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Autore: Beatrix_    24/12/2009    3 recensioni
Ieri sera ho rivisto "Capitan Hook" mi ha ispirato alcune considerazioni che ho deciso di mettere per iscritto. Una riflessione sul personaggio di Wendy nel film (anzi, prima). Ho immaginato una sua possibile vita e il suo rapporto con Peter Pan
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Cerco di notte in ogni stella il tuo riflesso

Ma tutto questo a me non basta adesso cresco[1]

                                                                                                                                                                                                                                                                           

Quella mattina si svegliò con la convinzione di dover fare qualcosa d’importante ma di non ricordare bene cosa.  Si girò piano nel letto e trovò al suo fianco, ancora profondamente addormentato, suo marito. Chiuse gli occhi per un momento e le immagini del sogno, le immagini di una vita tornarono ad assalirla. Pirati, indiani, vascelli e tesori,  isole misteriose. Sempre gli stessi sogni, sempre le stesse storie. Non sarebbe mai riuscita a liberarsene. Improvvisamente le tornò in mente quella cosa importante che avrebbe dovuto fare: quella sera ci sarebbe stata la cena di inaugurazione della sua Fondazione per l’Infanzia! Riaprì gli occhi e si alzò dal letto di scatto; la giornata poteva cominciare.                                                               

Era questa Wendy Moira Angela Darling alle soglie dei trent’anni. Aveva una bambina, Matilda, che era la luce dei suoi occhi e spesso le regalava dei momenti unici e irripetibili. Aveva un marito, ma era un uomo spesso distante e indifferente che considerava la famiglia alla stregua di un lavoro da portare avanti per essere accettati nella buona società. Aveva anche un fratello, Wendy, un fratello di nome Michele che or ora, a vent’anni, si affacciava alle soglie della vita senza troppa fretta e senza troppe ansie. Andava a pranzo da loro ogni giovedì. Discuteva con suo marito di politica, del tempo e con lei dei propri genitori che, ormai vecchi e stanchi, avevano bisogno di tutto. Michele non ricordava. Non ricordava quel viaggio che era stata la fine dell’infanzia di Wendy, quando avrebbe dovuto esserne la consacrazione. Non ricordava nemmeno di aver avuto, un tempo, un altro fratello e di come questo si fosse perso nella promessa insidiosa di un’infanzia eterna e spensierata. Non ricordava quel momento terribile in cui Wendy aveva deciso, per tutti, che era ora di tornare a casa e in cui, contemporaneamente, aveva capito che Gianni non l’avrebbe seguita per nulla al mondo. Era stata, per Wendy, una delle più grandi sconfitte, le prime lacrime da adulta. [2] Michele era stato più docile del fratello. Troppo piccolo per capire, o per immaginare di ribellarsi alla sorella più grande, si era lasciato ricondurre a casa senza troppe storie, ma non passava giorno che Wendy non si chiedesse se avesse fatto bene a tornare, e soprattutto a farli tornare. O se, forse, aveva negato anche a Michele, oltre che a se stessa, una vita eterna e molto più felice, spensierata. E quando si poneva di queste domande, non sarebbe bastato, non bastava, guardare i propri genitori, guardarne il viso stanco ma felice per i due figli che gli erano rimasti. Non serviva perché all’Isola che Non C’è tutto ciò non esiste. Non esistono genitori e non esiste il tempo, non si può pensare di fare del male a qualcuno, se non ai pirati, ma anche lì, il male è fisico. Nell’Isola che Non C’è non esiste nulla di psicologico, nessuna complicazione o pensiero difficile.             

