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Autore: Roberto_Yoda    31/05/2010    2 recensioni
Un ultimo addio tra vittima e carnefice. Nei capitoli successivi a quelli della vicenda di Hitomiko, Naraku riceve una visita da un fantasma del passato, rivive eventi da tempo trascorsi ...
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kikyo, Naraku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

Kikyou cammina con la testa abbassata, in silenzio e senza guardare niente in particolare. Tutte le volte che si accorge di voler sputare per alleviare il saporaccio che ha in bocca, si trattiene e, invece, deglutisce. Non vuole lasciarsi vedere da Nobunaga mentre sputa.

Non ha bisogno di cantare per usare il suo potere: potrebbe farlo, ma la gola inaridita le toglie la voglia di provarci. I pochi youkai che cercano di attaccarli finiscono spazzati via dalle sue frecce.

Ha freddo, le pulsa la testa e c’è una parte di lei che vorrebbe rannicchiarsi per terra e mettersi a dormire. Come può venirle voglia di dormire in una situazione simile?

 

Quasi non si accorge che sono entrati in una nuova radura. Si irrigidisce e solleva il capo di scatto, ancora fresco il ricordo di quel che ha dovuto sopportare neppure un’ora prima. Mette a fuoco lo sguardo, e la bocca le si schiude in una perfetta O di sorpresa.

 

A differenza del resto del bosco, in questa radura cresce un’erba folta e corta, tagliata con cura. Pietre bianche e lisce ne delimitano il confine e disegnano al suo interno linee e curve. Un sozu alimentato da una piccola fonte fa udire il suo tonfo monotono su una roccia. A Kikyou sembra che, per qualche misterioso prodigio, un frammento del giardino di sensei Nobunaga sia stato trasportato in mezzo alla foresta.

Al centro esatto dello spiazzo leva orgogliosa il capo un’unica peonia sbocciata.

Il fiore pare a Kikyou splendido da non sembrare vero, coi suoi innumerevoli petali violetti a dargli la forma di una piramide, traslucido come una statua di giada. Spicca come una goccia di sangue su un manto verde.

Kikyou ride e batte le mani contenta, incapace di trattenersi a quella vista stupefacente.

 

“Sensei! Siete stato voi! Ma come avete fatto!? E quando?”

 

Sorridente, scruta il viso di Nobunaga, ma l’aria grave di lui raffredda il suo entusiasmo.

 

“Sono stato qua diverse volte. E’ stato un lavoro lungo e difficile, preparare il teatro per l’ultima prova. E sì, Kikyou, avevi ragione. E’ per te. E’ sempre stato per te.”

 

Kikyou drizza le spalle. Nobunaga la invita a seguirlo con un cenno della mano e si avvicina al cuore del giardino, poi si inginocchia a pochi metri dalla peonia.

 

“Ricorda. Finché siamo nel bosco, la mia vita è nelle tue mani.”

 

Chiude gli occhi.

 

Sgocciolano i minuti, lenti come olio. Un’aura di grande potere si addensa. Non può impedirsi di fare una passo indietro, quando una donna alta e bellissima si materializza, apparendo silenziosa da uno squarcio nell’aria. Altera quanto una regina, non la degna di uno sguardo. Il viso squisito e impassibile si ammorbidisce quando posa gli occhi sull’uomo inginocchiato davanti a lei.

 

“Mio amato.” Dice.

 

 

 

Lei si ricorda di tutta la sua vita.

Ricorda quando, assieme alle sue sorelle, l’uomo l’aveva messa nella sacchetta. Erano tutte una addosso all’altra, e ridevano e sussurravano i loro ruvidi sussurri soffregandosi pelle a pelle. Il viaggio era stato breve e poi la mano gigantesca dell’uomo le aveva sepolte, sole, nella terra umida. Del buio non ha mai avuto paura. Il buio e la terra sono accoglienti, l’hanno sempre cullata con braccia morbide. Non ha mai capito perché gli esseri umani ne hanno paura, e in fondo non le è mai importato capirlo. Era passato del tempo, e aveva imparato a riconoscere il passo dell’uomo. La venuta dell’uomo spesso coincideva con la dolce acqua. A volte la terra che la teneva sepolta veniva rimestata, quando arrivava l’uomo col suo passo rumoroso, e poteva capitare che la luce la toccasse qualche istante. Neanche l’uomo l’aveva mai spaventata. L’uomo si prendeva cura di lei, le parlava e a volte cantava, e nella sua voce c’era una dolcezza che le faceva venire voglia di uscire dalla morbida terra. Quando l’uomo parlava, ma non a lei, non c’era mai quella dolcezza nella sua voce.

Lei non sapeva come uscire dalla terra, però. Finché (era passato altro tempo), un dolore strano l’aveva afferrata in una morsa, continuo e più forte. Ma c’era la voce dell’uomo, così lei non aveva avuto paura, neppure quella volta, neppure quando la sua pelle si era crepata fino a rompersi. Neppure quando il dolore l’aveva spezzata e aveva creduto d’esser morta, aveva avuto paura. C’era l’uomo là fuori da qualche parte che la aspettava.

Aveva imparato con stupore la forma del suo nuovo corpo. I suoi piedi, piccolini ma intrepidi, avevano assaggiato la terra che le dava la vita. Aveva levato la testa, spingendo un pochino per volta, cocciuta; avrebbe sempre amato la terra che l’aveva protetta, ma adesso voleva conoscere la luce solo poche volte intravista. E anche l’uomo che parlava e cantava e portava, assieme al suo passo rumoroso, l’acqua che la dissetava.

Era stata svelta. Era stata forte. E vedere la luce era stato bello come aveva immaginato. Aveva teso verdi dita minute verso la faccia gialla e aveva riso di gioia perché era bello essere viva ed essere giovane e stare sotto la burbera faccia gialla.

Quando poi l’uomo era venuto le aveva sorriso e le aveva detto che era stata brava e che era fiero di lei e l’aveva accarezza con la punta di un dito e la sua carezza era stata così lieve e così tenera che si era scossa tutta. Qualunque cosa! Qualunque cosa avrebbe fatto e dato, per ricevere altre carezze e altre lodi.

Era passato altro tempo, stagioni fredde nelle quali si addormentava e tornava all’abbraccio materno della morbida terra, e stagioni calde nella quali era sveglia e vispa, e l’uomo veniva sempre, e lei cresceva e diventava robusta e alta. Aveva steso le braccia come una donna che si sveglia, tante braccia che crescevano in numero e lunghezza, e aveva imparato a spalancare i palmi verdi alla burbera faccia gialla che amava quanto la morbida terra, persino quando la baciava tutto il giorno, nella stagione in cui stava a lungo in cielo, e alla fine della giornata le sue braccia erano stanche e piegate. Ma sapeva che i baci della burbera faccia gialla erano i soli baci che conosceva e che faccia gialla non sapeva amare in nessun altro modo. Eppoi c’era l’uomo che le portava acqua e parole gentili, canzoni e carezze leggere, alla fine di quelle giornate, e lei si sentiva scoppiare, di vita e di qualcos’altro.

C’erano le sue sorelle vicino a lei. Non tutte, perché alcune non erano state capaci di uscire dal letto della morbida terra, e si erano assopite poco a poco finché le loro voci non erano sparite del tutto in un sonno senza più risveglio.

