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Autore: Rucci    23/12/2009    7 recensioni
Anche i santi di Atena aspettano i regali sotto l'albero.
Specialmente i più giovani, che con un piccolo racconto natalizio passano da un sogno ad un viaggio, accompagnati da guide sin troppo famigliari.
Quel che non è famigliare, è il futuro.
{what if: post-Hades} {shonen-ai sparso}
Genere: Commedia, Sovrannaturale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 6. Il Canto di Andromeda

Dove si cerca di fare passare Shun al Lato Oscuro.

 

 

 

Pandora era esattamente come Shun la rammentava, riflessa nei suoi ricordi di bambino troppo piccolo e in quelli di Ikki, bambino troppo grande: capelli scuri e lisci ad incorniciare un viso delicato e grandi occhi d’ametista in cui si poteva affondare per sempre.

Un invito pericoloso.

“Pandora-san?”

“Fratello mio.”

Chissà da quanto era sveglio; dal nero più profondo del sonno senza sogni si era ritrovato seduto sul letto, le mani in grembo e gli occhi aperti sulla figura nerovestita al centro della stanza. Gli aveva sorriso, dolce, con tutta la grazia della signorina di buona famiglia che dimostra sin troppa indulgenza verso il ritardatario più affascinante della festa.

“Fratello mio amato, è bello rivederti.”

Shun non rispose niente, per un poco. L’istinto gli diceva di rimanere fermo, di non rispondere neppure, fin quando non sarebbe stato necessario; sembrava un sogno, un sogno strano e grottesco, un gioco dell’oca, in cui un tiro sbagliato del dado riportava alla casella di partenza. Schiuse appena le labbra, fissando con occhi grandi la donna che lo chiamava fratello bramando il suo corpo per Hades, dio dei morti.

“Pandora-san. Non sono la persona che cerca” scandì, piano, nella stanza buia. Così buia. Non era più un neonato in fasce, si disse quasi meccanicamente: poteva risponderle. Senza nessuna espressione in particolare sul viso, senza malizia, Shun la guardò trasparente: “Se ne vada. Per favore.”

“No, fratello mio. Non stasera.”

La finestra ritagliava un angolo blu senza luci, nel pieno della notte. Pandora si avvicinò, frusciando, le vesti pesanti e scure ad oscurare a turni i piccoli punti chiari della stanza, rare macchie lattiginose: troppo lontano da lì, le torce ardevano, a rischiarare le scale.

“Non sono la persona che cerca, Pandora-san” ripeté Shun, senza ancora muovere un dito. “Non so perché sia qui. Non so che cosa vuole da me. Non posso aiutarla.”

“Shht.” Due dita, chiare e seriche, si posarono sulle sue labbra. Shun spalancò ancora di più gli occhi. “Quanta fretta. Non a me devi dire queste cose, amato fratello. Ma io rimarrò qui ad aspettarti, sappilo. Tutto il tempo che ci vorrà.”

Aspettarlo?

Lo sguardo di Shun era talmente eloquente che Pandora sorrise. Era talmente vicina che il ragazzino poteva sorbire direttamente dai capelli il suo profumo di fiori, denso e pesante, come di viola, o gelsomino.

“Lasciati guidare, prima, da tre spiriti. Conosci i tre spiriti del Natale?”

“Gli spiriti del Natale!” poté finalmente parlare, lui, sorpreso. Appoggiò le mani al bordo del letto, intossicato dal profumo. Esitò un attimo, solo per quello. La guardò dritta negli occhi, cercando di capire. “Ma questo è un racconto… io che cosa…?”

“Sì. Passato, Presente, e Futuro. Loro, oh, loro sapranno trovare le parole, fratellino mio adorato. Ascoltali con attenzione. Fa quel che ti dicono. Non faranno nulla contro la tua volontà: saranno tue le scelte. E al termine di tutto, io sarò qui ad aspettarti…”

La voce si fece bisbiglio, come vento tra le foglie secche.

“Pandora-san! No! Io non posso…!”

Shun si alzò in piedi di scatto, cercando di non perdere di vista Pandora. Era importante, si rese conto, terribilmente importante non lasciarla fuggire. Staccandosi di botto dal letto si lanciò al centro della stanza, e poi alla porta, per cercare di raggiungerla.

I corridoi del Tredicesimo Tempio erano ampi e scuri, nella notte, ma perfettamente rassicuranti; ciononostante, Shun avvertì un incredibile senso di freddezza, lì dov’era, in piedi, i piedi nudi sul pavimento duro. Sembrava persino più piccolo di quanto già non fosse. E Pandora era sparita.

Come se fosse tutto perfettamente normale, Shun rientrò nella propria stanza, raccolse il maglione a maglie larghe che aveva piegato sulla sedia, se lo infilò sopra il pigiama a righe. Si abbottonò, diligentemente, tirando fuori il colletto. Si infilò le pantofole. In soldoni, fece tutto quello che avrebbe fatto un bravo bambino per non prendere il raffreddore, prima di riaprire la porta e uscire in una pericolosa fuga notturna alla ricerca della sacerdotessa dei morti.

Quanto prima aveva ardentemente desiderato che Pandora si dileguasse alla sua vista, ospite inattesa e pericolosa, ora sentiva di doverla a tutti i costi ritrovare: voleva farsi spiegare le sue parole, era necessario sapere qualcosa di più su questi tre spiriti, e, soprattutto, su cosa c’entrasse con lui quella favola natalizia, quella stessa che Shion aveva letto loro nel pomeriggio freddo e senza neve della vigilia di Natale, appena poche ore prima.

“Pandora-san?” chiamò, vagamente, tentando assieme di non alzare troppo la voce per non farsi sentire dagli altri. “Pandora-san? La prego, ritorni. Deve dirmi di più. Deve dirmi…”

S’interruppe, cogliendo uno spiraglio di luce tagliare il buio, poco più avanti a lui. Inequivocabilmente, una porta socchiusa.

