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Autore: Tatan    29/04/2010    8 recensioni
Si avvicinò, a passi sicuri e veloci, per incontrare quella Rivoluzione che non aveva mai conosciuto,  ma nel cui nome stava per morire. Grantaire socchiuse gli occhi. Il rumore assordante degli spari. La stretta della mano di Enjolras che si affievoliva un po’. Ancora rosso sulle pareti. 
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Requiem per pubblicazione

                                       Requiem for a Dream

Era finita.

Il fumo avvolgeva via Chanvrerie, un fumo denso, acre, puzzolente di polvere da sparo e morte.

La strada , improvvisamente silenziosa dopo i tumulti delle ore precedenti, sembrava immersa in un sogno: i corpi disseminati sul selciato, il sangue a macchiare i muri delle case, le porte e le finestre sprangate, e quella mitragliatrice maledetta ancora lì, ferma e spietata, l’unica ancora in grado di reggersi in piedi dopo il massacro.

Gli unici rumori, scalpiccii, gemiti, colpi sordi e grida soffocate, provenivano dalla taverna Hucheloup, il teatro di tutta la rivolta, ormai rimasto null’altro che una rovina orribile, mutilata dai colpi di cannone e dalle pallottole, demolita a metà; sembrava aspettare solo l’ultimo atto della tragedia prima di crollare del tutto. 
 
 

Grantaire si svegliò di soprassalto, stupito della improvvisa quiete che regnava nella bettola. Sbattè le ciglia una, due volte, mentre il torpore scivolava via velocemente dalle sue membra intorpidite.

Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte.

Mise lentamente a fuoco la bottiglia scura che gli stava davanti. I bicchieri vuoti, alcuni rovesciati ed altri no, sparsi sul tavolino. Ancora una goccia bordeaux  in quello più vicino.

Grantaire sorrise, del suo sorriso un po’ malsano, e allungò il braccio verso quell’ultimo goccio, stiracchiandosi pigramente come un gatto.

Stava raggiungendo la sua preda, quando commise l’errore di alzare lo sguardo.

E di accorgersi che il rosso non era solo in fondo al bicchiere.

Era ovunque.

Sulle pareti intonacate d’azzurrino spento, sui tavoli di legno scheggiati, sulle sedie, a mescolarsi con i toni scuri del pavimento, un inquietante disegno tra le piastrelle. 

Pietrificato dall’orrore, Grantaire osservò rapito gli arabeschi scarlatti, seguendone con lo sguardo le trame, fino a quando la sua attenzione non fu catturata da qualcosa di ancora più agghiacciante, uno spettacolo che la sua mente, lucida a dispetto dell’alcool ancora in circolo, non tardò a comprendere.

I cadaveri erano sparpagliati per tutta la lunghezza del salone. Una quindicina, forse anche meno, ma  gli sembrarono un numero esorbitante.

L'odore di sangue e polvere si insinuò nelle sue narici, mentre fissava stravolto la carneficina.

Alcuni indossavano la divisa militare, ma la maggior parte era vestita degli stracci dei pezzenti, e tra questi Grantaire riusciva a distinguere almeno due o tre volti familiari: il panettiere dell'angolo, lo straccione che abitava nello scantinato, quel ragazzo con il viso coperto di lentiggini...
Il giovane ricacciò giù la bile, mentre i suoi occhi continuavano ostinati a perlustrare la stanza.
 

Volete che vi bendino gli occhi?”

Una voce gentile, non troppo lontana, lo costrinse a voltare la testa.

Almeno una dozzina di soldati stava in fondo al salone, girati verso qualcuno addossato al muro che Grantaire non riusciva a vedere.

Nessuno si era accorto di lui.

 “No.” Rispose seccamente un’altra voce da dietro le uniformi.

Il cuore del giovane ubriacone reagì a quel suono in modo fulmineo, incominciando a palpitare furiosamente.

Conosceva perfettamente quella voce, e conosceva bene anche quel tono sdegnato, sprezzante e orgoglioso, che solitamente era rivolto a lui.

Si alzò, attento a non farsi notare, allungando il collo e guardando al di là dei gendarmi, finchè vide tutto quello che desiderava vedere. 

Un’aureola di capelli dorati. Un viso dai lineamenti fanciulleschi, quasi femminili, induriti solo dalla linea volitiva della mascella. La solita espressione severa e una luce quasi fanatica negli occhi blu.

Enjolras.