La Fondazione per l’Infanzia Abbandonata era venuta in seguito, molto più tardi. Quando, in quei giorni terribili, aveva cercato di convincere Gianni, fallendo, molti altri bambini l’avevano ascoltata e si erano convinti fosse meglio tornare a casa. Solo che loro una casa non l’avevano più.[4] Lei li aveva aiutati come poteva, per molti anni, fin quando questo suo impegno a favore dei bambini smarriti era diventato un vero e proprio lavoro, oltre che una vocazione e la teneva impegnata per moltissime ore al giorno. I bambini che accoglieva, in  casa sua o trovando loro varie sistemazioni erano moltissimi, e non faceva differenza se avessero conosciuto o meno l’Isola che Non C’è. Tanto, presto o tardi, tutti loro dimenticavano. Dimenticavano le peripezie e i giochi e tutto ciò che avevano vissuto nel mondo senza tempo. Tutti tranne lei che non c’era mai riuscita. Aveva provato, oh, se aveva provato. Ma niente, quei ricordi rimanevano tenacemente attaccati nella sua testa e niente, nulla al mondo sarebbe riuscito ad allontanarli. Col tempo aveva capito. Non erano quei ricordi in generale. Non erano i galeoni dei pirati, le frecce o le spade, non erano le avventure. Era lui. Il suo ricordo. Ed erano molti anni, ormai, che si era resa conto che non se ne sarebbe più andato.                                    

Pochi giorni addietro si era finalmente decisa ad inaugurare la sua fondazione. Aveva capito da un po’ che accudire bambini smarriti era la sua missione e avrebbe fatto ciò per tutta la vita, ma ufficializzare la sua associazione voleva dire non avere scampo. Non poter far altro, non poter ripensarci. Ci era voluto molto coraggio ad ammettere che non sarebbe stata capace di fare altrimenti. E finalmente l’aveva ammesso e, coinvolgendo i magnati della beneficenza, era riuscita a farsi finanziare, ad allestire dei locali, degli alloggi, una scuola e, tramite associazioni di volontariato, a dare un tetto, affetto, e a volte anche una famiglia a quei poveri bambini. Lei leggeva loro, tutte le sere, le favole della buonanotte e loro l’ascoltavano sempre con un piacere immenso. Pensieri felici che solo un bambino può avere.

 