Spalancando gli occhi per sfruttare più che poteva l’unica fonte di illuminazione, Shun affrettò il passo scalpicciando il più silenziosamente possibile: non voleva fare rumore. Camminò sopra tutti i tappeti. Appoggiò la mano delicatamente sul legno intarsiato, aspettando col fiato sospeso chissà che cosa. Proprio quando stava cercando di decidersi se aprire o meno, una voce dall’interno lo interpellò: “Avanti, avanti. Non stare ad aspettare lì fuori.”

Shun sussultò, impercettibilmente. Ma poiché era stato interpellato, aprì la porta, spingendola piano, sbirciando subito all’interno, senza nessuna idea di che cosa aspettarsi. La voce che aveva parlato, di tonalità bassa e allo stesso tempo cantilenante, era decisamente troppo virile per essere di Pandora. Una volta dentro, sbarrò gli occhi, incredulo: quel posto non apparteneva certo al tempio di Atena.

Sembrava un’illustrazione di un libro di racconti per bambini, nei suoi colori quasi dipinti ad olio. Immense ricchezze e tesori colmavano la stanza, dal sapore antico, europeo, tutto illuminato da una luce bassa e calda, proiettata sia dal camino scoppiettante che dal lampadario al soffitto. Sullo scranno prezioso al centro, con aria allegra e svagata, stava appollaiato un uomo che Shun aveva visto a malapena una volta, di sfuggita, in un delirio di morte: aveva tentato di sopraffarli al Muro del Pianto, poi Hyoga si era parato sulla sua strada, ergendo muri di ghiaccio in difesa dei fratelli che prendevano la via dell’Elisio.

Minosse, giudice infernale.

“Minos-san?” tentò, limpidamente confuso. Era così strano vederlo in quel momento, in quella stanza, così vestito, in quell’atmosfera festosa, che gli venne stupidamente naturale onorarlo di un appellativo di cortesia. In tutt’altro contesto non gli sarebbe venuto mai in mente. Sbatté più volte gli occhi, vedendolo allungare sul viso un ghignaccio bianco da spaventapasseri; ma strano a dirsi, non sembrava minimamente minaccioso.

“Proprio io, Andromeda. Siediti, siediti. È la vigilia di Natale. Non ci risparmiamo in festeggiamenti. Rune! Porta del vino.”

“Sì, sommo Minos.”

Shun spalancò ancora di più gli occhi. A forza di sorprese strampalate di quel genere, se li sarebbe ritrovati della dimensione di due piattini da caffè.

Rune se lo ricordava bene, l’aveva affrontato al Tribunale dei Morti, accanto a Seiya. Era stata una parentesi tragicomica, quasi surreale, che agli occhi di Shun si era conclusa con lo specter che, senza nessuna apparente ragione, dopo averlo guardato bene era scappato urlando. Adesso lo stesso specter si affaccendava su e giù per la stanza, fra i suoi ori e le sue decorazioni, indaffarato come una cameriera solerte, in netto contrasto con la faccia seria da impiegato modello.

“Rune? Rune-san?”

Rune sbiancò e decise di evitare di guardarlo negli occhi. A quanto pare non aveva dimenticato l’infelice episodio della testa di Hades che gli parlava. Minos rovesciò la testa all’indietro, in una risata gutturale e priva di gioia, ma decisamente divertita.

“Lascialo lavorare. Posso offrirti del vino?”

“Oh, no, grazie, non bevo.”

La conversazione era più che mai surreale.

Almeno, era tra Shun di Andromeda e Minos di Griffon.

Ed era incredibilmente gaia.

“Oh, che disdetta. Troppo giovane, invero. Tskch. In Norvegia, non fa granché differenza. Non è vero, Rune?”

“È così, sommo Minos.”

“Oh. È giusto” si illuminò Shun, credendo finalmente di capire qualcosa. Pur nell’assurdità del tutto, ovviamente. “Rune-san è il procuratore di Minos-san.”

“E il mio luogotenente. E il mio vice. E il mio sostituto. E copia le mie lettere, e rimesta il carbone nella mia stufa” elencò Minos con aria apparentemente distratta. Con ogni probabilità stava solo motteggiando – senza dubbio in maniera strana e contorta – riferendosi al sottopagato Bob Cratchit, ma Shun era decisamente troppo giapponese per cogliere una citazione del genere: sbatté gli occhi senza sapere cosa dire, mentre Rune serviva con aria afflitta un calice di vino rosso al suo signore. Quello ridacchiò grottescamente, accavallando le gambe e accomodandosi ancora di più sul suo bel trono.

Sembravano davvero dipinti, nei loro colori caldi e ornati di decori opulenti. A Shun, che rimirava senza ragione il lungo manto di ermellino che ricopriva il terribile gigante di Hades, venne da pensare al Principe Giovanni di Robin Hood. Associazione mentale quanto mai deleteria.

“Minos-san, mi perdoni: credo di avere appena capito qualcosa. Lei per caso è…” Non vide l’espressione di Minos che si girava a guardarlo: troppi capelli spioventi sul viso, oscuravano quasi completamente gli occhi. Shun deglutì: “…lo Spirito dei Natali Passati?”

“Eccellente intuizione. Sì, sono lo Spirito dei Natali Passati. E sono l’unico ad avere un assistente. Non puoi immaginare tutto il lavoro che ci si trova ad affrontare nel catalogare minuziosamente il passato; ah, tutta burocrazia…”

“Oh.”

Non che quest’ultima informazione interessasse molto a Shun; tanto più che Rune pareva essere lì solo per il divertimento personale di Minos, che studiava con un ghigno sardonico tutte le espressioni facciali del suo procuratore, specie nei pressi del loro piccolo, dolce ospite. Il Balrog pareva non aver rimosso il trauma; il motivo del tuo sacro terrore, invece, se ne stava seduto compito, guardando entrambi in paziente attesa.

