserta. La bambina sollevò lo sguardo. Rimase per un attimo interdetta a fissare la strega, poi sbatté le palpebre sugli occhioni color cioccolata e sorrise.
«Ciao, Signora.»
Yūko sospirò. Quell'appellativo la faceva rabbrividire ancora di più di quando la chiamavano strega. Tuttavia sorrise di rimando ad Himawari e le si avvicinò lentamente, come se si fosse trovata di fronte ad un animale ferito.
«Cosa stai facendo, Himawari? Le brave bambine non frugano nella spazzatura. Cosa direbbe la tua mamma se ti vedesse così?»
Il viso della bambina si fece serio per un istante. Abbassò lo sguardo verso l'asfalto e contrasse le labbra rosee in una smorfia concentrata e grave.
«Non credo dirà niente. La mamma è in camera sua e piange.» lo aveva detto con una voce sottile, appena sussurrata, ma senza traccia di sofferenza o incomprensione per i gesti che scorgeva intorno a sé. Quella era una frase di dolore adulto sulla bocca di una bambina dalle code strette con fiocchi rosa e le scarpette di vernice.
«Ma davvero non c'è niente che puoi fare per me?»
Himawari sollevò la testa. Non aveva lacrime tra le ciglia e le parole non erano incrinate per la commozione. Era seria e le faceva una domanda di cui conosceva già la risposta. Yūko le sorrise appena, mentre si piegava sulle ginocchia, con il cappotto scuro che si apriva a scoprire la gonna bianca sotto, e si ritrovava vicina ad Himawari.
«Mi dispiace.» mormorò appena la strega. Senza alcuna pena nella voce. Alcune cose erano inevitabili, anche la nascita di esseri strani come la piccola Himawari e nessuna delle due avrebbe mai potuto farci nulla. Era sciocco provare angoscia, anche se tutto il mondo intorno a loro sembrava impazzire.
Yūko le sottrasse con dolcezza il bastoncino che stringeva in mano. Scostò con un movimento fluido un lembo di plastica nera. Dalla penombra maleodorante della spazzatura Yūko vide due brillanti occhi neri fissarla con pacata grandezza, con una fiducia incrollabile nel futuro. Persino nel buio dei rifiuti accatastati la porcellana con cui era fatta la testa della bambola Hina luccicava dello splendore degli oggetti tenuti con cura.
«La mamma le ha trovate rotte, ieri sera. È per questo che si è messa a piangere.»
Yūko osservò le braccia disarticolate delle bambole sotto le pieghe pesanti dei costumi da cerimonia, le crepe che ne fendevano i crani vuoti e che ne scalfivano la laccatura impeccabile.
«La mamma smetterà di piangere? Tu puoi farla smettere?»
Yūko sorrise appena incontrò il visino preoccupato di Himawari. Lasciò cadere a terra il bastoncino e si alzò lentamente, aiutandosi puntellando le mani contro le ginocchia. E continuò a sorridere, con lo sguardo rivolto ad un divertimento che non si trovava lì, in quel momento, ma che lei scorgeva in un futuro che ogni giorno si faceva sempre più vicino.
«Sono sicura che non serve sprecare un desiderio per qualcosa che tu puoi fare già da sola. Vai dalla tua mamma e vedrai che tutto si risolverà.»
Yūko le passò accanto, depositandole una carezza sulla testolina piegata.
«Addio, Kunogi Himawari. A presto.»
Yūko non si voltò per vedere la sua espressione seria ma allo stesso tempo speranzosa, ma poteva immaginarla attraverso altri occhi, in brandelli di emozioni non ancora nate ma che una mente attenta poteva già scorgere.
Sarebbe arrivato presto il giorno in cui quel legame, appena accennato in una fredda mattina di marzo, si sarebbe rafforzato con un vincolo più forte, intessendo l'ennesimo filo della ragnatela soffocante del destino.
Ma per il momento c'era ancora un po' di tempo, un frammento di presente che doveva ancora crescere per essere pronto.
Yūko si fermò, alzando la testa verso il cielo lattiginoso. Si schermò gli occhi con la mano e sorrise.
Aveva aspettato per tanto tempo. Sarebbe stato ridicolo avere fretta proprio adesso.








[1] Bambole Hina: la festa delle bambole viene celebrata il 3 marzo, ed è un augurio per tutte le bambine giapponesi di felicità, fortuna e prosperità per l'avvenire. Le bambole vengono esposte nelle case su un palchetto a gradino in modo da rappresentare la corte imperiale, e sono accompagnate da piccole offerte votive come dolcetti e altre cibarie.














   
 
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