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Autore: Onigiri    14/04/2010    3 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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(Le pietre blu) 











Prologo





 

 

Era la prima volta che Mila vedeva i papaveri al di fuori della televisione: piegati in avanti sotto il pesante passaggio del vento, sembrarono come inchinarsi in un gesto di cortese riverenza, sfiorandosi a vicenda con quei brillanti cappucci rossi che parevano soffici come nuvole sanguigne. Nel guardare quei fiori e i loro tenui riflessi arancioni le era venuta in mente una favola che poco aveva a che fare col paesaggio, e la voglia di rileggerla fu tale che non perse tempo a staccare lo sguardo dal finestrino per portarlo sul libro che stava reggendo sopra le ginocchia.

Ne accarezzò la copertina nera, spessa e ruvida, col disegno di un ideogramma rosso raffigurato al centro: Storie Orientali c'era scritto sopra, con lettere d'oro che glielo facevano sembrare un oggetto prezioso al pari di un diamante.

Mila lo aprì, perdendosi nei tratti labirintici dei disegni della piccola principessa Kaguya rinchiusa in una canna di bambù, del califfo trasformato in cicogna che per una risata si dimenticò come tornare normale, e dei dipinti del piccolo Ma-Lian prendere vita grazie al suo pennello magico.

Da qualche mese non faceva che leggere quelle storie, nonostante ormai le bastasse solo guardarne le illustrazioni per ricordarle in ogni dettaglio: aveva appresso quel libro dal dicembre dell'anno prima e ancora non aveva smesso di sfogliarlo anche solo per ascoltare il suono frusciante della carta ad ogni pagina voltata.

Incrociando le caviglie, Mila cercò una delle prima storie con cui si apriva il libro, quella di Izanami e Izanagi e di quando attraversarono il ponte Amenoukihashi per discendere dal cielo alla terra e creare il mondo come volontà dei loro dei.

La prima volta che ne aveva sentito parlare, si era seduta sul letto per interrompere la lettura di papà e chiedergli come potesse mai essere fatto un ponte del genere, ritenendo più plausibile -per salire e scendere dal cielo- usare una scala, o un ascensore. Papà aveva detto di non averne idea, e allora lei aveva cercato di immaginarlo da sola, di vederlo, di toccarlo, di usarlo.

A volte il ponte era una scia di luce dorata che la sollevava dal suolo e la portava in alto fino a quando la terra non diventava che un mondo in miniatura, e poi un granello di polvere in mezzo all'infinito; oppure era una striscia bianca e morbida, come quella che lascia un aeroplano tagliando in due il cielo; o altre volte ancora era un sentiero fatto di stelle dure come sassi che le facevano il solletico ai piedi ogni volta che ci camminava sopra.

Nel rileggere le prime righe di quella storia, e nel passare la punta dell'indice ad ogni parola pronunciata col pensiero, si chiese ancora se adesso papà sapesse come fosse fatto quel ponte.

"Desidera fermarsi?".

Mila alzò la testa verso la rivista di sorrisiecanzoniTV mezzo nascosta nella tasca del sedile davanti al suo, e poi guardò sua madre staccare la guancia dal finestrino per rimettersi frettolosamente dritta con la schiena.

Daniela si sforzò di mantenere un'aria composta, nonostante il colorito giallognolo sul volto non le fosse d'aiuto per nascondere quanto in realtà soffrisse il mal d'auto. "No, non si preoccupi." rispose, riuscendo a scorgere le spalle massicce del tassista rilassarsi subito per il sollievo. Lo avrebbe preso per un gesto maleducato se non fosse stato anche pienamente giustificato, visti quei terribili minuti -per lei e, sicuramente, anche per lui- passati sul ciglio della strada a passarle salviette e a reggerle le spalle quando pareva minacciare di vomitare vicino alle gomme del taxi. Mordendosi il labbro per l'imbarazzo nel ripensare a quelle cose, si concesse di osservare il profilo dell’uomo per non più di qualche secondo. Era grosso, con capelli lunghi che le avevano subito fatto storcere il naso, e che dal cartellino sul cruscotto diceva di chiamarsi Nikolaj Efremov.

Un nome russo. E anche l'accento, se ci faceva caso, era un po' russo.