“Sono qui per mostrarti alcuni Natali del tuo passato. Sei pronto?”

“Oh, sì.” A Shun pareva persino un bel viaggio. “Sì, sono pronto. Ma perché? Qual è il motivo di tutto questo?”

“Pazienta, Andromeda. Pazienta. Rune. Apri il libro.”

“Sì, sommo Minos.”

Venne aperto un libro, che passò di mano in mano; da quelle delicate di Rune a quelle ferme di Minos, senza sfiorare quelle piccole di Shun, si spalancò, fermandosi a pagine aperte, non su fitti appunti vergati a china, bensì su un’illustrazione colorata di giallo e rosso.

“Avvicinati e guardala meglio.”

Shun allungò il visino, un misto tra eccitazione, curiosità e timore. E quello che accadde fu indescrivibile.

Profumo di torta, di aghi di pino quasi secchi, e assieme di polvere, polvere sul polistirolo, sulle cupole di vetro delle luci che andavano pulite, rumori di piatti di plastica che si separavano, sgangherati, passi, passi, passi, rumorosissimi passi, risate e grida, una voce femminile che si faceva sentire più delle altre, luci, luci, lo sguardo di suo fratello, piccolo, occhi grandi, espressione concentrata.

“Ikki-nii-saaan!”

“Non ora, Shun.” Ma una carezza sulla testa, che sapeva di buono. “Hanako-san ti chiama.”

Sììì!

Ancora profumi, adesso di ragazza. E della stoffa del grembiule.

Occhi neri neri, sorriso bianco.

“Shun-kun. Mi aiuti a portare i regalini?”

Sììì!

“Oh, Shun-kun. Sei così carino.”

Risate contente.

Passi, passi, passi. Di corsa. Qualcosa che si rompe. Le ragazze sgridano i malfattori. Lui no, lui porta i pacchetti e riceve carezze. Fuori dalla finestra vede la neve.

“La neve! La neve!”

“Oh, Shun-kun, hai ragione! Nevica!”

“La neve!”

Corsa verso la finestra. Odore di freddo e di vetro. Si assembrano tutti. Rischia di cadere. Si aggrappa a qualcuno. Affonda la faccia in capelli biondi. Stringe gli occhi, strattonato via fuori dal gruppo dal bambino con i capelli biondi. Troppi bambini alla finestra vogliono vedere la neve. Di nuovo profumo di ragazza, carezze tra i capelli. Capelli chiari chiari disordinati, nessun sorriso: “Stai attento.”

“Ehi. Ce l’hai con mio fratello?”

“Ikki-nii-san, no! Sono stato io! Sono caduto addosso a Hyoga-kun.”

“Non m’importa niente. Ehi! Mi hai sentito?”

La ragazza tiene Ikki, con un sorriso indulgente, ma lo tiene. L’altro bambino li guarda senza una parola e se ne va. Shun guarda i capelli biondi. È da quando è arrivato che li guarda. Nessuno in Giappone ce li ha così. Gli correrebbe dietro, ma sa che non parla quasi con nessuno. Gli dispiace.

“Shun, vieni con me. Mi hai sentito, Shun?”

“Andromeda.”

La voce bassa stacca da tutto.

Shun rialza la testa, come se riemergesse da sott’acqua. Ha il respiro corto e gli occhi spalancati.

“Troppi ricordi tutti assieme…” ghigna Minos, una mezzaluna, il sorriso bianco, le mani ingioiellate voltano pagina. Shun boccheggia. “Ne troveremo altri.”

“Era l’orfanotrofio. Ero io. Era… confuso.”

“Eri un bambino. Che cos’hai capito?”

“Oh… beh… poco. In verità.”

“Due cose.” Gli occhi di Minos rilucono, nella stanza piena d’oro. Rune lo fissa senza una parola, le mani a sorreggere il volume da sotto. “Eri un bambino facile da sopraffare. Ma eri anche un bambino molto amato: questo ti proteggeva. Tuo fratello ti proteggeva. Le ragazze dell’orfanotrofio ti proteggevano. Eri carino ed adorabile. Il tuo candore ti ha sempre salvato.”

“Ma non… non è vero. Non è una cosa che facevo apposta.”

“Certo che no.” Un nuovo disegno, sotto i suoi occhi. Shun si avvicinò, irresistibilmente attratto, e la voce di Minos lo ricatapultò dentro: “Ti viene naturale.”

Ora caldo.

Caldo asfissiante.

Shun!

Ora freddo, senza cognizione, senza causa. Mani più tiepide sulle spalle, poi sulle proprie mani. Voce vibrante da dietro una maschera di ferro, risuona di respiri concitati.

“Starò più attento.”

“Fallo! Sono così in pena per te, Shun.”

“Sorridi, June, ti prego. È Natale. Non senti i canti, lontani?”

“Lontano, troppo lontano da qui. Lascia che ti annodi più stretta quella benda.”

“Sto bene.”

“Non hai voluto ferirlo e ora sei tu il ferito.”

“Mi piacerebbe vedere ancora una volta la neve.”

“Non qui, lo sai. Vuoi festeggiare il Natale?”

“Voglio…”

“Ti ci porterò. Un giorno. Quando entrambi saremo liberi. Il maestro ci vuole bene, lui ci addestrerà sino a che non saremo forti e liberi di andarcene dall’isola di Andromeda. Allora verrò con te a vedere la neve. Fino ad allora, Shun, ti prego: fai attenzione!”

“June…”

“Shun, promettimi che ce la metterai tutta. Io non voglio…”

“Te lo prometto. Ti prego, June: non piangere.”