Seduta davanti alla toilette, intenta a struccarsi, ripensava alla serata appena trascorsa. In realtà era stata una serata molto noiosa, se ne rendeva ben conto. I bambini, che avrebbero dovuto essere i veri protagonisti, si erano a malapena intravisti, tra un discorso opportunista e uno falso, era più che sicura che a dar voce alle sventure di quei poveri piccoli non ci fosse rimasta che lei. Illustri signori con panciotto e orologio da taschino, impeccabili nelle loro mise, avevano tenuto banco per tutto il tempo, discutendo di affari così vacui ed inutili da farle rimpiangere i galeoni dei pirati sognati la notte precedente.  Tolse con gesti misurati e lenti gli orecchini di brillanti, sciolse pacatamente ma con decisione l’elaborato chingon che aveva composto solo poche ore prima e si fissò nello specchio. Intensamente. Tutto quello che riuscì a vedere era una giovane donna, soddisfatta della propria vita e in salute, fortunata. Era davvero tutto qui? “Amore è tardi, su, forza, vieni a letto!” la voce di suo marito, già disteso sul letto ed assonnato, la riportò alla realtà. “Sì, certo, vengo subito, vado solo un momento ad augurare la buonanotte a  Matilda” sussurrò con un sorriso a fior di labbra. Per lungo tempo aveva avuto paura ad allontanarsi dalla bambina, a lasciarla sola. Da quando era nata non usciva mai la sera e quasi sempre finiva per addormentarsi vicino a lei. Perché temeva. Perché non voleva che se ne andasse. Ricordava fin troppo bene la sera in cui i suoi genitori erano usciti per presenziare ad una noiosissima festa in onore di qualche magnate della finanza. Ricordava fin troppo bene la stanza buia, i suoi fratelli addormentati e lei che, nel dormiveglia, sente un rumore e si spaventa. E poi lui. Ecco, lo ricordava fin troppo bene e non avrebbe voluto per nulla al mondo che anche sua figlia fosse rapita da quel ragazzino presuntuoso e affascinante in quel vortice senza senso. Perché per lei, ormai, l’Isola che Non C’è era diventata un vortice senza senso. Era incomprensibile per tutti gli esseri umani di Londra, per loro che vivevano da questa parte e che ogni notte invece di ammirare la luna sul mare vedevano i tetti fumosi della città. Che ogni giorno invece di udire il canto delle sirene sentivano i rintocchi del Big Ben.  Matilda dormiva placidamente nel suo lettino, immersa in chissà quali sogni avventurosi. Con l’espressione beata dei bambini, senza un pensiero al mondo. Le si avvicinò piano piano e le sfiorò la fronte con le labbra. Sapeva di buono, di innocenza. Si assicurò, prima di lasciare la stanza, che le fintestre fossero chiuse, anzi, sigillate. Tanto, sapeva bene che Peter non avrebbe bussato a quella finestra. Sapeva bene che avrebbe perseguitato lei, e non sua figlia, fino alla fine dei suoi giorni. Non era servito infatti cambiare finestra, sposarsi e andare via da quella casa che l’aveva vista prima bambina non troppo ansiosa di crescere e poi adolescente piena di paure. Lui l’aveva rintracciata comunque, voleva le sue fiabe. Non era riuscita a liberarsene. Lui le portava i bimbi che all’Isola che Non C’è non volevano più stare, perché lei gli accogliesse, gli procurasse un rifugio in questo mondo così cattivo ed ingiusto, egoista. Lui le raccontava le sue ultime prodezze contro Capitan Uncino. Lei gli leggeva le fiabe del mondo degli uomini che, sapeva bene, erano molto meno avventurose di ciò che capitava a Peter. Ma Peter, trattandosi di Wendy, le ascoltava sempre con un piacere infinito, anche se lei si ripeteva, anche se lui negli anni le aveva imparate a memoria. Era il loro mondo segreto, il suo angolo di paradiso. Peter  tornava spesso, sempre bambino, sempre sfrontato e sempre di buonumore e la trovava cambiata, cresciuta, invecchiata. Lei aveva scelto, ma ogni giorno il peso di questa scelta le gravava sulle spalle con maggior forza, ogni giorno la schiacciava di più. Ormai, il confronto con Peter si era fatto impossibile. Ormai, avrebbe davvero potuto essere sua madre. Peter non aveva capito in tutti quegli anni e lei era sicura non avrebbe capito mai. Il giorno del suo matrimonio lui non si era fatto vedere. Lei non aveva sperato eppure, quando era entrata in quella chiesa, quella fresca domenica di maggio, qualcosa nel cuore le si era spento. L’ultima, flebile fiducia di poter cambiare quel bambino, che lui potesse capire e crescere e… no, aveva solo preteso troppo. [3] Quello che li legava, che li aveva sempre legati da quella prima volta che si erano incontrati era stato chiaro, fin da subito. Lei, Wendy, era la mamma, che gli suggeriva come attaccare l’ombra e raccontava le favole. Lui Peter, al massimo avrebbe potuto essere il papà dei bambini smarriti, ma non un padre vero, piuttosto un “capo”. Peter aveva avvelenato la sua esistenza per una vita intera, col dolce rimpianto dell’infanzia le aveva impedito la piena realizzazione di qualsiasi gioia adulta. Com’era difficile ora trovare un pensiero, anche uno solo, per volare!