Daniela sospirò e distolse stancamente lo sguardo. In realtà le sembrava che il suo stomaco la stesse implorando in cento lingue diverse di fermare quello stupido taxi! e scendere almeno un'altra volta  -una prima e una seconda alla fine non erano bastate come aveva sperato. Lo mise a tacere con qualche carezza sulla pancia, decidendo di dare la precedenza all'altrettanto forte desiderio di arrivare a destinazione il più in fretta possibile. "Sa quanto manca?".

Nikolaj Efremov, prima di risponderle, tornò a concentrarsi sulla guida per mandare al diavolo due motociclisti con un deciso colpo di clacson. "Non più di mezzora.".

Daniela annuì, decidendo che non si trattava di un tempo troppo lungo da sopportare.

Gettò lo sguardo sul suo cellulare, stretto forte nella mano come se fosse un durissimo antistress, constatando dal display che erano appena passate le diciassette e ventitré, che il blocco tasti era stato attivato e che c'era un messaggio non letto insieme a due chiamate senza risposta. Non ne era sicura, ma immaginò che a cercarla fosse di nuovo Vincenza, e la ritenne una scusa sufficiente per non rispondere.

Vincenza non faceva che cercarla per motivi futili o poco interessanti da quando aveva lasciato il marito eterno.amore.che.non.ho.certo.sposato.per.soldi, e Daniela detestava l'essere sempre la prima a farsi coinvolgere nelle sue improvvise voglie di organizzare feste in piscina, o in manifestazioni contro l'aborto davanti agli ospedali, o in infinite crisi di pianto isterico passate al telefono agli orari più assurdi. Lo detestava, seppur vedesse bene di mordersi la lingua e sopportare di fronte a qualsiasi richiesta della sua vecchia vicina di banco del liceo, nonché attuale datrice di lavoro. Ma per quella volta, con tutta la sua pazienza annebbiata dal mal d'auto, certa che di qualunque cosa si trattasse non avrebbe esitato troppo a mandare Vincenza a quel paese, decise di rimandare lei e i suoi problemi a quando sarebbero arrivate.

Stendendosi sul sedile per trovare una posizione più comoda e approfittando di un momento privo di nausea e capogiro, sbirciò sua figlia con la coda nell'occhio per vedere che cosa stesse facendo.

Le venne da sorridere nel constatare che, a confronto, Mila sembrava davvero il ritratto della salute. Daniela aveva passato gran parte della sua infanzia e adolescenza in balia di una nonna che (scontati i suoi trentacinque anni di secondo matrimonio rinchiusa in casa a doppia mandata) rimasta vedova un'altra volta aveva dato inizio a una tale serie di viaggi che Daniela non si sarebbe stupita se le avessero detto che non c'era più un angolo di mondo che lei non avesse visitato: quando poi suo padre o la zia Emanuela le concedevano il permesso, la nonna non aveva mai esitato a trascinarsela appresso anche contro la sua volontà. E che fosse stata automobile, aereo, nave, treno, carrozza, barca, autobus o quant'altro Daniela non aveva memoria di essere mai riuscita a leggere così bene (o a leggere, in generale) nemmeno le vignette di un fumetto. E non concepiva il come qualcuno come Mila riuscisse a farlo senza poi soffrire il più leggero dei mal di pancia. Questione di fortuna, ritenne. O di costituzione. Scosse la testa e decise di non pensarci.

"Tesoro", mormorò, allontanando con la mano un ciuffo scomposto di capelli dal collo.

Mila la guardò con quegli occhi attenti e scurissimi che non si capiva da chi avesse preso, stringendo con le dita i bordi di quel libro che, forse, era troppo grosso per una bambina che aveva a malapena finito la prima elementare. In effetti per lei era (lo diceva sempre suor Maria Clemente con le sue solite parole mangiucchiate) una specie di tic sedersi in un angolo e aprire un libro come quello a qualunque buona occasione, anche per aspettare che la madre finisse il suo turno di lavoro per andare a prenderla al catechismo. Signora Clemente diceva anche, lei che la conosceva bene almeno fin dal giorno del suo battesimo, che quell'amore per la letture era forse la sua caratteristica più sorprendente, e che non andava ostacolato.