Una risata a cascata, che non era quella di June, sicuramente: Shun rialzò il volto allo stesso modo di prima, la testa vorticante. Il suono del tomo che si chiudeva, con un tonfo, lo risvegliò definitivamente.

“L’isola di Andromeda” sussurrò, gli occhi persi in un punto lontano, avanti a sé. Minos sogghignò, carezzando la preziosa rilegatura di cuoio. “June. Oh, June. Anche lei mi ha sempre protetto.”

“Naturalmente.  Ti amava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per te. E il tuo candore, la tua purezza, Andromeda, oh: anche lì ti hanno salvato.”

“Minos-san, la smetta, la prego. Parla come se…”

“Come se fosse una cosa brutta? Affatto.” Gli occhi di Minos lampeggiarono, gialli, attraverso la folta frangia. Occhi di rapace. Shun, improvvisamente, ebbe un brivido. Si alzò dalla sedia, vi si accostò, tenendolo d’occhio. Si era forse dimenticato chi era? Il Giudice Infernale sorrise, una lunga fila di denti bianchi, la voce che si faceva melliflua. “Al contrario, per il nostro signore è la qualità al di sopra di tutte. Andromeda, indubbiamente tu sei l’uomo più puro del mondo.”

“Cosa vuole?” Shun saettò gli occhi da lui a Rune, e da Rune a lui, di nuovo. “Cosa volete?”

“Dimostrarti che il tuo posto, giovane confuso, è sul trono del nostro regno.”

“No! Lo sapete! L’avete sempre saputo! Non sono io…”

“Sei tu, e lo sai perfettamente. Rune.” Voltò il capo appena, Minos, ottenendo l’attenzione completa del suo attendente. “Apri la porta. Il giovane Andromeda sembra ansioso di andarsene.”

“No, io… prima voglio delle risposte. Perché tutto questo? Che cosa state cercando di fare? Hades è morto.” Ebbe un brivido lui stesso, mentre lo diceva. Sgranò gli occhi, come per invitare Minos, impenetrabile, al suo contrario, a leggervi dentro per provare la sua sincerità. “Hades non esiste più. Non potrà più tornare sulla Terra. Perché allora tornare da me?”

“Hades è morto” scandì lentamente Griffon, questa volta senz’alcun accenno di divertimento nella sua voce. Si era fatto fosco, un’aura fredda lo avvolgeva. Tutta la stanza si era fatta fredda. Tutti i colori si stavano spegnendo. Shun arretrò, avvertendo il sogno farsi incubo, il cuore in gola. “Hades è morto, ma esiste ancora. Hades è la Morte, e la Morte è eterna. Hades tornerà. Forse ci vorrà del tempo. Privo del suo corpo divino, solo spirito, solo essenza, risorgendo dalle cavità più buie della terra. Tornerà.”

Allungò una mano in avanti. Shun fece come per pararsi, tutti i senti all’erta, ma quello spalancò solo di più la porta. Un soffio di vento spense tutte le candele. Minos lo guardava negli occhi, raggelante, nel buio.

“E ora và. Non mancare di aprire l’altra porta.”

E come fu fuori, nel corridoio, spinto da Minos e dal vento sgarbato, che lo invitava ad uscire, Shun si fermò a guardare la porta richiudersi, con uno scricchiolio spaventoso. Aveva ancora un nodo alla gola, il cuore martellante nelle tempie. La paura, non poteva negarlo, l’aveva attanagliato sin nelle viscere.

Trovando la forza chissà dove, si voltò. Forse perché qualsiasi cosa era preferibile allo scuro del corridoio, ora non più rassicurante come prima, afferrò subito e senza esitazioni la maniglia della porta che si trovava di fronte, all’esatto opposto di quella da cui era uscito. La spalancò, anzi, i denti stretti: qualsiasi cosa ci fosse in serbo per lui, la voleva affrontare. Aveva paura, in qualche modo; ma Pandora gliel’aveva detto: non faranno nulla contro la tua volontà.

E se era la sua volontà, che volevano manipolare, lui l’avrebbe tenuta salda come solo un cavaliere di Atena poteva fare.

“Sorpresa! Buon Natale!”

“Ah?”

Fece a malapena in tempo a dirlo, ah: gli piovve in testa una fronda di foglie non bene identificate, che per metà lo punsero anche in maniera fastidiosissima, conficcandosi nella cute. Trattenne un gridolino di dolore e sorpresa solo perché oltre il verde, al di là dei confusi movimenti festosi, avvertì e sentì la strabordante luce calda che aveva visto nell’altra stanza prima che tutto si oscurasse, tanto accogliente da scaldargli la pelle. Quando riuscì ad alzare l’imbarazzante copricapo che gli era stato cacciato in testa, si accorse di essere coperto di agrifoglio.

“Ehm… chi…?”

“Sono lo Spirito del Natale Presente!” Tuonò una voce virile, con l’evidente orgoglio di chi si è calato nella parte. Si fece poi più sogghignante, in perfetta atmosfera specter: “L’hai fatto arrabbiare, eh, il caro vecchio Spirito dei Natali Passati? Erroraccio. Non fare mai arrabbiare Minos. Per fortuna che questo era un sogno, pulcino di santo.”

Shun sbatté più volte le palpebre, cercando di riconoscere il nuovo spirito: ma proprio era sicuro di non averlo mai visto in vita sua. Sapeva solo che tra i capelli mori arruffati spuntava ancora più agrifoglio che dai suoi, e forse anche del vischio. I suoi occhi erano incredibilmente mobili, voraci.

Non abbandonava il sogghigno. Coraggioso, per uno bardato a quella maniera.

