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Autore: Rucci    29/08/2005    7 recensioni
Questa è stata la mia prima, brevissima oneshot. Dedicata al Principe Dio della Guerra, Toshin Homura Taishi, nonché mio affezionato genitore. çOç (XD)
Scrivere su di lui è quantomai complicato. Però un giorno ho aperto Word e l'ho fatto.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kanzeon Bosatsu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una musica di pianoforte

GODS NEVER CRY

 

Una musica di pianoforte.

Dolce, lenta, e allo stesso tempo quasi tintinnante.

Rutila dentro la mia testa, mi tintinna nelle orecchie, e i miei occhi guardano il soffitto ma non vedono niente, bocca semichiusa, curiosa, sguardo perso, assente.

Mente vuota.

Musica.

Due voci stanno confabulando su qualcosa. Vorrei abbassare il capo per guardarli, ma non ne ho nemmeno voglia. Apatia?

O forse perché non so come so già che incontrerei due sguardi un po’ strani, e Zenon con un’aria che esprime lieve preoccupazione e una vaga nota di sguardo affranto sarebbe ben innaturale. E le sopracciglia inarcate di Shien, poi. Già le vedo.

Ma cos’avranno poi da confabulare proprio oggi?

Oggi che sono normale, oggi che sono come tutti i santi giorni.

- Homura? –

Mi stai per porre una domanda?

Sono curioso.

E insieme continuo a guardare il soffitto senza vederlo, come apatico, senza nemmeno ricongiungere le labbra socchiuse, che diventano lentamente secche al contatto della loro umidità con l’aria e il respiro che esce dal mio petto riversandosi su di loro.

- Ti senti bene? –

La musica si è interrotta. Drizzo il capo con un certo sforzo. Per apatia.

- Che domanda è? –

- È una domanda. –

- Mai stato meglio. –

Oggi siamo passati per un villaggio.

Strano per noi fare una cosa simile, certo.

Però era per spiare le mosse di Konzen e soci, e allora via. E del resto, stare a marcire in questa torre senza fare niente da mane a sera non ha alcun senso, e così ci siamo scomodati. Noi, tre dèi. Dèi. Dèi.

Più questa parola la rigiro in testa più mi suona strana.

È come quando ripeti a fior di labbra la stessa parola due, tre, sei, dieci volte, e poi all’improvviso ti accorgi che a forza di ripeterla ha perso il suo senso. La ripeti un’altra volta, stupito, e ti rendi conto stralunato che al suono non è più associato un significato, e ti senti quasi sperso, perché hai perso il controllo di qualcosa. Di qualcosa di semplice, di qualcosa di naturale. E per questo sei ancora più smarrito. È questione di poco e poi la riassoci al concetto. Ma quell’attimo di smarrimento è strano, quei secondi confusi dove il significato si stacca dalla parola, e la parola non è più parola ma è suono, e il significato si perde in un universo inesplorato e a parte, e non sai più come riappropriartene, perché occorre una parola, un suono che lo vada a definire, che lo vada a catturare e lo contenga, altrimenti come fai?, come fai a conoscerlo? A possederlo?

Dèi.

Ecco. Proprio questo.

È che avevamo visto un uomo, quel pomeriggio, un uomo come tanti, voglio dire. Portavano via su di una barella un corpo, una donna, si capiva, probabilmente sua moglie, probabilmente la sua convivente, probabilmente la sua amante, la sua donna, comunque; la sua donna. Forse era morta di malattia.

Tutto quello che ci ha colpito, o più che altro che ci ha fatti fermare a guardarlo muti, di pietra, è stato che piangeva. Piangeva forte, senza ritegno, senza neanche coprirsi la faccia, e si vedeva che soffriva. Lacrime lacrime, dal volto di un uomo.

Tutto qui.

Tutto qui, davvero.

Niente di che, voglio dire.

Di scene così, purtroppo, a volerlo ce ne sono anche tutti i giorni.

E ora i miei due compagni sono qua a chiedermi se sto bene. Che domanda è?

Così, ruoto ancora il capo all’indietro, e guardo il buio del soffitto di questa sala fredda.

Mi perdo in pensieri senza filo, nel nulla totale.

Musica, ancora.

È tornata.

Pianoforte, suono tintinnante eppure lento.

Il mio sguardo si fa opaco e non vede più nulla.

Sento vagamente dei passi verso la porta. Stanno per lasciarmi solo. Proprio non sono di compagnia, oggi, si vede. Sarà il tempo?

- Homura? –

Non mi volto, ma sanno che li ascolto. La voce melodica e pacata di Shien.

- Forse questa domanda è indiscreta, e oltremodo stupida. Ci risponderai? –

Tante frasi sottointese, tra le due pronunciate: “Se ti facciamo una domanda, non è per l’aria che tira. Potrai trovarci un significato. A noi puoi dire tutto. Ogni cosa. Noi vogliamo sapere tutto di come ti senti. Siamo compagni. Siamo insieme. Lo saremo sempre.

- Sì. –

- Per lei. Hai mai pianto? –

La musica si è interrotta, di nuovo. Vinco l’apatia. Abbasso il capo.

Silenzio, silenzio di tomba, i miei due occhi dal colore diverso che li guardano, finestre calme, ma dall’aria vagamente stupita.

Silenzio.

Vuoto.

Mi appoggio allo schienale del seggio, labbra chiuse.

Incrocio le dita, le mani avanti a me.

Rispondo.

- Gli dèi non piangono. –

Una porta che si apre, luce che filtra.

- Mi sembra giusto. –

Una porta che si chiude, luce che scompare.

Respiro.

Non ho più voglia di alzare il capo verso l’alto e la musica è finita.

Gli dèi non piangono.

Perché, io? Sono forse un dio?

 

END?

 

- Risposta degna di Homura. –

- Carica di verità. –

- Hai mai avuto esitazioni, Shien? –

- Nel seguire lui? Mai. –

- Nemmeno io. –

- Zenon. –

- Mh? –

- La nostra vita... -

- … -

- ...è ormai parte di quella persona. –

- ... -

- E oramai mi sento di dire che è solo perché è lui, e non qualcun altro. La nostra vita appartiene ormai all’anima colma di solitudine e malinconia infinita di quella persona. –

- Amen. –

- Sì, amen. –

- Moriremo? –

- Perché? –

- Perché no? –

- Zenon. –

- Mh? –

- Siamo dèi. –

- ...bella forza... -

Ghignò Zenon.

- ...hai ragione anche tu. –

Sorrise Shien.

 

END.

  
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