Mila aveva imparato a leggere quando ancora andava all'asilo, e lo faceva con una tale bravura e passione per la sua età da lasciare quasi sconcertati. Lei adorava, soprattutto, le favole, e non c'era libro a casa sua che trattasse l'argomento e che non fosse stato divorato dai suoi occhi mai sazi di carta ed inchiostro. Rimaneva estasiata al sentir parlare di cose che nulla avevano a che fare con la realtà, ma che erano vive e nitide nella sua testa come se al mondo non esistesse null'altro. Mila credeva fermamente nelle fate che abitano nelle corolle dei fiori, nel castello dell'orco costruito in cima alle nuvole, nel cervo celeste che vive sottoterra e desidera vedere la luce del sole, nei folletti che la notte rompono le cose e scompigliano i capelli alle fanciulle, negli spettri incantati che dimorano dietro gli specchi, nell'acciarino magico che realizza i desideri, nell'uomo che soffia la sabbia sugli occhi dei bambini addormentati per farli sognare.

Daniela la lasciava fare, pur dubitando che certe letture le facessero bene. "Cosa stai leggendo?".

 

Mila distolse lo sguardo per posarlo ancora sul suo libro, soffermandosi sul disegno di una donna con gli occhi sottili e che irradiava righe di luce da tutto il corpo. Ricordava la storia, ma non il titolo, e allora lo cercò nella pagina accanto.

"Amaterasu." lesse piano.

Poi l'auto prese una curva stretta con troppa velocità, e Mila, nel sentirsi spingere a destra da qualcosa d'invisibile, dovette reggersi con forza al suo sedile per non sbilanciarsi e cadere addosso a sua madre. quel movimento, in un certo senso, la divertì, e quando sentì la gravità tornare al posto giusto le scappò un risolino che non si preoccupò di trattenere. Il volto di Daniela, invece, divenne di un bianco che sfiorava il cadaverico mentre si lasciava schiacciare contro la portiera senza opporre resistenza. Mugugnando debolmente, si avvicinò una mano alla fronte nel sentire la testa vorticare quasi stesse per staccarsi dal collo da un momento all'altro. Guardò fuori, dove la terra si era coperta di lembi gialli e marroni facendola sembrare una grande coperta toppata, e la pianura cominciava a gonfiarsi ed al alzarsi in colline sempre più alte che disegnavano profili di uomini o mostri addormentati. Il cielo non aveva nuvole, e pareva un soffitto azzurro così vicino da poterlo toccare solamente sollevando la mano. Daniela socchiuse gli occhi nel sentire quei colori iniziare a darle fastidio, e si massaggiò prepotentemente lo stomaco quando percepì un sapore disgustoso salire e scendere dalla pancia fino alla bocca.

"Signora" la chiamò il tassista dopo -nessuno lo notò-  aver alzato gli occhi verso l'alto e mimato con le labbra uno sbuffo scocciato. "se vuole ci fermiamo.".

Daniela scosse subito la testa e scrollò le spalle, farfugliando un 'No' deciso prima di risedersi di nuovo composta. Quel movimento troppo improvviso le provocò un altro capogiro, e subito si riaccasciò arrendevole contro lo sportello. Lui insistette. "Ne è sicura? Guardi che c'è un bar più avanti e se vuole può andarsi a bere un caffè o tipo fumarsi una sigaretta o non so... prendere aria, sgranchirsi le gambe...". Ma Daniela negò di nuovo, e non appena oltrepassarono il cartello che indicava l'ingresso all'autogrill nessuno toccò più l'argomento.

Mila, senza più traccia di un sorriso sulle labbra, guardò i due adulti senza dir nulla, uno dopo l'altro, per quel che poteva. Il Signore del taxi aveva cominciato a picchiettare la punta dell'indice sul volante, forse annoiato, forse stanco. La mamma aveva sbadigliato, poi sospirato, e poi si era lasciata dondolare sul sedile curvando la schiena per avvicinare il mento al petto, e alla fine si era girata e aveva ricambiato lo sguardo regalandole un sorriso dolce. "Cos'è...?" iniziò a chiederle con voce stanca. Allungò una mano verso di lei, pensando di sistemarle il cappellino bianco che le si era sbilanciato sulla testa fino a coprirle un orecchio sì e l'altro no, ma la ritrasse quasi subito. "Ama... Amatasu? Me lo racconti?".