“Oh” s’illuminò poi, timidamente. Cercò anche di sistemarsi la corona in testa di modo che magari non gli trapassasse almeno il cervello. Che fatica. Questo sembrava davvero carico di buone intenzioni. “Forse ho capito. Se Pandora-san mi ha chiamato, e le guide sono tre… il primo era Minos-san… e di sicuro incontrerò Rhadamantis-san…”

“Sì?” gli diede corda lui, più che altro tanto per farlo contento.

Shun non vi badò: “Voi dovete essere… Aiacos-san?”

“Che delizioso bambino educato. Non stare impalato sulla porta. Entra.”

Sgomento, Shun entrò. Non riusciva neppure più a fare a meno degli appellativi onorifici, nonostante non capisse più se i Tre Giganti Infernali di Hades lo volessero festeggiare o lo volessero morto. E non tanto per l’orribile trasfigurazione e le minacce di Minos, quanto per quella corona di agrifoglio assassina. Come faceva Aiacos-san a reggere in testa la sua?

“Come Spirito del Natale Presente, è mio dovere metterti davanti a una scelta.”

Aiacos spiccò un piccolo balzo, raggiungendo uno scranno del tutto simile a quello di Minos. Shun, intimidito quanto era necessario, si sedette di nuovo obbediente sulla sedia. Che altro poteva fare? Per un attimo si immaginò da fuori, piccolo, occhi grandi, sperduto nel suo pigiama, nelle sue ciabatte e nel suo maglioncino, e con quel cespuglio in testa. La Garuda invece non pareva porci la benché minima attenzione.

“La risposta è no, Aiacos-san.”

Aiacos lo guardò quanto meno perplesso, come si fu accomodato. Shun non aggiunse nulla per buona educazione, ma non era proprio convinto che ci si dovesse sedere così, su un seggio del genere e in generale in qualsiasi altro posto: il giudice invece dondolava con grande noncuranza una gamba da sopra il bracciolo, e non pareva affatto fuori posto. Con ogni probabilità, non aveva riserve a farlo neppure in tribunale, passando in rassegna le anime dannate. Consolante.

“Non sai nemmeno cosa ti volevo chiedere.”

“Minos-san me l’ha fatto intuire.”

“Ah! Ma è un colpo basso! Quell’inutile borioso mi ruba il lavoro!”

“Mmmh.”

Shun non seppe bene che cosa dire nemmeno questa volta. Per ora, i Giganti Infernali di punti in comune ne mostravano: un’improvvisa e completamente arbitraria confidenza nei modi di fare, e la passione per la teatralità.

“Ti ha mostrato anche il presente, già che c’era? No, perché quand’è così, faccio prima a spazzolare il banchetto in tavola e poi mettermi a dormire. Vuoi?”

“Oh, no, grazie. Non si crucci, Aiacos-san. Minos-san non mi ha fatto vedere niente a parte il passato.”

Shun si domandò intensamente perché si trovasse lì seduto in pigiama a consolare un giudice infernale, mentre quello borbottando decideva di servirsi direttamente dalla tavola imbandita che occupava quasi tutta la stanza. Si guardò attorno, appena, senza distogliere gli occhi più di tanto dall’uomo davanti a lui: aveva imparato durante la precedente visita che era meglio non abbassare la guardia. Aiacos, tuttavia, sembrava più intento a riempirsi il piatto di pollo e patate.

“Sicuro? C’è anche la frutta. Uva, fichi, datteri, frutta secca, canditi. Non fare complimenti. È Natale!”

“No, grazie, davvero. Ho cenato poche ore fa.”

“Dolcetti?”

“Il Pontefice Shion ci ha riempiti di pan di zenzero.”

“Buono, il pan di zenzero. Niente, allora. Peccato. Sicuro?”

“Sì” sospirò Shun, nuovamente, intrecciando le mani in grembo. Ci mancava solo che il terzo generale di Hades si preoccupasse che fosse denutrito.

“Peccato. Roba buttata. Hai idea di quanti paesi al mondo soffrono la fame?”

“Sì, Aiacos-san. Lo so.”

“In Nepal, per esempio” affilò gli occhi il Gigante, staccando un boccone dalla forchetta con avidità, e tuttavia senza togliere gli occhi da lui. “In Nepal chi non ha niente sgranocchia le zecche che si gratta via di dosso.”

Shun strinse le mani sulle ginocchia, raggelato da quell’improvviso cambio di tono. Non si chiese perché parlava del Nepal. Non poteva sapere, e non se lo chiese: non riusciva a staccare gli occhi dal viso di Aiacos, che senza battere ciglio continuò a masticare.

“Lo… lo so, Aiacos-san.”

“E non solo in Nepal.”

“Sì.”

“In Mongolia. In Indonesia, in Thailandia, in India. In quasi tutta l’Africa. Nell’America Latina. Ovunque ci siano zecche da spulciare.”

“Aiacos-san…”

“Un buon pranzo di Natale, non c’è dubbio. Hai idea di quanti milioni di persone siano, Andromeda? Hai una vaga idea della loro sofferenza? Hai subito un addestramento molto duro, al largo di coste africane. Dovresti ben conoscere i morsi della fame. Non hai pietà di loro?”

“Certo che ne ho.” Shun rispose subito, limpido, senza esitare minimamente nonostante il tono con cui gli era stata posta la domanda: per lui pietà non possedeva alcun connotato negativo, e lo mostrava con orgoglio. “Tutti noi ne abbiamo. Facciamo il possibile.”

“È poco, ragazzino. Continuano a morirne a frotte. Ma i più sfortunati non sono quelli che muoiono. Sono quelli che restano in vita con i crampi.”

Detto questo, Aiacos si alzò. Nel suo modo, era imponente. Le foglie spinose fra i capelli non lo facevano sembrare affatto ridicolo: somigliava ad uno stregone. Uno stregone che veniva da terre lontane.