Le sorelle che non si erano addormentate per sempre le facevano compagnia, e a volte fra loro ciarlavano; specie quando il vento giocava a rincorrersi da sé solo tra le loro braccia e di tanto in tanto rifilava loro uno spintone che le faceva gridare di eccitazione e spavento.

Ma le sue sorelle parlavano fra di loro più che con lei, perché lei era la preferita dell’uomo. Tutte lo sapevano ed erano gelose. Lei era stata la prima a uscire dalla terra, lei era più alta di loro, più forte di loro, e a lei l’uomo dedicava più attenzione e più affetto che a tutte loro.

Era passato altro tempo ancora: sette volte le quattro stagioni, e lei aveva capito che qualcosa di nuovo le stava capitando. Sulla sua testa la cosa nuova e misteriosa si stava ingrossando e appesantendo. Lei non se ne era preoccupata, era forte abbastanza da sopportare molte volte quel peso. Anzi, era euforica e agitata perché sapeva che la cosa nuova e misteriosa era il compimento, la ragione ultima della sua stessa vita; e le nuove e più amorevoli cure dell’uomo avevano alimentato la sua certezza.

La prima volta nella sua vita in cui aveva conosciuto la paura era stato il giorno in cui l’uomo aveva scavato la morbida terra attorno a lei e aveva messo in una sacca la terra assieme ai suoi piedi, che nel passare delle stagioni si erano fatti robusti e lunghi, e l’aveva portata via dalle sue sorelle e dal posto verde che era stato il suo mondo. Non capiva perché l’uomo aveva voluto portarla via dalla sua casa e aveva combattuto la paura con la fiducia che nutriva per l’uomo che l’aveva accudita da sempre.

L’uomo era entrato in un bosco buio e pieno solo di alberi. Gli alberi non erano cattivi, non proprio, ma erano forti e vecchi e mal sopportavano qualsiasi presenza salvo la loro. Tenevano fuori persino burbera faccia gialla, accontentandosi di lasciargli scaldare solo le loro più alte fronde. La sua paura sarebbe diventata terrore, se l’uomo non avesse cominciato a cantare (senza aprire la bocca, però) costringendo gli alberi e le altre cose nel buio a lasciarli passare.

Erano arrivati in uno spiazzo che assomigliava al posto verde che era stato il suo mondo. Un anello di pietre lo circondava, e nel disegno di quelle pietre c’era l’impronta dell’uomo, così come nella terra dove lei affondava i piedi c’era la sua impronta. Il buio del bosco non poteva oltrepassare le pietre e burbera faccia gialla l’aveva baciata non appena erano entrati nello spiazzo. Lei aveva subito alzato la testa che non si era accorta di aver chinato. Non era mai stata tanto contenta dei baci della burbera faccia gialla.

L’uomo l’aveva liberata dalla sacca, e aveva messo i suoi piedi e la terra in un buco al centro dello spiazzo. Per tutto il resto del giorno si era preso cura di lei, aveva posto vicino ai suoi piedi altra terra, ricca e scura, le aveva dato da bere, l’aveva accarezzata, le aveva detto di essere coraggiosa, le aveva detto che era bella, e lei si era scordata la paura, gioendo di tutte le sue attenzioni.

Quando se n’era andato, non aveva sofferto la solitudine, anche se non c’era nessuna delle sue sorelle. C’erano altre cose. C’erano cose che non aveva mai conosciuto, cose di cui lei non sapeva il nome e che erano capaci di parlare con lei e di ascoltarla. Le cose le parlavano e parlandole le insegnavano. I nomi, per esempio. Che tutto aveva un nome. Burbera faccia gialla si chiamava sole (ma per lei sarebbe stata sempre burbera faccia gialla). Gli alberi erano salici. Il posto verde in cui era cresciuta, e pure quello dove l’uomo l’aveva portata, si chiamava giardino. E, no, non sapevano come si chiamasse l’uomo. E lei? Lei non aveva un nome? Le cose avevano riso e le avevano detto che sì, certo che aveva un nome!

Lei si chiamava weize, che significa ‘regina dei fiori’, ed era una peonia.

Una volta abituatasi alla sua nuova casa, Weize era stata molto felice del cambiamento, perché dove stava ora poteva imparare tantissime cose che altrimenti non avrebbe mai saputo. E poi c’era la cosa nuova e misteriosa (a volte se n’era quasi dimenticata, persa nel turbine di cambiamenti che aveva catturato la sua vita) che cresceva e … e cosa?

Le voci del bosco avevano chiamato la cosa nuova e misteriosa ‘gemma’ e Weize aveva pensato che non potesse esserci un nome più giusto, e le avevano detto che presto sarebbe sbocciata.

Così era stato. Dopo una notte insonne di travaglio e fatica e gioia era fiorita. Voleva fiorire e nient’altro: tutta la sua vita precedente era stata la preparazione di quell’unico evento. E voleva fiorire in quella mattina perché sapeva che l’uomo sarebbe venuto e voleva ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei nell’unico modo che conosceva.

Aveva udito il suo passo familiare. Aveva steso i suoi mille petali viola e non aveva avuto alcun timore nella perfetta certezza della sua bellezza.

E l’uomo era arrivato e quando l’aveva vista erano stati perduti entrambi. Si era inginocchiato, le aveva sorriso, aveva cantato e il suo canto era poesia e la sua poesia non era da meno della bellezza di lei e lei sapeva cos’era quel che rendeva bello il suo canto.

Era stato come sbocciare di nuovo. C’erano occhi da aprire per vederlo come non aveva mai fatto. Poteva guardarlo dall’alto perché gli occhi si aprivano in un viso, e sotto il viso un corpo simile a quello dell’uomo eppure dissimile: candido e tiepido; occhi verdi, capelli di fuoco e bocca rossa; membra sottili, dolcezza nei fianchi e morbidezza del seno. Avrebbe avuto tempo, dopo, di prendere confidenza col suo nuovo corpo: e non era certo quella la prima volta che le succedeva qualcosa del genere. La sua felicità era per una cosa soltanto: avere una bocca per poter parlare, e, dopo tutti quegli anni, chiederglielo.

“Qual è il vostro nome, mio amato?”

L’uomo era restato in ginocchio.

“Mi chiamo Nobunaga. E tu conosci il tuo nome, Kashin?”

Aveva sorriso.

“Io so di chiamarmi Weize e so che vi amo, Nobunaga. E voi mi amate, mio amato?”

L’uomo aveva chinato la testa come per una sconfitta.

“Ti amo, mia amata.”

E Weize gli aveva carezzato il volto rugoso e gliel’aveva sollevato, poi l’aveva fatto alzare, gli aveva preso le rugose mani, che da sempre conosceva, le aveva guidate su di sé e gli aveva chiuso la bocca con la sua bocca nuova.

 

Ognuno dei suoi giorni era ricco come un anno della sua vita precedente. Aveva imparato cos’era e cos’erano le cose che le avevano parlato prima della sua ultima fioritura. Youkai. E lei era una regina. Regina tra i fiori e regina tra gli youkai, superiore in bellezza e superiore in potere, poiché quel che le aveva dato vita era quanto di più forte, esclusivo e spaventoso youkai e umani potessero conoscere e condividere.