Mila tornò a guardare il suo libro, le file di lettere e poi di nuovo il disegno di prima. Sfiorò i capelli della donna, immaginandoli di seta invece che di carta. "E' la dea del sole" spiegò con voce squillante, da bambina, ma velata da una sorta di malinconia, di un qualcosa di cupo e triste che sembrava sottolineare quanto le costasse parlare. Daniela se ne accorse, ma la lasciò continuare senza battere ciglio.  "Siccome aveva bisticciato col fratello si era nascosta in una grotta, ma però siccome lei era il sole la terra era rimasta buia e tutti cercavano di convincerla a uscire ma nessuno ci riusciva." . Mila raccontò di Uzume, la dea orientale dell'ilarità, che appese uno specchio davanti a quella grotta e vi danzò accanto spogliandosi del suo vestito di fiori fino a provocare la risata dei presenti. Amaterasu, incuriosita dalle voci, sbirciò fuori dal suo nascondiglio, e un suo raggio di luce si rifletté contro lo specchio fino ad abbagliarla. Allora i presenti ne approfittarono per farla uscire, e il kami del sole, circondata dalle risa di tutte le altre divinità, decisa di ridare la luce alla terra, e Uzume da quel giorno divenne anche la dea dell'alba. Nessuno nell'auto parlò più fino a quando non raggiunsero la loro destinazione.

Sul cellulare di Daniela scattarono le diciassette e quarantadue quando il taxi iniziò a rallentare per uscire dalla strada principale ed imboccarne una secondaria. Mila fece in tempo a scorgere un vistoso palloncino rosa frullare nell'aria sotto i colpi del vento, attaccato a un palo della luce e a un foglio appiccicato con lo scotch che diceva 'Benvenuto! La festa è al 19/B!!', prima che tutto diventasse verde.

La nuova strada non era asfaltata, ma fatta di sassolini e tanta polvere bianca. Avanzando, la macchina cominciò a sbandare appena su sé stessa facendo tremare i sedili e rendendo il volto di Daniela di nuovo pericolosamente bianco. Mila sentì il libro scivolarle dalle ginocchia, e allora lo chiuse, e lo strinse al petto con le braccia come se fosse stato il suo Kala Nag. Guardò l'orologio da polso che ancora non sapeva leggere bene, e il sorriso antipatico della zebra disegnata sullo sfondo del cerchio coi suoi denti chiari e grossi come zollette di zucchero. La freccia piccola era ferma sul sei, quella grande sul dodici e quella sottile sul due-tre-quattro quando l'auto imboccò un'altra curva verso una striscia d'asfalto larga quel che tanto da far passare una macchina per volta. Il paesaggio cambiò ancora, e Mila, incuriosita, si avvicinò al finestrino sfiorandone il vetro con le unghie di una mano. Guardò gli alberi correre nel senso opposto al loro, una villetta gialla piena di fiori alle finestre, le foglie gonfiarsi e appiattirsi come se stessero respirando a pieni polmoni, una casa più piccola e squadrata con la piscina in giardino, la terra sputare fuori funghi e ciuffi d'erba  ed addentare con forza le radici delle piante, un qualcosa dalla forma di casa che non degnò nemmeno di uno sguardo. Anche Daniela, con la fronte sul finestrino e i capelli della frangia stretti fra le dita, cominciò ad osservare il paesaggio, scoprendo che il verde e quella luce leggera le davano sollievo alla vista e alla testa. Guardò meglio, con la fronte ancora sorretta da una mano, mentre il vento muoveva il fogliame in un movimento docile da cui rimase ipnotizzata. "Che bel posto." commentò, voltandosi verso la figlia alla ricerca di una qualche conferma da parte sua. Mila non badò alla madre, anche lei incantata dal muschio, dalle rughe dei tronchi e dai rami più alti che si intrecciavano tra loro o si stendevano verso il cielo quasi volessero afferrarlo. E rimase così concentrata sul bosco che quando gli alberi sparirono le scappò dalle labbra un sussulto spaventato. Dal finestrino fissò un prato senza fiori brillare con forza sotto il sole, e ai margini del prato, oltre un muro di rete, altri alberi, ancora e ancora.