“Tu, piccolo, puoi fare tanto. Il tuo cuore puro e dolce spasima per fare qualcosa. Allora noi ti diciamo che puoi fare qualcosa. Puoi alleviare le sofferenze di tutti, se vuoi, con una parola sola puoi sollevare il mondo intero dal suo fardello.”

Shun sentì distintamente il sangue pompargli a velocità incredibile lungo le tempie. Aiacos sorrise, sghembo, abbandonando il piatto sul tavolo. Si ripulì e le mani, stavolta con fare incredibilmente elegante e misurato. Si portò il tovagliolo alla bocca, avvinandosi a lui, girandogli attorno. lo gettò sul tavolo, gli mise le mani sulle spalle.

“Accogli il Sire Hades. Conduci l’umanità intera tra le braccia della Morte, e cessa una volta per tutte i dolori che è costretta a subire sulla Terra.”

Silenzio. Le parole del giudice suonavano irrimediabilmente giuste: Shun era impietrito, immobile, come se non osasse muovere un dito. Per un attimo, il suo interlocutore era diventato qualcosa di immenso.

Sorrise scaltro, Eaco, il più giovane dei figli di Zeus a sedere tra i Giudici dei Morti.

Attese la risposta, che tardava. I pugni di Shun erano bianchi, sulle ginocchia.

“No.”

“Come?”

“No.”

Per la miseria. Aiacos sollevò un sopracciglio.

Pandora gli aveva raccontato che nel Settecento era stato molto più facile.

“Mi rispondi di no, quindi.”

“Sì. No. Non voglio. Non lo farò mai. Io sono un santo di Atena. Io combatto per la vita e la speranza. Io sono al mondo per aiutare il mondo a cambiare. Non a morire.”

“D’accordo, d’accordo” commentò quello, inaspettatamente, alzando le braccia in segno di resa.

“D’a… d’accordo?”

“Come ti ha detto la bella sacerdotessa dell’Ade, Andromeda” sussurrò Aiacos, mentre la stanza si rabbuiava. “Non faremo nulla contro la tua volontà. E io ho adempiuto al mio compito. Hai detto no. E sia.”

Shun si alzò. Di nuovo il vento cominciava a penetrare dalla finestra, a spegnere le candele. Shun, gli occhi grandi, rabbrividì, anche se Aiacos non era spaventoso come Minos. In un qualche modo, lo era ugualmente.

“Cosa… cosa devo fare, adesso?”

“Prendere la prima porta a sinistra. Che domande.”

Il vento premette solido contro i suoi vestiti leggeri. Shun rabbrividì, smarrito, i capelli che gli frustavano il viso nel freddo. Di fretta, si diresse verso la porta. Si voltò di sfuggita verso Aiacos, stregone nero al centro della stanza. Non aveva smesso di fissarlo, un sorriso strano, affatto sconfitto. Afferrò con una mano scura il lembo della tovaglia drappeggiata sul tavolo, i piatti tremarono. Diede un violento strattone. Allora Shun chiude la porta più velocemente che poté, per non sentire il fracasso, i cocci che andavano in pezzi.

Sconvolto, corse tanto velocemente verso la porta alla sua sinistra che non seppe dire se dentro quella stanza fosse davvero successo il finimondo, o se se lo era semplicemente immaginato. Se quelle stanze, una volta chiusa la porta, esistevano ancora oppure no. Varcò la soglia della terza tremando, pallido, ansimando come se avesse corso per tutte le scale.

“Benvenuto.”

“Ah…”

Un ansito. Un altro. La luce del caminetto non era fragorosa come quella delle altre due stanze. L’uomo lo attendeva seduto in poltrona, le gambe virilmente accavallate, le mani metodicamente giunte in grembo. Il suo sguardo era micidiale. Shun rimase inchiodato sulla soglia, capace solo di muovere gli occhi.

“Riprendi fiato.”

“Sì… sì.”

“E ora siediti.”

Meccanicamente, Shun si avvicinò. Chiuse la porta. Si diresse verso di lui, lo spirito che sedeva tranquillamente in poltrona, e che ora aveva chiuso gli occhi, come assorto in meditazione. Shun fece pochi passi, appena intimidito; si portò le mani alla fronte, si graffiò le dita con le spine dell’agrifoglio. Si liberò della corona che aveva in testa, grande, grottesca, con un piccolo strattone e un gemito di dolore. Si sedette in poltrona con aria afflitta. Di nuovo, non sapeva bene cosa dire.

Rhadamantis non parlava. Rimaneva seduto di fronte a lui.

Il ragazzino, giovane ed esperto, piccolo e grande, lo fissava, con occhi privi di domande, solo puliti e chiari. Si guardarono per un poco, senza parlarsi. Shun abbassò gli occhi solo per riavviarsi i capelli, per staccare le poche foglie rimaste incastrate. Le poggiò una per una sul tavolino di fronte a sé. Si lisciò il pigiama, sulle ginocchia. Giunse le mani in grembo, come lui, ma con le ginocchia unite, composto. E parlò lui per primo:

“Rhadamantis-san. Perché io?”

Ci fu un breve silenzio.

“Non c’è un perché” cominciò quello, con la voce cavernosa che Shun aveva sentito comandare all’Inferno stesso: era l’uomo più terribile che avessero mai affrontato, e lo ricordava con un brivido. Ora parlava pacato, tranquillo, nel suo completo elegante, a suo agio nella poltrona comoda. Nessuno sfarzo, nessuna esibizione, nessuna luce chiassosa. La penombra li accoglieva. “Il perché lo sai: Hades, per quanto incompreso, è un dio puro. Il più caritatevole e misericordioso degli dèi. Tu gli somigli. Egli ha scrutato nel tuo cuore, e non ha scelto altri che te.”

“Ma io lo rifiuto. L’ho già rifiutato una volta. Posso farlo ancora. Non ho più paura.”

“Lo so.”