Fin nei più remoti angoli del bosco poteva spingere il suo sguardo, e dai più remoti angoli del bosco venivano per renderle omaggio, prostrarsi ai suoi piedi e baciare la terra nella quale affondava le radici – sì, conosceva ora tutti i nomi e tutta la propria vita, fin da quando era stata un seme.

E il suo amato Nobunaga andava tutti i giorni da lei e le cantava poemi ispirati dal suo amore, e lei ascoltava e imparava e gli parlava dei segreti degli youkai. Poi venivano altri segreti da conoscere assieme, ed estasi che le ricordava un po’ – ma molto più grande e forte – i baci della burbera faccia gialla.

 

Sarebbe dovuto essere tutto perfetto e non capiva da dove veniva l’ansia crescente che non smetteva di tormentarla.

Proprio su questo si stava interrogando la mattina in cui aveva visto il suo amato entrare nel bosco accompagnato dalla ragazza pallida. Ne era stata sbalordita e non solo. Un pungolo bruciante, aveva sentito, e si era chiesta se era quello che provavano le sue sorelle quando Nobunaga dedicava a lei la maggior parte delle sue attenzioni.

Col cuore in gola, aveva assistito impotente gli youkai cercare di uccidere il suo amato, traendone furore e spavento: il suo potere era inutile, poiché confinato dal cerchio di pietre della radura. Non le era mai capitato di preoccuparsi dell’incolumità di Nobunaga, perché lui sapeva proteggersi facilmente da tutti i pericoli che abitavano il bosco dei salici. Ma quella mattina era diversa. Il suo amato non si difendeva, aveva messo la sua vita nelle mani della sciocca ragazzina pallida. Se gli fosse successo qualcosa, gli youkai e la ragazzina avrebbero assaggiato la violenza della sua vendetta: pietre o non pietre, avrebbe trovato il modo di raggiungerli e di farla pagare a tutti quanti.

Ma la ragazzina pallida sapeva combattere abbastanza bene, doveva dargliene atto. Weize aveva capito che il suo amato stava venendo da lei, seppur seguendo un percorso lungo e tortuoso. E perché si era fatto accompagnare dalla ragazza? L’ansia era cresciuta a dismisura dentro di lei. Poco prima che arrivassero si era nascosta, ma quando Nobunaga le si era avvicinato e si era inginocchiato non aveva potuto resistere.

In tutta la sua inumana bellezza gli era apparsa, perché la gioia di potergli solo rivolgere la parola le era avvinghiata dentro, come le sue radici erano avvinghiate al terreno.

E “Mio amato.” Aveva detto.

 

 

Lo sconcerto di Kikyou la lascia paralizzata e incapace di pensare. Lo spirito della peonia ha preso vita diventando Kashin. Non ha mai neppure immaginato che potesse esistere una tale bellezza. Deve imporsi di non inginocchiarsi vicino al suo sensei per la riverenza che le ispira. Poi il senso del saluto con il quale il Kashin si è rivolta a Nobunaga si fa strada nella sua mente. ‘Mio amato’? Un velo di sudore sulla schiena la fa rabbrividire. Negli occhi della youkai brucia un violento fuoco verde che le fa accapponare la pelle talmente è intenso.

“Perché non mi rispondete, mio amato? Che cos’avete? Siete forse arrabbiato con la vostra Weize?”

Nobunaga resta immobile, il respiro cadenzato, le palpebre abbassate.

Weize per un attimo pare perplessa, poi si rizza in tutta la sua statura, e le si rivolge con un tono tanto sprezzante quanto era tenero quello che ha usato per parlare a Nobunaga.

“Ho dimenticato l’educazione e me ne scuso.” Comincia, senza dare la benché minima impressione di scusarsi di alcunché. “Hai protetto il mio amato e devo ringraziarti per questo, ragazza pallida. Ora, dimmi. Sai per quale ragione mi sta ignorando? Il mio sguardo vi ha seguiti per tutto il tempo e sono certa che non sia stato ferito. Dunque, perché non mi parla? Ti prego di rispondermi.”

L’imperioso portamento e la regalità di Weize fa tremare le labbra di Kikyou alla ricerca di una risposta che non possiede.

Scrolla la testa e parla mossa da un’ispirazione improvvisa.

 

“Io ti conosco. Ti ho già vista. Nel giardino di sensei Nobunaga. Sì. Ho innaffiato le piante di peonia che lui seminò nell’anno in cui giunsi al tempio. Tutte. Ma non tu. Mi disse … lui mi disse di innaffiare … di innaffiare tutte voi. Tranne te.”

 

Lo sguardo di Weize sembra passarle attraverso.

 

“Non hai risposto alla mia domanda, ragazza pallida.”

 

“Mi chiamo Kikyou.”

 

Un sopracciglio alzato.

 

“Porti il nome di un fiore. Ubbidiscimi, dunque. Dei fiori, come di questo bosco, io sono la regina.”

 

Kikyou deve lottare contro lo sconcerto che non si lascia allontanare e anche tenere a bada la paura, perché il potere del Kashin è tangibile e indispettirla potrebbe rivelarsi pericoloso.

 

“Perché sensei Nobunaga ti ha portata qui? Quale ragione …?”

 

“Che importanza ha? Perché il mio amato mi sta ignorando? Rispondi!”

 

Occhi scuri incrociano occhi verdi. Kikyou si piega in una riverenza.

 

“Permettetemi di scoprirlo, mia regina.”

 

Il Kashin la scruta piena di sospetto, poi annuisce secca.

 

Kikyou leva il suo canto, lasciandolo rimbalzare tra Weize e Nobunaga, la voce incerta, l’orecchio teso, alla ricerca di quel che il suo sensei vuole farle capire.

Le pupille le si dilatano per il panico quando tocca le radici del Kashin. Radici affondate fin nel profondo nella tamashii del suo sensei.

 

“Sono stata portata qui per ucciderti, Kashin.”

 

 

 

Una voce di ragazza, tremante ma bella, carezza il suo orecchio e svanisce.

 

“Cosa?” Onigumo inclina il capo in ascolto.

 

 

 

Weize si mette a ridere di una risata colma di disprezzo.

 

“Mio piccolo fiore, è molto sciocco da parte tua covare simili pensieri e, soprattutto, condividerli con me a voce alta.”

 

Torce la mano affusolata che un attimo prima era posata lieve sulla sua bocca e Kikyou viene scaraventata a terra in un battito di ciglia.

 

“Provaci, ragazzina.”

 

Kikyou torna in piedi con una torsione. La sua avversaria ha un sorrisetto divertito e attende a braccia conserte.

 

“Non te ne sei accorta, Kashin?” dice, invece di attaccare. Ingaggiare battaglia col Kashin potrebbe esserle fatale.

 

“Di cosa mi sarei dovuta accorgere, piccolo fiore?” Divertita. Ma forse la luce verde dei suoi occhi ha tremolato?

 

“Lo stai consumando. Non dirmi che non ti sei resa conto che lo stai consu …”

 

Kikyou si ritrova sbattuta a terra sulla schiena, senza fiato, le costole le scricchiolano. La barriera sacra che ha provato a levare per proteggersi è finita sbriciolata in un istante.