Ancora e ancora.

Mila allungò il collo verso il vetro per cercare di vedere più lontano, oltre tutte quelle chiome verdi che a guardarle parevano morbide e le facevano venir voglia di accarezzarle. Immaginò di caderci sopra e rimbalzare in alto come con un tappeto elastico, e allora inizio a pensare al Luna Park, a papà, alle vacanze con i suoi genitori e al fatto che al mare se saltava sulla sabbia si faceva male, e che là non c'era mai stato così tanto verde. Quel posto ne era pieno.

Ancora e ancora, si ripeté, e fece o spelling battendo le dita contro il finestrino.

Poi il taxi cominciò a rallentare, e Mila, in un misto di attesa e curiosità, strinse il libro a sé preparandosi a scendere. Guardò sua madre, il sedile del signore, la maniglia dello sportello, e quando sentì lo strusciare più violento e poi più leggero delle gomme, e i sedili, dopo un gemito assonnato del motore, smettere di tremare sotto di lei, si rese conto che la macchina si era fermata. E che loro erano arrivati. Daniela scese dal taxi immediatamente, non appena Nikolaj Efremov alzò il freno a mano e girò la chiave per spegnere il motore: aprì lo sportello e sbucò fuori dalla macchina così velocemente che quasi inciampò sui suoi piedi. Si appoggiò alla carrozzeria con la schiena, lasciandosi andare in uno stanco sospiro liberatorio, grata che quel torturante viaggio fosse finalmente giunto al termine.

Mila invece, senza fretta, spinse via lo sportello con tutte e due le mani, scivolò giù dal sedile cadendo sui piedi, e prese un po' di tempo per sentire grattare la suola delle scarpe contro la ghiaia del terreno. Chiuse faticosamente lo sportello e se ne allontanò immediatamente, alzando subito lo sguardo in avanti per studiare il posto in cui erano appena arrivate. La gonna verde del vestito si gonfiò sotto un soffio di vento che aveva cominciato a farle il solletico alle gambe e alle ginocchia, prima che quella specie di sussulto diventasse un ululato furioso che le schiaffeggiò le guance e le fece coprire gli occhi col dorso di una mano. I capelli le frustarono il collo e le orecchie, intrecciandosi in corti fili colo mogano fino a diventare un buffo caschetto arruffato. Mila abbassò la faccia quando granelli di polvere minacciarono di caderle negli occhi, e nel farlo sentì il cappellino scivolarle via dalle orecchie e poi da tutta la testa. Allora si voltò, guardandolo fare due sgraziate capriole nell'aria e fermarsi contro il petto un uomo ancor prima che lei avesse il tempo di allungare una mano.

Il vento si calmò proprio in quel momento, e tutto tornò tranquillo come se nulla fosse successo. Il signore, di cui Mila riuscì a scorgere i pantaloni scuri e gli orli di una giacca dello stesso colore (troppo pesanti per essere luglio), le porse il cappello così velocemente -lentamente?-  da farla sussultare. Mila riprese il panama e lo rimise in testa con una sola mano, cercando di alzare di più lo sguardo verso l'altissimo sconosciuto. Le sfuggì un "Grazie" sottile, e poi l'uomo la sorpassò, superò il taxi e sparì, lasciandola sola col suo libro e il suo cappello storto sulla testa. Lei provò a cercarlo con lo sguardo, e quando non lo trovò e Nikolaj Efremov le tagliò la strada per raggiungere il bagagliaio, decise di non badare ulteriormente a quello sconosciuto. Ignorando il tassista che la stava ignorando, con quattro saltelli superò la macchina per guardare l'ingresso della casa dove, a detta della mamma, avrebbero passato parte delle loro vacanze estive. La casa era una villa, ed era tutta bianca, ed era così alta che lei non riuscì nemmeno a vederne il tetto, e aveva finestre color specchio che parevano tanti quadrati di cielo appesi alle mura come dipinti. Le labbra le si dischiusero in un'espressione di sorpresa nell'accorgersi di quanto le ricordasse il castello della principessa Nevina, la figlia di Gennaio che passava le giornate a fabbricare la neve per disperderla sul mondo e le notti sul balcone della sua stanza, col mento racchiuso tra le mani e lo sguardo rivolto verso l'orizzonte ghiacciato, sognando i fiori, il mare, i colori e i profumi delle terre della primavera. Nevina che scappò dal suo regno di ghiaccio e s'innamorò del bel Fiordaprile, senza sapere che il tocco caldo dello zefiro le avrebbe mozzato il respiro e che i raggi del sole avrebbero sciolto la sua meravigliosa pelle di neve.