 

Erano passati degli anni dall’inaugurazione della fondazione, dei lunghissimi anni. Molte cose, intorno a lei, nel mondo e nella sua vita, erano cambiate. Gli aerei ora coprivano immense distanze in tempi brevissimi; in giro ci si vestiva, ci si comportava e si camminava perfino in modo diverso. Le persone però, erano rimaste le stesse di sempre; egoiste e per nulla disposte a credere alle favole. Per quanto riguardava la sua vita l’unico punto fermo era rimasto Peter Pan.  I primi ad andarsene erano stati i suoi genitori, molti anni or sono. Poi era toccato a suo marito, il padre di Matilda. Era spirato serenamente e lei l’aveva dimenticato dopo non molto tempo. Anche Michele era morto, consumato dagli anni e per questa perdita Wendy era stata più che addolorata.  Matilda era cresciuta, si era sposata ed aveva avuto una figlia, la sua nipotina adorata, Moira, che, secondo la sua opinione, cresceva troppo in fretta e a tredici anni sembrava già una donna adulta. Spesso però, nonostante le apparenze, la sorprendeva, chiedendo alla nonna di raccontarle una fiaba e lei accettava molto volentieri. Presto anche Moira sarebbe stata adulta e voleva che ciò accadesse il più tardi possibile. Quella sera la nipotina dormiva dalla nonna.                                                                  

La mattina, sempre in compagnia della nonna, si era recata alla fondazione. Wendy vi andava tutti i giorni, a controllare che tutto fosse in ordine, ad impartire istruzioni ma soprattutto a parlare con i bambini. Spesso lì incontrava anche degli ex-bambini, cresciuti in quegli edifici che tornavano per dedicare un po’ del loro tempo a chi, come loro, era orfano, oppure dedicavano all’associazione solo un momento per fare una donazione. Quando vedevano Wendy si illuminavano, tutti, ed iniziavano a sommergerla di parole, a chiederle come stesse, come procedeva la sua opera benefica; chiedevano notizie della sua famiglia, di sua figlia, suo marito e qualcuno anche di Moira. Lei rispondeva sempre a tutti affabilmente e con tono cortese. Ricordava nomi, visi e parole di ognuno, poteva dire con certezza dove l’avesse trovato, se fosse stato abbandonato sulla ruota davanti all’orfanotrofio o se fosse stato Peter a portarglielo, ad affidarglielo con la tristezza negli occhi di chi, ogni volta, veniva sconfitto. Per Peter quell’associazione era una sconfitta; una sconfitta all’infanzia e alla gioia della fanciullezza. A nulla erano serviti i discorsi che Wendy cercava di fargli, spiegandogli come e perché ad un certo punto si sente l’esigenza di crescere e… lui non l’ascoltava, non l’aveva mai ascoltata se non quando raccontava fiabe.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