 

“Non so di che parli, piccolo fiore.”

 

Kikyou solleva il collo, sbattendo le palpebre per scacciare i puntini luminosi che ballano nel suo sguardo. Si rialza in piedi, usando l’arco per fare leva. Sfila una freccia dalla faretra e la lascia partire con tutta la sua velocità e la sua letale perizia. La freccia si incendia di luce bianca, ma si blocca a mezz’aria per spezzarsi con uno schiocco secco.

 

“Ti ho vista combattere, piccolo fiore. Sì, sei abile. Ma non abbastanza, credimi.”

 

“Sensei Nobunaga ha affidato a me la sua vita fino al termine della mia prova. Non dirmi che non sapevi quello che …”

 

Weize le balza contro, buttandola a terra per la terza volta. Il volto bellissimo e contorto dalla furia è a pochi pollici dal suo, i polsi imprigionati in una morsa. Kikyou invoca tutto il suo potere e le basta appena per impedire al Kashin di fracassarle le braccia.

 

“E’ malia, mia regina. Non amore. E lo sta uccidendo.”

 

“Bugiarda!” ringhia. “Noi ci amiamo! Non me lo porterai via! Sarò io a uccidere te!”

 

Kikyou riprende il suo canto interrotto.

 

 

 

Non si è mosso. Nulla si è mosso. Aspetta, il respiro lento, i peli delle braccia ritti per la tensione. Non se l’è immaginato. Aspetta.

Poi sorride.

Il canto di ragazza è ricominciato.

 

 

 

Weize trattiene al suolo con violenza la ragazza pallida. Se non stesse usando il suo potere per proteggersi, l’avrebbe già uccisa. Ma non importa. E’ una questione di tempo. Non sarà in grado di resistere ancora per molto e neppure lotta per sfuggirle.

Il piccolo fiore non potrà sopravvivere a lungo; e questo perché, come tutti i fiori …

Weize si irrigidisce, il pensiero spontaneo nato nella sua mente la trafigge come se fosse la punta della freccia che ha spezzato poco fa.

Il piccolo fiore, ragazza pallida, Kikyou, torce la bocca nella smorfia di un sorriso, parlandole attraverso il suo canto.

“Lo hai capito, vedo, Kashin. Lo sai, no? Quanto vive un fiore, intendo.”

Weize si ritrae con un urlo di angoscia, cadendo sui gomiti e pedalando coi talloni per allontanarsi da Kikyou.

“No! Ragazza malvagia! No, no! Malvagia e bugiarda!”

Gli occhi scuri e gelidi della ragazza la imprigionano.

 

“Lo hai sempre saputo, Kashin. Lo hai sempre saputo, ma hai preferito ignorarlo. Lo chiami amore?” La ragazza malvagia ride con un disprezzo non dissimile a quello che lei le ha riservato poco prima. “Se fosse amore ti saresti fermata.”

 

Weize si ricompone, chiudendosi al dolore per non mostrarlo alla ragazza malvagia che la vuole uccidere.

Non tremerà e non avrà paura. Non ha mai avuto paura con il suo amato accanto e se dovrà morire oggi non lo farà tradendo quello che è sempre stata.

Si rizza in piedi, gettandosi i capelli all’indietro.

“Ti sbagli, Kikyou. Puoi crederlo se vuoi, ma sbagli. L’amore non è fatto per lasciare andare chi si ama.”

 

La ragazza malvagia si rialza anch’essa.

“Dagli il nome che preferisci, Kashin, ma lo stai uccidendo. Quel che c’è fra voi non è permesso, né tra la mia gente, né tra la vostra. Tu lo sai il perché. Per quanto lui sia forte, il suo bisogno lo sta distruggendo. Per quanto tu sia forte, il tempo della fioritura è già finito. Con tutto il tuo potere, non potrai tenere a bada la morte ancora per molto.”

 

Weize trema, ferita dalle parole gelide della ragazza.

 

“Sei crudele. Io l’ho amato da sempre. Non posso fare altro, perché quello che sono non si può cambiare. Cosa faresti tu al mio posto, piccolo fiore?”

 

Kikyou non le risponde, immobile.

 

Weize alza la faccia verso la burbera faccia gialla e sorride. No, non c’è ragione di avere paura davanti a questa ragazza.

 

“Hai ragione, piccolo fiore.” Annuisce, come se Kikyou le avesse risposto, il volto baciato di continuo dalla burbera faccia gialla. “Io sono quella che sono e non posso essere diversa, proprio come te.”

Incrocia di nuovo i suoi occhi in quelli scuri della ragazza.

“Io sono stata fatta per amare, anche se tu credi che non ne sia capace. E tu, che invece sei umana, sei stata fatta per il vuoto. Perciò, anche se oggi tu mi ucciderai, io piangerò per te, piccolo fiore.”

 

La ragazza non riesce a nasconderle il suo stupore. Weize sorride mesta e si inginocchia vicina al suo amato, accarezzandogli il braccio.

“Davvero il mio amore vi sta uccidendo, mio amato? Mi dispiace. Perdonatemi! Non è mai stata mia intenzione farvi del male. Se devo morire per voi, morirò. Sarò coraggiosa. Voi mi avete sempre detto quanto io sia …” La gola stretta, non riesce a andare oltre. Stringe il braccio che sta accarezzando, si avvicina alla bocca del suo amore per baciarlo un’ultima volta. “Non potete dirmi addio, almeno, mio amato? Non vi chiederò niente di più. Solo quest’unica cosa.”

Freme, piena della speranza di sentire la sua voce. Sfiora le sue labbra con le labbra.

Nulla.

 

Si alza un’ultima volta, le spalle dritte di fierezza, e annuisce.

 

“Ho capito.”

“Fai quel che devi, piccolo fiore.”

 

 

 

Cammina a passo svelto nella direzione del canto. Vuole sbrigarsi, vuole trovare la proprietaria di quella voce prima che si azzittisca. Vuole vedere. Vuole ascoltare.

Vuole.

 

 

 

Ora che il Kashin le ha dato il permesso e se ne sta diritta di fronte a lei, vicina al suo sensei inginocchiato, e la fissa con occhi verdi e lucidi, Kikyou esita. E’ così bella e così … così …

Scrolla la testa. No: è solo la malia del Kashin, nient’altro. Deve stare attenta a non farsene irretire come ha fatto Nobunaga. Ma adesso, come farà?

 

Il Kashin le sorride per la prima volta da quando si sono incontrate e il suo sorriso ha il potere di trasformarle il viso in qualcosa di ancora più bello, luminoso e impavido.

 

“Non sai come fare, piccolo fiore? Se mi uccidi ucciderai anche lui, giusto?”

 

Kikyou annuisce, troppo sorpresa per rispondere.

 

“Il mio amore ha fatto radici dentro il mio amato. C’è solo una cosa da fare, dunque. E se lui ti ha portata qui, vuol dire che è convinto che tu ne sia capace.”

 

Kikyou si piega per la seconda volta in una deferente riverenza: ma questa volta non c’è inganno nel suo gesto.

 

“Siete davvero coraggiosa, mia regina. Ora capisco perché sensei Nobunaga vi ama.”