Quando non trovò nessuna principessa col lo sguardo perso nel paesaggio in nessun balcone o in nessun davanzale, Mila rimase molto delusa: si mise allora a cercare la mamma, trovandola vicino al taxi mentre si lasciava baciare la guancia dall'uomo che la stava abbracciando dolcemente per le spalle. "Daniela", parlò una voce che Mila conosceva già e che le provocò un brivido dalla pianta dei piedi fino alla nuca. "benvenute.".

L'uomo, con un sorriso cordiale sulle labbra sottili, si allontanò dalla donna e la fissò negli occhi, studiandone il color caramello dai curiosi riflessi rossicci. "Com'è andato il viaggio? Vi siete stancate?"  "No, affatto!" mentì lei teatralmente, sciogliendo l'abbraccio e guardandosi attorno, le dita delle mani intrecciate davanti al petto. Sapeva che quello di Amos era un lavoro redditizio (le aveva accennato a una società, ma non sapeva di che genere), e parlandogli al telefono aveva capito che la casa a cui le aveva accennato doveva essere molto grande. "Hai davvero una casa stupenda! E il posto è incantevole." 

"Un po' vuota, ma molto bella, sì...". Amos, distendendo i lineamenti del viso in un'espressione serena, gettò un'occhiata incuriosita alla bambina che li stava osservando da lontano, e Daniela, intuendo i suoi pensieri, si voltò verso la figlia facendole segno di raggiungerli con un gesto della mano. Lei ubbidì, camminando con passi corti e incerti, arrivando al fianco della madre e aggrappandosi subito all'orlo della sua gonna. "Tesoro" Daniela le sistemò il cappellino e le accarezzò il suo caschetto di capelli. "Ti ricordi dello zio Amos, vero?".

Mila, dopo aver contemplato il colore delle sue scarpe per qualche secondo, si azzardò ad alzare lo sguardo verso la persona che si era appena inginocchiata davanti a lei. Ricordava bene il fratello maggiore di suo padre, anche se l'unica volta che l'aveva visto era stata più di sei mesi prima (era mattina, gennaio era appena cominciato, il cielo ghiacciato minacciava grandine e l'aria pungeva come se fosse stata ricoperta di aculei) e non gli aveva rivolto nemmeno una parola. Quel giorno lo aveva visto darle le spalle mentre passava la punta delle dita sul legno chiaro di una bara chiusa, come immaginando di accarezzare il volto della persona che vi si trovava dentro, e lei per un attimo aveva creduto che quell'essere dai lunghi boccoli neri fosse suo padre tornato indietro dallo Yomi, il regno dei morti dove vige l'eterna oscurità, e il sangue le si era quasi congelato dalla paura. Eppure, guardandolo in quel momento, con una mano testa verso di lei e gli occhi neri fissi sui suoi, si convinse che in realtà suo zio non assomigliava per niente al suo papà.

"Ciao, Massimiliana." la salutò, e lei storse il naso in una brutta smorfia stringendosi ancora di più alla gonna della madre. Nessuno la chiamava così, né i vicini, né i compagni di scuola e nemmeno i suoi genitori: persino le maestre si erano arrese a quel diminutivo al di fuori di quando facevano l'appello, e maestra Chiara aveva già smesso di sgridarla perché sul retro del foglio scriveva sempre 'Mila Capitta' quando finiva il suo problema di matematica. Massimiliana, per lei, non era che poco più di un nome sconosciuto, e quasi lo odiava.