Wendy sedeva su una semplice sedia di paglia, parlava con i suoi adorati bambini, raccontava loro delle fiabe e ascoltava le loro domande, le loro curiosità sciocche ma schiette. “Com’è crescere?” chiedeva uno, sconsolato “Io non voglio crescere” gli faceva eco un altro bambino, magrolino ma molto vispo. Wendy sorrideva senza dire parola; non l’avrebbe mai affidato a Peter, non se lo sarebbe mai fatto portare via. “Tu quando sei cresciuta, nonna Wendy?” chiese un terzo “Io…” iniziò Wendy, distogliendo la mente dal pensiero precedente per ficcarsi tutta nel ricordo più prezioso che possedesse “è stata una sera, quando avevo tredici anni e i miei genitori… ma no, che domanda sciocca, George, mica si cresce così, d’improvviso e tutto d’un colpo?!” terminò con una risata. Non le andava di raccontare. Alcuni episodi della nostra vita sono tanto più preziosi perché gelosamente custoditi. Quel ricordo, non l’avrebbe avuto nessuno mai, era e sarebbe stato tutto per lei, per sempre. Aveva detto a George che non si cresce così, all’improvviso  eppure lei era cresciuta esattamente in questo modo  e se lo ricordava molto bene. L’aveva visto lì, al buio, nella sua stanza, che cercava di attaccarsi l’ombra col sapone. “No Peter, devi cucirla!” aveva esclamato alzandosi di scatto dal letto “lo farò io!”. E preso ago e filo si era messa pazientemente ad attaccargli l’ombra sotto i piedi. Mentre cuciva l’aveva guardato, l’aveva guardato di sottecchi e d’improvviso le era cresciuto dentro questo desiderio, tanto nuovo e sconosciuto per lei, tanto strano. “Sai Peter, vorrei proprio darti un bacio” ma subito si era ammutolita e pentita di aver pronunciato quelle parole perché una cosa del genere non si può dire, non si deve e gliel’avevano pur insegnato, non sta bene che una ragazza dica certe cose. Peter però l’aveva sconcertata, tendendole la mano aperta e gelandola. “Non sai cos’è un bacio?!” aveva esclamato lei tra il delusa e il divertita” Dammene uno e lo saprò!” aveva replicato lui. Lei, sempre più confusa gli aveva messo in mano la prima cosa che era riuscita ad afferrare: un ditale. Avrebbe dovuto rendersi conto da quel momento che per lei era già troppo tardi, che non avrebbe più potuto rimanere bambina perché aveva pensato qualcosa che le bambine non pensano. Invece ci aveva provato lo stesso. Prima aveva provato a seguire Peter nell’Isola che Non C’è, ma tutto quello che era riuscita a diventare era la “mamma” dei bambini sperduti. Quando aveva capito di aver già perso questa battaglia aveva cercato di convincere Peter a crescere. Avrebbe voluto portarlo con se. Che illusa,non si può costringere uno come lui  a fare una cosa del genere; non ce l’avrebbe mai fatta nessuno. Ricordava il momento esatto in cui era cresciuta. Era stato quando, d’improvviso, aveva sentito nascere dentro di lei il desiderio spontaneo di dare un bacio a Peter Pan; all’unico che non sarebbe cresciuto mai e poi mai. Era stato quell’incontro a farle perdere la sua battaglia, a non permetterle di rimanere per sempre bambina. [5]   

La vecchia signora alla finestra fissava le stelle, soprattutto la seconda a destra che apriva così tante porte e sogni.  La guardava intensamente e si chiedeva se quella sera Peter sarebbe venuto a farsi raccontare una storia. A volte veniva, anzi veniva molto spesso e quella sera aveva proprio voglia di rivederlo. Quando sentì la finestra scricchiolare, come di consueto si alzò lieve, per andare ad aprire, attenta a non far rumore, a non svegliare la sua nipotina, Moira, che dormiva serena nel letto lì vicino. Ed era proprio Peter quello che gli si parò davanti, baldanzoso e scanzonato come al solito. Adesso, più che sua madre avrebbe potuto essere sua nonna, pensò sospirando. “Ehi! Mi  racconti una favola, questa sera?” “Shhh! Non vedi che Moira dorme?” rispose lei a bassa voce, sorridendo ed indicando la ragazzina che, abbandonata nei suoi sogni, ignorava ciò che succedeva “Non vorrai mica svegliarla?”. Peter la guardò per un lungo istante e poi uscirono dalle sue labbra quelle che Wendy avrebbe per sempre considerato parole di condanna. “Oh” proruppe sussurrando “mi piacerebbe darle un bacio… un bacio vero” e prima che lei potesse fermarlo si avvicinò alla ragazzina e posò delicatamente le labbra sulle sue. Peter quella sera rifiutò in tutti i modi di tornare all’Isola che Non C’è. Voleva crescere; aveva deciso. “Non voglio andarmene da qui, non mi interessa quello che lascio, sono stanco!” Wendy cercava di farlo ragionare, ma già sapeva che era inutile, come con un bambino troppo viziato che, quando fa i capricci, otterrà comunque quello che vuole. “Rifletti Peter, non potrai più volare, non affronterai più nessuno in duello e… ascolta, tutti quelli che decidono di restare qui dimenticano, capisci? Dimenticano l’Isola che Non C’è, si dimenticano degli altri bambini, degli indiani…di Capitan Uncino!” “Non mi interessa!” “Peter” pronunciò Wendy, guardandolo fisso e scandendo bene le parole in un estremo tentativo di scoraggiarlo “se prendi questa decisione sarà  per sempre, non si torna indietro, lo capisci questo?” “Sì, lo capisco e ho deciso”disse lui fissandola a sua volta negli occhi, tanto stanchi e buoni di nonna. Aveva preso la sua prima decisione da adulto con la convinzione e caparbietà che solo i bambini possono avere.[6] “Molto bene” rispose Wendy, fredda. L’avrebbe cresciuto; già sapeva che l’avrebbe fatto. Poi, dopo qualche anno l’avrebbe dato in affidamento a qualche famiglia, magari molto lontano da Londra; tanto, nulla l’avrebbe scoraggiato dal tornare da Moira.[7] Non poteva fare altrimenti e, per tutto l’affetto che la legava a lui, glielo doveva. Quella punta di gelosia, ne era convinta, l’avrebbe pungolata fino alla fine dei suoi giorni. La gelosia di non essere riuscita lei a convincere Peter. La gelosia che ci fosse riuscita qualcun’ altra, che ci fosse riuscita sua nipote. Ma andava bene così, forse ora, sarebbe stato possibile a lei, dopo tanti anni, dimenticare tutto, di scordarsi dei pirati e delle grotte, delle sirene e delle fionde. Forse ora sarebbe riuscita a vivere gli ultimi anni che le rimanevano in questo mondo e non divisa tra due realtà tanto distanti e inconciliabili.