“Perché, allora? Perché questo sogno? Perché cercarmi, ancora?”

Un sorriso, allora, affilato come quello di un drago.

Talmente consapevole da penetrare come un coltello.

“Perché voi siete fedeli alla vostra dea, e noi al nostro dio, Andromeda. Lo amiamo, e vogliamo il suo ritorno.”

“Minos-san ha detto che tornerà.” Si sporse, Shun, sentendo riannodarsi un groppo in gola. Era quello che gli premeva sin dall’inizio. Strinse la presa sui braccioli della poltrona. “È vero?”

“Non come credi tu.” Rhadamantis cambiò posizione alle gambe, con disinvoltura. “Ma qualcuno dovrà pure governare sulla Morte. E la Morte non cambia sovrano.”

Shun avrebbe meditato a lungo, su quelle parole. Ma perlomeno, fu consolato dal fatto che non era come temeva: Hades non era vicino, non era pronto a riattaccare. Dal tono con cui parlava Rhadamantis, pareva quasi, anzi, che non ne fosse neppure intenzionato.

“Ma tu, ora? Non vuoi sapere del tuo futuro?”

Shun schiuse le labbra, improvvisamente rischiarato. Il futuro! Non aveva neppure mai osato immaginarlo! Ora che tutto era in pace, ora che Atena aveva promesso un mondo di luce, lui vedeva solo cose belle, davanti a sé, e non lo nascose, domandando con la meraviglia di un bambino: “Può mostrarmelo? Posso davvero vederlo? Mi piacerebbe tanto.”

“Non sarei così ansioso, fossi in te.” Due occhiacci cattivi, quelli che aveva puntato addosso. Shun si raggomitolò nella poltrona, intimidito dal cipiglio minaccioso del Giudice. “O farai la stessa fine di Scrooge. Ricordala attentamente, e in base a questo rispondimi.”

Shun non si sentiva molto Scrooge, a dire il vero. Si morse le labbra e annuì, automaticamente. Ma c’era una cosa che doveva dire a Rhadamantis. Assolutamente. Aspettò educatamente il momento migliore per introdursi nella conversazione.

“Fino ad adesso ti è andata bene, Andromeda.”

“Io…”

“Hai parlato con lo Spirito del Natale Passato, e con quello del Natale Presente.”

“Sì…”

“Ora sappi che c’è un motivo per cui sono io, lo Spirito del Natale Futuro.”

“Lei…”

“Io sono molto, molto meno indulgente di quei due perditempo.”

“Mh…”

“Perciò…”

“Rhadamantis-san?”

“Che cosa c’è?”

“Io… in realtà… purtroppo…” Shun affondò letteralmente nei cuscini, quasi cercando di rimpicciolirsi. Alzò grandi occhi umidi sul suo immenso interlocutore, sperando con tutto il cuore di non deluderlo. “Io mi sono addormentato, durante quella parte.”

Questo non era evidentemente previsto.

Rhadamantis piombò in qualcosa che era molto oltre il silenzio.

“Mi dispiace” pigolò il Guerriero della Speranza, rincantucciato nella sua poltrona.

Rhadamantis si raccolse le tempie con la mano. Massaggiò, delicatamente. E alla fine decretò, con voce possente ma stranamente calma, quella di un diplomatico inglese al termine di un’importante ambasciata: “Non fa niente. Forse è meglio così.”

“Eh? Davvero?”

“Sì. Non ti farò vedere nulla, del tuo futuro.”

“Eh? Ma… Rhadamantis-san… se ci teneva tanto… io posso vederlo, sa? Non si preoccupi! Solo, mi dispiace di essermi addormentato proprio durante la sua parte. Non ho fatto apposta. Sicuramente è stata molto interessante.”

“Dickens non è mai interessante. Solo molto edificante per moralisti e casalinghe. Alzati.”

La Viverna lo precedette, oscurando con la sua stazza le luci del caminetto. Torreggiava su di lui in maniera affatto rassicurante, ma non pareva particolarmente alterato.

“Ah… sì!”

“Ti riporto a dormire.”

“Eh? Che cosa? Io pensavo…”

“Sei invero l’uomo più puro, Andromeda, e Hades lo sapeva, perché ha guardato nel tuo cuore. Ma il tuo temperamento è troppo diverso dal suo.” Rhadamantis camminò fino all’angolo opposto della stanza, sino a sfiorare con la grande mano la maniglia di una porta più piccola delle altre, che Shun non aveva affatto notato. Si trascinò dietro di lui in pantofole. Tratteneva quasi il respiro. “Solo chi può comprendere l’infinita pietà del Signore dei Morti lo può servire fedelmente. Tu appartieni a qualcun altro. Non saresti mai tutt’uno con Lui. E noi non vogliamo questo.”

“Quindi…” sussurrò, incredulo, il ragazzino, stringendosi nel maglione. Non faceva affatto freddo, però. Nessun vento a penetrare nella stanza, né a spegnere i fuochi. Rhadamantis lo guardava senza sorridere, ma onesto. Con la schiettezza dei nemici. “Quindi posso fare ritorno.”

“Puoi.”

Aprì la porta. Dava sulla stanza da letto di Shun. Era esattamente come l’aveva lasciata.

Il ragazzo entrò, meravigliato, confortato dal calore. Rhadamantis rimase sulla soglia. Lo apostrofò un’ultima volta, duro, ma senza essere sgarbato:

“D’altro canto…” Shun alzò gli occhi verso di lui, spostandoli stupiti com’erano dal suo lettino intatto. “Non hai ceduto. Non hai assaggiato il cibo del mondo dei morti.”

“…eh?”

Rhadamantis, l’implacabile Rhadamantis, sogghignò.

“Sia Minos che Aiacos te ne hanno offerto, ma tu hai rifiutato.”