 

Kikyou si abbandona alla musica, lasciandosene catturare, e intreccia il suo canto con la danza.

Miko-mai.

 

 

 

C’è una radura e quando Onigumo scosta i rami di un salice la scena che gli si presenta non ha alcun senso, e lui si chiede se per caso non è impazzito come l’ubriacone gli ha detto che sono impazziti i pochi sopravvissuti usciti dal bosco.

Cosa ci fa qua un giardino? Un giardino piccolo, ma completo in ogni suo aspetto, compreso uno di quegli odiosi sozu che con il loro tonfo continuo gli han sempre allegato i denti.

E poi c’è  un vecchio prete con il naso schiacciato che se ne sta in ginocchio a occhi chiusi.

E c’è, e questo è interessante, una ragazzina dai folti capelli neri, vestita di bianco, che gli gira la schiena. E’ lei la cantante la cui voce l’ha attirato sin qua. Ulteriore stranezza, sembra che la ragazza stia parlando mentre canta (e come ci riesce?), rivolgendosi a un invisibile interlocutore. Onigumo strizza gli occhi in due fessure: no, non c’è nessun altro. Che succede?

Ma la silenziosa domanda viene subito dimentica, perché in quel momento la ragazzina solleva un braccio al cielo e, piegandosi nella movenza più aggraziata che Onigumo ricordi di aver mai visto in vita sua, comincia a danzare.

 

 

 

E’ come se le radici del Kashin fossero abbarbicate alla musica del Fato. La voce di Kikyou e i suoi passi disegnano un intrico nella terra in cui Weize è piantata, risalendo fino a toccare la tamashii di Nobunaga. Il tumulto combinato delle passioni del suo sensei e del Kashin la colpiscono con tale violenza da farla urlare e perdere l’equilibrio. Si sente un pescatore che affronta la più violenta tempesta su una fragile barchetta.

 

 

 

La ragazza fa qualche passo di danza, ma cade a terra con un grido. Scuote la testa e sembra che rialzarsi in piedi le costi fatica. Apre e chiude le mani a pugno.

Poi leva di nuovo il canto e lo splendore della sua danza gli strappa un rantolo rauco dalla gola.

 

 

 

Kikyou afferra la prima radice del Kashin, sciogliendone il viluppo attorcigliato attorno all’anima del suo sensei. Dolore come lame le si conficca nei polpacci, più intenso a ognuno dei suoi passi di danza.

 

 

 

La ragazza sta ballando intorno al vecchio inginocchiato, ma Onigumo ha occhi solo per lei. Non ha mai veduto niente di altrettanto meraviglioso. Se solo riuscisse a guardarla in viso. Se solo …

Appena sotto al canto, il sommesso brusio si fa risentire.

 

 

 

Per ciascuna delle radici che riesce a strappare, il dolore si fa più straziante, tormentandole il cuore come non avrebbe mai creduto. Lacrime le scorrono lungo le guance e tutta la forza del suo addestramento è ridotta a niente. Sposta lo sguardo da Nobunaga a Weize. Molti dei petali della peonia si sono arricciati, perdendo il loro vigoroso violetto per diventare di uno spento color marrone.

Ma il Kashin non sembra spaventata. La sua bellezza è intatta e quando si accorge che la sta fissando, le sorride per incoraggiarla.

Kikyou avverte qualcosa rivoltarsi dentro di sé. Scuote la testa, pur senza smettere di ballare e cantare.

“No, non ci riesco, non posso. Non credevo che ...”

Il Kashin le muove incontro e solo allora Kikyou si accorge che numerosi squarci si aprono sulle sue caviglie e sui piedi. Lascia dietro di sé impronte sanguinolente sull’erba mentre le si avvicina per sorreggerla, prendendole un gomito.

“Stai facendo bene, piccolo fiore. Non fermarti adesso.”

E poi Weize le mozza il fiato per l’incredulità quando, con voce soave e sicura, affianca al suo canto uno dei canti di potere di sensei Nobunaga.

 

 

 

La ragazza incespica, ma ritrova l’equilibrio in qualche modo. Però ha rallentato i suoi movimenti. Se dovesse girarsi verso l’albero dietro il quale è nascosto, se i suoi capelli si scostassero al momento giusto, allora forse potrebbe …

Il brusio nelle sue orecchie aumenta di qualche ottava. Onigumo irrigidisce di scatto le spalle, le narici dilatate come un animale, il suo sopraffino istinto di sopravvivenza all’erta come non mai. Dimentica la ragazza per una manciata di secondi, dardeggiando l’oscurità alle sue spalle. Il gelo del bosco gli serra lo stomaco.

 

 

 

Sostenuta dal canto del Kashin, Kikyou sente nuovo vigore scorrere dentro sé e riesce a recidere le ultime radici.

Weize le sorride mentre il suo corpo impallidisce.

 

“Mi dispiace! Mia regina! Weize! Mi dispiace, oh mi dispiace tanto!”

 

 

 

Il suo nuovo corpo sta scomparendo e, anche se lei sa che non ce ne saranno altri, non è spaventata. Nei pochi giorni della sua fioritura ha conosciuto il compimento della sua vita. Cosa può chiedere di meglio, un fiore?

La sua voce si affievolisce, incapace di proseguire il canto d’amore che il suo amato cantò per lei la mattina in cui la vide sbocciata. Le guance del piccolo fiore sono solcate di lacrime, poiché si è presa carico del dolore di tutti loro. Le sorride. Vorrebbe dirle che non la odia, che le è grata per avere salvato il suo amato. Schiude la bocca, ma proprio in quel momento un gelo nuovo la ferisce. C’è qualcosa nascosto dietro a un salice. Qualcosa di morto e che, come tutte le cose morte, era fin’ora riuscito a sfuggire alla sua vista, ma che adesso sta prendendo vita.

L’immagine che si presenta alla sua mente è quella di un bruco: uno di quei grassi, bianchi bruchi ciechi, ottusi e sempre affamati, tutti zampe e denti, uno di quei mostri che Nobunaga teneva lontano dal giardino in cui ha trascorso la sua infanzia. Oh sì, certo, quei bruchi a volte diventavano delle bellissime farfalle. Ma non questo: ciò che è destino debba nascere da questo bruco è nero e informe, mostruoso oltre ogni immaginazione, ed è un pericolo. E c’è un fiore in particolare, che questo bruco vorrà divorare a qualsiasi costo.

Weize prova a sollevare il braccio, ma si accorge di essere caduta in ginocchio senza accorgersene. Kikyou sta ruotando su se stessa negli ultimi passi di danza, il canto sta raggiungendo l’apice.

 

“Attenta, piccolo fiore!” la sua voce è inudibile. “Nessun fiore è destinato a vivere a lungo. Stai attenta! Attenta all’Oni!”

 

 

 

La danza e il canto della ragazza sono di una tale, struggente bellezza, da lasciarlo paralizzato. Cos’è questo nodo nel fondo della gola? E adesso la ragazza sta per voltarsi proprio di fronte a lui. Vedrà il suo viso. Eppure il gelo è più fitto che mai, gli entra nelle ossa, il brusio nelle orecchie cresce e cresce, diventa un ronzio, gli trapana il cranio, quasi sembra che ci siano parole e lui non deve udirle, altrimenti …

La gola strozzata, Onigumo geme un rauco “No!” e si schiaccia le mani sulla faccia un momento prima che la ragazza si volti del tutto.