 

Ti amerò per sempre Peter Pan, in quella zona tra il sonno e la veglia, quando ti ricordi ancora dei sogni. Lì ti amerò.[8]

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Ieri sera ho rivisto il film “Hook – Capitan Uncino” e questa visione mi ha portato alcune considerazioni che ho finito per scrivere. Non ho mai letto l’opera originale, ma da piccola guardavo molto il cartone Disney, così la storia è un po’ ispirata anche da quello. Spero di non avervi tediato eccessivamente e grazie a chiunque recensirà o leggerà soltanto! Scrivo molto, ma raramente faccio leggere a qualcuno quello che scrivo perciò ogni suggerimento/critica etc. è sempre bene accetto. Visto che è la vigilia di Natale colgo l’occasione per augurare a tutti un Buon Natale e buone feste! :D

 

[1]”Tra te e il mare” – Laura Pausini. La canzone non c’entra nulla con la storia ma la frase mi sembrava azzeccata.

[2]Questo effettivamente non c’è nel cartone Disney e nemmeno nel film, è una cosa che mi sono inventata io, di sana pianta, non so perché l’ho fatto ma mi sembrava “suonasse” bene…

[3] Non ricordo se nel cartone Disney qualcun altro oltre a Wendy e i fratelli decide di tornare a casa ma nel film c’è un vecchietto che è appunto uno degli ex-bambini smarriti, quindi ho mischiato un po’ le carte e ho dato questa giustificazione

[4]Questo lo dice nel film, quando Wendy se ne esce con qualcosa tipo “Pensavo quasi di vederti volare sopra la chiesa per impedire che io mi legassi ad un altro…”

[5] Questa è in assoluto una mia  personalissima interpretazione filosofica della scena che, tra l’altro, non sono riuscita a ritrovare sul cartone Disney ma sono più che sicura sia nell’opera originale.

[6] Questa scena invece è del film. In realtà tutta questa specie di storia mi è stata ispirata da questo “ribaltamento” di Peter Pan che prova, per la nipote di Wendy, quello che Wendy aveva provato per lui.

[7] Mi pare che nel film lo stesso Peter Pan raccontasse di essere stato affidato da Wendy ad una famiglia americana…

[8]Questo nel film lo dice Trilly, che invece dalla mia storia è assente. Ho pensato che ci stesse bene così ce l’ho messa!

 

 

  
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