Imbrattato di sangue non suo dalla testa ai piedi, i vestiti luridi e strappati, le braccia conserte e la schiena diritta: il giovane capo rivoluzionario non era mai stato così bello.

Grantaire sentì un calore improvviso salirgli alle guance e un’euforia insensata impadronirsi di lui.

Enjolras era lì, a pochi passi da lui. Vivo, splendente, vittorioso.

La rivincita degli sconfitti. Il trionfo dei colpevoli, dei miserabili. Nella sua assurdità, invincibile.

Grantaire si sarebbe quasi messo a ridere dalla gioia.

L’ufficiale che prima aveva parlato gli rivolse ancora qualche altra parola,  a cui Enjolras rispose brevemente.

Un cenno ai soldati, che si mossero coordinati come un sol uomo, e poi un'unica, spaventosa parola, a decretare la fine: “Puntate.”

Una parola che però, per quanto terribile, non atterrì Grantaire come forse avrebbe dovuto.

Lui la udì perfettamente, ma non si preoccupò di darle un significato che andasse oltre la sensazione  di dover fare qualcosa, subito, immediatamente, l’urgenza degli istinti.

Distolse suo malgrado gli occhi dal giovane biondo con le spalle alla parete, e si concentrò sulle emozioni che governavano ora il suo corpo.

Si guardò dentro, probabilmente per la prima volta.

E trovò qualcosa che lo storico scettico dell’ABC non si sarebbe mai aspettato.

Non aveva paura. In quel momento, in quel preciso istante, non aveva paura. Nemmeno un po’.

Né dei soldati, né  degli spari, né di Enjorlas, né dei morti, né della morte.

Non aveva orrore nemmeno di se stesso.

C’era in lui qualcos’altro che cancellava la paura.

Perché lui stava -Grantaire faticava a crederci-…splendendo.

Splendeva, anche lui. C’era il calore nelle sue ossa, il calore che partiva dal cuore e arrivava alle gambe, alle mani, alla mente, e annegava il resto; il caldo che spazzava via le ombre nelle pieghe dei suoi pensieri, e l’impossibile sensazione di meraviglia che stava provando.

Splendeva quasi come Enjolras. Quasi, perché Enjolras era perfetto, e lui no.

Ma anche lui splendeva. C’era una fiamma che nemmeno litri e litri di vino erano riusciti ad estinguere. 

Grantaire si rese improvvisamente conto di essere, forse per la prima volta nella sua vita, nel posto giusto al momento giusto. Lui era giusto. Pronto. Per il suo destino.

Si condannò con un sorriso.

Rise di gusto, forte, davvero, e la sua voce roca rimbombò nella taverna,.

Brillante e lucente, bello di gioia, bello di felicità, bello nel cuore, della bellezza utopica dei sogni.

Si avvicinò, a passi sicuri e veloci, per incontrare quella Rivoluzione che non aveva mai conosciuto,  ma nel cui nome stava per morire.

“Viva la Repubblica! Ci sono anch’io!” gridò.

Avanzò tra i soldati stupefatti, nel silenzio assoluto, gli occhi scuri fissi in quelli sgranati e blu di Enjolras. Il giovane rivoluzionario, paralizzato dallo stupore, lo scrutava attento con uno sguardo che rivelava incredulità, meraviglia e – il sorriso di Grantaire si fece più largo- ammirazione.

Nel giro di un istante, anche sul volto del biondo ribelle apparve un sorriso.

Infinitamente dolce, aperto, vero.

Enjolras sorrideva, e Grantaire sapeva che quel sorriso era l’unica Patria per cui valesse la pena di combattere.

L’unico ideale per il quale lui era degno di morire.

Si affiancarono, prendendosi la mano.

L’ufficiale fece un cenno, un’attimo ancora di silenzio, una goccia di sudore sulla fronte.

Grantaire socchiuse gli occhi.

Il rumore assordante degli spari. La stretta della mano di Enjolras che si affievoliva un po’.

Ancora rosso sulle pareti. 
 
 

Fuori, lungo via Chanvrerie, anche il sole moriva.  











Salve, sprovveduto lettore!
Com'è che sei capitato quaggiù, a leggere questa robaccia deprimente? Una vera perdita di tempo, lo so.
Le lamette sono in fondo al corridoio, a destra, cassetto contrassegnato con il teschietto. Cerca di sporcare il meno possibile, ché il sangue non si lava facilmente.
E magari lasciami un commentino, su U__U
Tatan
  
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