Guarda. Guarda la tua morta sposa, morto dentro. Guardala e datevi l’un l’altra l’unico amore che vi meritate.

 

Le mani schiacciate in faccia come un bambino, Onigumo divarica un po’ le dita.

 

 

 

Kikyou intravede soltanto il Kashin, tra le lacrime che le velano gli occhi, crollare in ginocchio, sorridente alla morte. Poco prima di svanire per sempre, ritornando alla terra che le ha dato la vita, la sua espressione cambia e muove le labbra come per dirle qualcosa.

 

Attenta, piccolo fiore. Nessun fiore è destinato a vivere a lungo.

 

Non capisce se aggiunge altro. Il corpo pieno di ferite si accascia e Kikyou assapora, indifesa, la sua morte.

 

 

 

Le sue dita si divaricano, contro la sua stessa volontà, il bisogno di sbirciare è irresistibile, vedere i lineamenti della ragazzina vestita di bianco, chissà chi è, chissà com’è fatta, chissà …

Con un ringhio, Onigumo si torce, scostando la testa come se avesse ricevuto un pugno, cade a quattro zampe e gattona, goffo, allontanandosi dal giardino e dalla ragazza che sta ballando.

 

Guarda, Onigumo. Guarda. Morto dentro, guarda.

 

“Ah-ah, no, non va bene, no non oggi, ci sarà già un’altra volta oggi no, no, no …”

 

Borbotta le sue smozzicate negazioni senza avvedersene e scappa quasi strisciando dal più grave pericolo che abbia mai conosciuto.

 

 

 

Nobunaga solleva le palpebre e si poggia il palmo sul petto, dove pulsa un vuoto doloroso e desolante.

Kikyou è inginocchiata e sta piangendo in silenzio accanto alla peonia annerita e morta fino alle radici. Nelle mani a coppa regge la corolla, tutta grigia e marrone e consumata. La culla piano e lui la sente mormorare tra le lacrime.

Si avvicina e coglie qualche parola tra i singhiozzi.

“Mia regina perdonatemi, mi spiace, non volevo! Oh, guardate cosa vi ho fatto, io …”

Le posa la mano sulla spalla, ma Kikyou se la scrolla via con un grido, travolgendolo con un’occhiata piena di rabbia.

“Non mi toccare!”

E poi si rannicchia come se dovesse proteggere il fiore morto che tiene tra le mani.

Nobunaga afferra la spalla sottile della ragazza con più decisione. Stavolta lei non si sottrae, limitandosi a piegarsi di più su se stessa.

“Kikyou.” Mormora, si china su di lei, le scosta i capelli e le asciuga le lacrime dalle guance con il pollice.

Weize è la sola che saprebbe riconoscere tutta la dolcezza del suo gesto.

“Kikyou.” Insiste. “In piedi. Avanti. Alzati.”

Scrolla la testa, muta; poi posa la corolla avvizzita accanto allo stelo morto e annuisce.

 

 

 

Onigumo ha corso carponi, ignorando i palmi sbucciati, e malfermo sulle gambe ha ritrovato l’equilibrio, senza smettere di correre neppure per un attimo. Ha i capelli ritti, ansima e corre come se tutte le sue vittime lo stessero inseguendo: deve uscire da questo bosco prima che il vociare nelle sue orecchie diventi intelligibile. Altrimenti …

 

 

 

Lacrime asciugate, capo orgoglioso levato, sguardo perso a scrutare lontano.

 

“Hai superato tutte le prove alle quali ti ho sottoposto, miko Kikyou. Da questo momento in avanti tu sei una miko, la più giovane che abbia mai addestrato. Dimmi: conosci ora il nome dei tuoi più temibili nemici?”

 

“Sì, sensei Nobunaga.” Voce composta, fredda quanto lo sguardo.

 

“Sono forse gli youkai, miko Kikyou?”

 

“No, sensei.”

 

“Sono il dolore, la perdita, la paura?”

 

“No, sensei.”

 

 

 

Ci sono parole nelle sue orecchie: Onigumo si sforza di non ascoltare e corre, salta per schivare radici che vogliono fargli lo sgambetto, ignora rami che gli frustano la faccia ed ecco che forse c’è una luce là in fondo; in mezzo a quei tronchi finisce la tenebra stregata del bosco dei salici …

 

Non vuoi vedere? Non vuoi sapere? Sì che lo vuoi. Chiedici pure, non avere paura, chiedici il suo nome, noi che conosciamo il nome di tutte le cose e possiamo insegnarlo a chi ci compiace. Devi solo chiedere: chiedi il suo nome.

 

 

 

“Dimmi i loro nomi, dunque.”

 

“I nomi dei miei nemici più temibili, sensei, sono amore …”

 

 

 

“No, oggi no no non oggi …”

 

Ma c’è una parte di lui che vuole chiedere, che vuol sapere, ed è così strano! Lui, per cui i nomi non hanno mai significato niente.

 

Il suo nome, Onigumo. Il suo nome è …

K …

 

 

 

“ … e desiderio. Perché non c’è barriera che li possa fermare, addestramento per tenerli lontani, disciplina che li possa governare, equilibrio che non possano frantumare, e nella breccia lasciata dalla devastazione del loro passaggio, qualunque cosa può entrare: cupidigia, gelosia, pena, tristezza, paura, speranza, abbandono, gioia, bisogno e tutte le altre cose di cui gli youkai si sfamano. E a me non sarà concesso di conoscere …”

 

Lo sguardo di Kikyou è angosciato ma fermo.

 

“… nessuna di queste cose.”

 

 

 

Urla a squarciagola per nascondere al suo orecchio le voci invisibili e con un ultimo salto delle gambe robuste si slancia attraverso i due salici. La luce improvvisa lo acceca e non c’è più terra sotto i piedi, perché un declivio improvviso e imprevisto segna la fine del maledetto bosco. Onigumo cade urlando e mentre cade il suo urlo si trasforma in risata. Sbatte la testa e vede le stelle e ride, rotola su se stesso, incapace di frenare la sua caduta e ride, sa che potrebbe spezzarsi il collo e ride, mentre si rovescia di nuovo su se stesso, le gambe per aria e le braccia davanti alla faccia e ride, e di nuovo ricade, la caviglia sbatte contro qualcosa di duro, un sasso, la cucitura del suo stivale cede del tutto e gli vola via e ride, tira indietro la lingua appena in tempo, prima che l’ennesima botta gli faccia serrare i denti come una morsa col rischio magari di mozzargliene via un pezzetto e oh! l’idea è troppo esilarante per non farlo ridere e ridere!

Sbatte sul fondo del breve pendio, ricadendo seduto a gambe larghe, illeso, le ossa scosse da capo a piedi: la violenza della caduta tutta scaricata sui testicoli gli mozza la risata in gola.