Improvvisamente Shun ricordò.

Persefone e il melograno.

Il vino, la frutta candita.

E sbiancò, anche.

“Saggio, da parte tua” allargò il sogghigno, la Viverna crudele, che aveva perfettamente capito che si era trattato solamente di un caso. Richiuse la porta piano, fino a lasciarne quasi uno spiraglio, da cui lo guardava con i suoi occhi gialli. “Altrimenti, non ti avremmo lasciato andare così facilmente.”

Shun di Andromeda, nonostante il temperamento mite e delicato, non era certo il tipo incline allo svenimento. Come tutti, aveva un fisico abituato a sopportare ben di peggio.

Tuttavia, quando la porta si richiuse e il buio – rassicurante, stavolta – di Atene immerse la stanza in una naturale coltre notturna, le ginocchia gli cedettero e si lasciò cadere sul letto, la testa che gli vorticava impazzita al pensiero di ciò che aveva rischiato. Urlò, i nervi scoperti, quando sentì una mano sulla spalla.

“Fratello mio.”

“Pandora-san! Basta così! Io… io…”

“Ti avevo solo promesso che sarei rimasta ad aspettarti.” Sorrise, sorniona, Pandora, la signora della notte. Con mani delicate lo fece stendere, gli rinfrescò la fronte, chiuse i suoi occhi increduli. Shun non capiva. Non capiva perché si lasciasse fare tutto questo. Finché la voce di Pandora gli sussurrò all’orecchio, intossicandolo col suo profumo di viole e gelsomini: “Tranquillo. È solo un sogno.”

Solo un sogno.

Shun allungò le mani a stringere le lenzuola, ma non le trovò. Sentì caldo. Capì di essere sotto le coperte. Capì che vi era sempre rimasto. L’odore di fiori lentamente svanì. Dal nero sui suoi occhi schiuse le ciglia, la testa pesante, le membra intorpidite come se avesse dormito sino a quel momento.

Gli parve di scorgere dei capelli biondi, ma non era stato aperto nessun libro.

Si riaddormentò subito, stremato dall’ora tarda. E dormì a lungo, senza più sognare.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Come prevedibile, ormai sforo rispetto ai termini previsti e non mi riesce di finire i capitoli entro le date che avevo buttato lì. Vabè. Vedo che non ho inflitto nessun trauma a nessuno, quindi andrò implacabile avanti a fare come mi viene. Penultimo capitolo! Quello di Natale invece uscirà in tempissimo, assolutamente: non ho intenzione di mettere piede fuori di casa prima di Santo Stefano, sappiatelo. Che fatica stare al mondoh.

 

Il canto di Shun ovviamente è il più surreale e quello che stacca di più: il cast è strano.

Ovviamente tutto ciò è voluto e in realtà dovrebbe creare un contrasto abbastanza buffo con gli altri, alle prese con gli spiriti loro amici che cercano di aiutarli a correggere i propri errori, e Shun, che per una volta che non ha fatto un bel niente si ritrova tra questa gentaglia a dover spiegare che tipo no, non è intenzionato a fare per secondo lavoro il Dio dei Morti. Alla fine è venuto un po’ inquietante lo stesso, a sprazzi, ma immagino che non si potesse fare altrimenti. Quelli lì mettono paura. Sono i Cattivi.

 

, Shun lo rendo più giapponese degli altri, vedi appellativi onorifici etcetera. Non posso farci niente. È evidentemente più giapponese degli altri, per quanto mi riguarda. Hyoga è troppo straniero, Shiryu è troppo cinese, Seiya troppo informale, Ikki troppo maleducato. Tutto detto con molto amore. <3

 

beat: E via, un po’ si deve alleggerire sempre, secondo me. Specie sì, piazzando a tradimento che fa sempre bene. E sì, il freddo e la neve hanno giocato pro. Kyaaa, Nonno Gelo! *O* Anche a me questa cosa ha intenerito a morte. È più atletico di Babbo! Fa jogging!

Shinji: Grazie per i complimenti, tesoro! çOç Anche e soprattutto sulla scrittura, che è sempre cosa buona e giusta. Sì, la disillusione è uno dei temi chiave di Hyoga, che sia contenuta nel nome appunto è indicativo, ci ho battuto sopra, direi. In quanto al suo percorso… beh, sì. Per forza è così. <3

Himechan: Grazie! La neve qui è caduta a sporte e senza dubbio ha aiutato nella realizzazione di questo capitolo… mentre questo è molto più cccattivo. Dimmi cosa ne pensi anche qua! >*< Un bacino!

winnie343: Ti ringrazio! :) Oh, è importante ricevere pareri anche non filoshonen-ai, così si vede se la fic funziona lo stesso! *O* Grazie ancora, quindi.

LeFleurDuMal: Sì, Mu era lì apposta a dare tregua, anche se per quanto mi riguarda quella parte è molto straniante. Milo e Camus ci volevano, punto. Nonno Gelo lo devi usare assolutamente. Non vedo l’ora di leggere il prossimo capitolo di Neve. Pciù. <3

Kijomi: E infatti ti crediamo tutti: Shun è pericolosissimo. Sai bene che non lo sottovalutiamo. E io non faccio preferenze! …forse. Un po’.

Kagura92: Mmh, a Mu è stato affidato un ruolo un po’ particolare. Non so, spero di avere reso bene anche lì. Mu può essere estremamente impersonale, per chara, lo vedo bene come simulacro del Santuario stesso. Agli occhi dei bronze soprattutto. Poi chissà come m’è venuto! *C* Per il resto mille grazie per i complimenti. Arrivano sempre dritti dritti.

E Hyoga fa da schiavo a vita/principe azzurro dall'ottava casa, se non prima. E' lui che non se n'è accorto. <<< …e qui posso solo quotarti. *O*;;;;;;

 

  
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