Lo zio le sorrise, scrutandola come per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio del suo aspetto. "Caspita, sei cresciuta tantissimo, sai? Ormai sei una signorina." continuò, allargando il sorriso e avvicinando la mano per stringere la sua. Ma lei non ricambiò il saluto, aggrappandosi alla gamba della mamma e nascondendo il volto nella stoffa blu della gonna, scuotendo il capo.  "Tesoro. Saluta, da brava." Daniela, pur parlando alla figlia con voce dolce, non riuscì a trattenersi dal lanciarle un'occhiata di rimprovero. "Lo sai che è stato lo zio a proporci di passare qui le vacanze? Perché non lo ringrazi?"  "Non importa.".

Amos, sembra l'ombra di rabbia o delusione sul volto o sul suo sorriso color miele, si alzò in piedi e portò le mani sulla stoffa dei pantaloni per toglierne un po' di polvere. Mila osservò i suoi movimenti, e nonostante il caldo di quella giornata riuscì quasi a sentire un brivido di freddo quando avvertì ancora quello sguardo scuro su di sé. "Sarete stanche, vi accompagno in camera. Abbiamo tanto da raccontarci.".

Daniela annuì, sforzandosi di rimediare all'atteggiamento ineducato di Mila con un sorriso gentile e con qualche altro complimento per la casa meravigliosa. Avrebbe voluto scusarsi, dire che sua figlia era una bambina socievole, e che le era sempre piaciuto conoscere gente nuova, che lei voleva bene a suo padre in un modo molto vicino alla venerazione e che quando lui era morto non aveva più voluto rivolgere un sorriso quasi a nessuno. Ma si trattenne, si affiancò ad Amos e si fermò quando si accorse che Mila era rimasta indietro per guardare il tassista afferrare malamente il suo zainetto di Winnie the Pooh mentre con l'altra mano prendeva il manico della valigia. Daniela sorrise al cognato e lo lasciò per raggiungere la bambina, inchinandosi per prenderla in braccio e baciandole la guancia. "Visto?" le sussurrò all'orecchio, accarezzandole la schiena. "Sembra il castello di una principessa."

 












Onigiri



IMPORTANTE:

*La favola della principessa Kaguya;
*Il Califfo Cicogna ;
*Ma Liang;
*Amaterasu ;
* Nevina e Fiordaprile .



Ordunque... credo sia più giusto cominciare col dire che questa storia non è nata come Originale, ma come fanfiction.
Per motivi personali (che non starò qui ad elencare giusto per il gusto di annoiare qualcuno ^^") ho finito col cancellare tutte le mie storie, compresa questa, che all'epoca si intitolava "Chiudi gli occhi, e ascolta la sua voce".
Il motivo per cui la sto ripubblicando, ripresentandomi in questo sito letteralmente con la coda tra le gambe, è perché a quanto pare non riesco a stare lontana da questa storia. Quello per cui ho cambiato fandom credo siano i personaggi: la storia era nata, nella sua stesura iniziale, con una trama completamente o quasi diversa da quella che sto proponendo adesso, e quando la storia ha cominciato a cambiare nella mia testa bucherellata tutto ha iniziato a scivolarmi via di mano, soprattutto i protagonisti -nel loro aspetto sia caratteriale che fisico. Perciò, per chi ha già letto questa storia nella sua stesura di fanfiction, innanzitutto mi scuso se ho finito col cancellarla (Non che mi aspetti che a qualcuno sia importato sul serio ^^"), e li ringrazio ancora chi ha letto quei primi dieci capitoli e mi ha sempre incoraggiata. Farò del mio meglio con questa stesura originale, sperando esca qualcosa di perlomeno decente XD.

Per chi non ha mai sentito parlare di questa storia e stava molto meglio prima di averne letto il prologo, avviso che la storia è molto lunga. Inizialmente avevo in mente una robetta di due o tre capitoli, finendo poi con lo svilupparla -sempre, s'intende, nella mia testa malandata-  in  quattro "saghe".  Perciò durerà un po', e con tutto il miscuglio di ingredienti che ho intenzione di infilarci spero di non combinare un pasticcio >_>".
Comunque sia, ringrazio chi sia arrivato almeno a leggere il prologo =).  Per quanto assurda, tengo davvero tanto a questa storia, perciò grazie mille ^^!

Un bacione a tutti!
Onigiri


   
 
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