Sbianca, a un passo dallo svenire, il dolore è una palla di piombo nel ventre, la bocca aperta e i tendini del collo tirati in un urlo silenzioso, la mano sullo scroto e si accascia piangente, sbuffa per riprendere fiato, ritrovandosi quasi a masticare l’erba, oh dolore! Ma, solo pochi minuti, e tra gli sbuffi si infila suo malgrado un cigolio sottile. Un po’ alla volta, Onigumo si rimette a ridere.

 

 

 

Percorrono una strada più breve per riguadagnare l’uscita del bosco e lo fanno in silenzio, immersi ciascuno nei propri pensieri.

Fuori alla luce, a raggiungere lo spiazzo dal quale si sono incamminati la mattina, oltrepassato uno dopo l’altro i tre torii, i rossi cancelli di accesso al santuario shinto, a entrare nel recinto di pannelli di legno che chiude il perimetro della radura sacra, accostandosi alla fonte: Nobunaga per primo e poi lei.

Kikyou si lava le mani, prima la sinistra, poi la destra, poi assieme, sfregandosele con forza fino ad arrossarle; si china, trattenendo i capelli perché non le ricadano in faccia, e procede all’abluzione rituale: l’acqua le ripulisce la bocca degli ultimi rimasugli dell’orribile sapore del vomito.

Entrambi purificati, raggiungono la campana del tempio. Nobunaga la invita con un cenno: Kikyou afferra la corda ricavando un rintocco sonoro, china il capo due volte e batte le mani; di nuovo suona la campana e si prepara ad allontanarsi, ma si trattiene, sapendo che manca ancora qualcosa. Fruga all’interno della manica, prendendo la ciocca di capelli che aveva deciso di conservare – le sembra sia passata una vita e non poche ore! – e la posa accanto alla scatola delle offerte. Ripreso il cammino, sono infine in vista del tempio vero e proprio, il Jinja: Nobunaga si lascia alle spalle le statue in pietra dei koma-inu, i cani leone preposti a proteggerne l’entrata dagli spiriti maligni, e le fa strada nell’unica stanza immersa in penombra.

Kikyou resta attonita per un po’, scrutando con cura il proprio riflesso nello specchio sacro che riposa all’interno del tempio. L’immagine è diversa da stamane – lei è diversa. La gravità e il distacco nel suo volto e nello sguardo, la postura diritta e solitaria: sì, il suo addestramento è davvero completo. Reprime un brivido, lascia che gli insegnamenti appresi in tutti gli anni passati allontanino quel che prova

(struggimento?)

e allenta i nodi della sua bianca veste da apprendista.

 

 

 

Quattro i tentativi prima di riuscire ad alzarsi da terra. Per tre volte si è accasciato, l’inguine pulsante a spedirgli nella pancia e nelle vene sofferenza di ogni colore. E tutte le volte, senza preoccuparsi di peggiorare il suo tormento, si è messo a ridacchiare, piangendo ma ridendo; perdendo i sensi alcuni minuti e belando la sua risatina ancor prima di aver ripreso conoscenza.

 

I suoi passi sono una tortura, il sudore gli finisce negli occhi in grossi goccioloni, ma seguita a scoppiare a ridere e ride come non gli pare d’aver mai riso, neppure da bambino. Le sue sorelle e suo fratello: loro ridevano a quel modo, a volte, ma avevano imparato presto a nascondersi da lui quando lo facevano, perché avevano scoperto a loro spese che ridere così se lui era a portata d’orecchio scatenava una degli incontrollabili scoppi di rabbia che di tanto in tanto lo coglievano.

Eppure adesso che assaggia la stessa risata, non può fare a meno di pensare che sia piacevole.

Prosegue per più di due ore, il sole inclinato nel tardo pomeriggio, il martellio nell’inguine ormai sopportabile, e la sua allegria non si è spenta. Lo coglie alla sprovvista di tanto in tanto e quando succede Onigumo solleva la testa al cielo ridendo, le braccia ciondoloni nella sua andatura dinoccolata ma agile.

“Visto? Non sono quel che hai detto, vecchia pazza.”

E continua così, parlando da solo, sbuffando, imprecando quando un sassolino o un ramoscello gli pungono la pianta del piede indifesa, ma traendo divertimento persino da questi piccoli incidenti che, in un altro giorno, lo avrebbero fatto imbestialire.

Si sta avvicinando alla città di Ishimatsu: di questo passo la raggiungerà prima di sera! Ride anche di questo e girando la testa vede un solitario contadino con un cappello di paglia a tesa larga, attardatosi nei campi vicino alla strada che sta seguendo, fargli un saluto sorridendo alla sua immotivata allegria.

Onigumo gli risponde con un ampio gesto del braccio, ghignando e sventolando le dita in un gesto quasi lezioso. Il contadino si leva il cappello e fa un piccolo inchino. La mano destra di Onigumo scivola dietro la sua schiena.

 

 

 

Gli hakama sono rossi, mentre l’hitoe da miko è bianco ma di una fattura diversa da quello che indossava poc’anzi. Kikyou aggiusta le pieghe delle sue nuove vesti e si lascia scorrere tra le dita il liscio nastro bianco col quale tra poco si annoderà i capelli.

 

 

 

Senza smettere di agitare il braccio sinistro, Onigumo sfila dalla cintura il pugnale e lo lascia volare a piantarsi nel petto del contadino sconosciuto che piomba fra il grano fitto senza neppure un grido.

 

 

 

“Benvenuta a voi, miko Kikyou.”

 

Kikyou volta la schiena alla miko imprigionata nello specchio.

 

“Bentrovato a voi, houshi Nobunaga.”

 

 

 

La faccia del contadino ha conservato il sorriso col quale gli ha dato il benvenuto e forse non si è neppure accorto di essere morto. Ci sono di sicuro molti modi peggiori per crepare, già.

Il ghigno di Onigumo si dilata.

“Begli stivali.” Sibila, e ride.

 

 

 

Sono una volta di più nella radura dalla quale tutto è cominciato. Nobunaga guarda la giovane ragazza e deve serrare le palpebre perché davanti allo sguardo gli è danzata l’immagine fantasma di Weize.

Perciò, incapace di trattenersi, tradisce se stesso.

“Non andartene domani, Kikyou.”

 

Kikyou non aggrotta neppure la fronte.

 

“Sensei, da domani non sarò più una vostra allieva, quindi non ho ragione di restare. Come voi stesso avete predetto, lascerò le mie stanze e il tempio per non tornare.”

 

“Potresti rimanere comunque, come miko. Hai ancora molte cose da imparare: infiniti sono gli equilibri possibili e tante le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu sei troppo giovane per conoscere queste cose … e …”

 

Nobunaga abbassa la testa, umiliato, quando si accorge di stare balbettando, e il viso di Kikyou si illumina di un sorriso che la restituisce alla sua vera età.

 

“Non abbiate paura per me, sensei. Sarete orgoglioso della vostra allieva, vedrete.”

 

“Ma io già lo sono, Kikyou.”

 

Torna seria per aggiungere.

 

“Vi chiedo un ultimo favore: assegnatemi come miko al mio villaggio natio.”

 

“C’è già una miko nel tuo villaggio, Kikyou.”

 

“Non più. E’ morta di tifo più di un mese fa.”

 

“Capisco. Sarà come desideri, dunque. C’è altro?”

 

“In quanto miko, rivendico il diritto di scegliermi un’allieva a cui insegnare quel che so.”

 

Nobunaga annuisce in silenzio.

 

“L’anno passato mia madre mi scrisse che mia sorella Kaede stava dimostrando anch’ella un considerevole talento nelle arti delle miko. Designo lei a essere mia allieva e la addestrerò al nostro villaggio.”

 

“Se non sbaglio tua sorella ha compiuto da poco i sei anni, vero?”

 

Tocca a Kikyou annuire e Nobunaga continua con dolcezza.

 

“E’ stato poi tanto terribile crescere qua, Kikyou?”

 

La ragazza sgrana gli occhi, imbarazzata.

 

“E i tuoi genitori? Quando è stato?”

 

“Mia madre fra i primi.” Ribatte capendo subito il senso della domanda. “Mio padre mi ha scritto di averla seppellita lui stesso. Lui ha resistito più a lungo. Ventun giorni fa. Il messaggero è partito con la sua missiva subito dopo.”

 

“Mentre Kaede …”

 

“Lei non si è ammalata, grazie ai Kami.”

 

“Potreste restare entrambe …” riprova lui.

 

“Vi ringrazio, sensei, ma preferisco occuparmene io.”

 

“Come vuoi: ma stai attenta perché, vedi?, non sei ancora tornata a casa, ma tua sorella ti sta già insegnando ad amarla.”

 

Kikyou ha un’aria sorpresa.

 

“Insegnando? Sarà lei la mia allieva, sensei: io insegnerò a lei. Io a lei, non lei a me.”

 

Il silenzio attonito che segue la sua ultima dichiarazione viene rotto quando entrambi si mettono a ridere, spazzando via l’oppressione lasciata della giornata.

 

“Ho detto davvero una cosa del genere? Oh, sensei, sono più provata di quanto credessi!”

 

 

 

Il giorno successivo, salutata per l’ultima volta la sua allieva prediletta, Nobunaga sarebbe restato a badare al giardino fino a sera, contemplandone la bellezza perfetta eppure spoglia, tastandosi di tanto in tanto il petto per saggiare le cicatrici rimaste dentro di sé e leggendo il proprio destino nell’intreccio delle radici e dei fiori. Avrebbe sospirato passandosi la mano tremolante da vecchio sul viso e sapendo che avrebbe dovuto restituire alla terra la sua vita quello stesso inverno. Forse chissà, così avrebbe rincontrato il suo amore.

 

 

 

Masashiro è in ritardo, perciò cammina alla svelta. Il sole è quasi tramontato e lui deve rientrare in città prima che faccia buio, altrimenti quei bastardi lo terranno fuori dai cancelli fino all’indomani. Distratto da questo pensiero nella testa, la manata lo colpisce tra le scapole cogliendolo del tutto di sorpresa, buttandolo in avanti e mancando poco dal farlo cadere rovinosamente in terra. Il dolore e la sorpresa lo fanno gridare e gira su se stesso, la mano sull’elsa del coltello, pronto a ridisegnare in modo fantasioso i connotati dell’uomo che si è permesso di giocargli un tiro del genere.

Le dita contratte si rilassano non appena riconosce nella luce morente il suo misterioso aggressore. Deglutisce e qualsiasi problema potrebbe avere con le guardie alle porte di Ishimatsu finisce all’ultimo posto nella lista delle sue preoccupazioni.

 

“Proprio una giornata benedetta dalla fortuna, già. Dunque, cosa aspetti? Non si salutano gli amici?”

 

“Onigumo …” Masashiro annaspa alla ricerca di qualcosa di poco impegnativo da aggiungere: non può farci niente, Onigumo gli mette sempre addosso i brividi. E dannazione, ma è possibile che le loro strade dovessero incrociarsi in questo modo? “ … non ti aspettavo prima di un paio di giorni, almeno.”

 

Onigumo gli sorride, mettendo in mostra i suoi grossi denti. Ha un’aria strana: Masashiro non capisce cosa sia, però sa che gli fa più paura del solito.

 

“Ho preso una scorciatoia. Sì, davvero un giorno molto fortunato: incontrarci proprio qua ne è un degno coronamento. Chi l’avrebbe mai detto, eh?” e gli rifila un’altra pacca sulla spalla.

 

Onigumo non è mai così espansivo, euforico. E i suoi occhi, che di solito sono sempre cupi, spenti, da ricordargli pozze di sabbie mobili, gli brillano di una luce strana. La paura di Masashiro diventa terrore quando capisce che in questo momento Onigumo potrebbe ucciderlo senza ragione, per il solo gusto di festeggiare a modo suo la sua oscura allegria.

 

“I compagni di cui mi avevi parlato? Sono rimasti più indietro, lungo la strada?”

 

Onigumo esplode in una risata che è un grido, come avesse sentito la battuta più spassosa della sua vita. Le ginocchia di Masashiro tremano e sfiora senza volere l’elsa del coltello.

 

“Sì, l’hai detto! Erano un bagaglio inutile e li ho lasciati indietro lungo la strada, sìsì.”

“Ma cosa fai con quel coltello, eh?”

 

Fa un sorriso sciocco e apre le mani vuote. “Nulla. Piuttosto, vogliamo andare? Immagino che vorrai riposare in una bella locanda in città, vero? Avanti, ho già in mente un alloggio adatto. Ti piacerà!”

 

Onigumo scrolla la testa su e giù, invitandolo con la mano a procedere, e Masashiro si avvia, rilassandosi appena. L’ha scampata bella, ne è sicuro: c’è qualcosa addosso a Onigumo, stasera, come un’ombra, un riflesso, che trasforma i suoi intestini in acqua; ma se starà attento …

Ricordandosi uno dei passatempi preferiti di Onigumo, aggiunge.

“E ci sono delle ragazze davvero graziose, tra l’altro, pronte a farci compagnia per un prezzo ragionevole. Se il colpo che avevi in mente è andato bene come credo, non avrai difficoltà a comprarti una nottata piacevole. Immagino che dopo un viaggio faticoso un po’ di svago sia quello che …”

 

La grossa mano di Onigumo gli serra una spalla costringendolo a ruotare su se stesso. Con un gridolino di cui fa in tempo a vergognarsi, Masashiro chiude gli occhi, sicuro che sia arrivata la sua ora. Onigumo gli stringe l’altra spalla con la mano libera. Masashiro schiude le palpebre, trovandosi a scrutare lo sguardo smorto e cupo dell’altro. Ma non sono solo i pazzi a cambiare umore da un momento all’altro in questo modo? Sì: però Onigumo non gli ha mai dato l’impressione di essere pazzo. Quasi lo preferirebbe.

 

“Non ho mai pagato per possedere una donna.”

 

“Ce-certo, Onigumo, scusami non intendevo dire …”

 

Gli stringe le spalle con più forza.

 

“Né mai avrò bisogno di farlo.”

 

E poi Masashiro vede l’esatto momento in cui la vita sembra ritornare una volta ancora in quegli spenti occhi marrone, illuminandoglieli. Onigumo gira la testa a sinistra, come attratto da un richiamo.

 

“Forse.”

 

Gli lascia le spalle, gli aggancia un braccio al collo e lo trascina a grandi passi verso la città.

  
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