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Autore: aryamuse    03/06/2010    0 recensioni
In un momento come questo, la pazza cantava. Apparve nel mio campo visivo ad occhi chiusi, intenta a concentrarsi nella canzone. Faceva dondolare la testa a ritmo di musica a destra e sinistra e volteggiava come se stesse ballando con un cavaliere invisibile. Rimase così a lungo. La testa mi faceva male. Emisi un rantolo che catturò la sua attenzione. - E’ ora della festa? Rise fra sè, di un’ironia che coglieva solo lei...
Genere: Thriller, Horror, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Miss Brightside


Da quanto tempo stavo camminando? Non lo sapevo più. Ormai il mio cervello aveva inserito il pilota automatico: un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. Vagavo senza meta. I piedi non me li sentivo più e avevo freddo fino all’osso. Ad un tratto, vidi qualcosa di grande al di la della nebbia. Fiocchi di neve turbinavano intorno ad un grande masso di pietra… ogni mia speranza di salvezza svanì; ma, se non altro, il masso era un punto di riferimento. Mi trovavo a Campitello Matese, o meglio, ero partita da Campitello, per perdermi poi fra le valli nevose delle montagne che lo circondano. La mia doveva essere una semplice vacanza, ma finì per trasformarsi in un incubo. Dovevo solo ringraziare il Cielo di essere riuscita a scappare, anche se ora, frastornata e congelata, non avevo nessuna speranza di salvarmi.

Vedevo le mie mani diventare sempre più violastre e fitte atroci mi percorrevano le gambe. Ogni passo mi richiedeva uno sforzo titanico e più di una volta avevo inciampato fra i miei stessi passi, cadendo faccia in giù nella neve. Non avrei mai immaginato di morire in questo modo: di freddo fra montagne a me sconosciute, dove a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarmi.

Se lo avessi saputo, mi sarei vestita in modo diverso… ora, invece, tra un battito di denti e l’altro, maledivo me stessa di aver messo le mie scarpe preferite anche per venire fin qui. Le mie converse rosa. Ah!, che pessimo affare! Incedere sulla neve con le converse è saggio quanto attraversare un fiume con un paio di calzini di cotone. Arrivata a questo punto, ero quasi del tutto certa che i miei piedi si sarebbero staccati per il freddo dalle gambe, come foglie secche dai rami degli alberi. Dovevo fermarmi e al più presto. Ormai non era più necessario correre. Ero lontana abbastanza.

Raggiunsi la grande pietra e mi stupii che intorno fosse circondata da fili sottili di erba. La pietra era liscia e priva di neve. Quando misi piede sul terriccio e, per la prima volta non sentii la gamba sprofondare fino al ginocchio nella neve, un dolore acuto stordì i miei sensi e svenni. Ripresi conoscenza poco dopo, ricoperta da un sottile strato di fiocchi bianchi. Guardai i miei piedi, irrigiditi dal freddo in una posa innaturale e capii che ormai non sarei riuscita più a muovere un solo passo. Mi sarei accovacciata a riparo del sasso e avrei aspettato la fine.

In fin dei conti ero stata fortunata. A me non era toccata la sorte di mia cugina. Ripensandoci, cominciai a piangere e crollai ai piedi del sasso. Mi strinsi forte il petto con le braccia e ricordai…

Io e mia cugina Monica eravamo partite da Napoli lunedì mattina, con la speranza di trascorrere da sole una settimana delle vacanze di Natale. Monica era elettrizzata dal fatto che saremmo tornate nella nostra regione di origine e perché lì, nella terra dei nostri nonni, avrebbe imparato a sciare: era la sua nuova passione. Si trovava sempre a suo agio nel freddo, tanto che spesso mi costringeva ad accompagnarla a pattinare sul ghiaccio.

Dopo quasi tre ore di viaggio, arrivammo su a Campitello. Appena scese dalla macchina, non sapevamo di preciso quale fosse l’albergo che mia madre aveva prenotato per noi, così, di buon grado, ci avvicinammo ad un capannello di ragazzi, già equipaggiati per sciare, per chiedergli informazioni.

Monica dapprima si presentò, poi, iniziò a civettare con il più carino del gruppo. Alzai gli occhi al cielo… lei era fatta così. Nel frattempo, mi guardai intorno e, con stupore, mi accorsi che c’era qualcuno che ci guardava. Era una ragazza. Non la conoscevo, eppure la sconosciuta guardava me e mia cugina con uno sguardo intenso, tanto che mi stupì. La prima cosa che mi colpì di lei, oltre allo sguardo, fu che la ragazza aveva uno strano aspetto. La sua pelle era molto pallida, aveva occhi chiari, verdi forse, e capelli rossi lunghissimi. I capelli le turbinavano attorno al viso, ma lei non faceva nulla per scostarli: restava immobile a fissarci. Dopo quella che mi sembrò un’ora abbondante, Monica liberò i ragazzi della sua presenza e io le feci notare la ragazza. Nemmeno a lei parve di conoscerla, però, quell’insistenza nello sguardo irritò mia cugina a tal punto che, con aria spavalda e a viso scoperto, le si avvicinò, chiedendole cosa volesse.


La rossa la guardò con un sorriso strano…

- Tu sei Monica, vero? Ho sentito tanto parlare di te…

La sua voce era calma, con una nota quasi di gioia…

- E dove?, chiese Monica, stupita da quell’affermazione, dato che era la prima volta che venivamo in Molise ed era molto improbabile che qualcuno la conoscesse.

- Bella domanda, mormorò la sconosciuta quasi fra sé.

Una ruga le solcò la fronte, tra le due sopracciglia, e la squadrò dalla testa ai piedi, come se volesse imprimere nella sua memoria l’aspetto di mia cugina.

Io continuavo a non capire. Cos’è che voleva da noi? Perché sembrava conoscerci ed essere interessata a noi?

- Io mi chiamo Maria Brightside, mio padre era americano, aggiunse, quando io e Monica ci guardammo, colte di sorpresa dal suo nome.

Solo allora mi accorsi del suo strano accento nel parlare. Le dava un’aria molto raffinata, tuttavia, continuai a non fidarmi di lei. Sentivo dentro di me un cupo presentimento, potevo quasi essere certa che qualcosa di brutto stava per capitarci. Mi sbagliavo… “qualcosa di brutto” è un eufemismo in confronto a ciò che realmente ci capitò.

La rossa si passò una mano fra i capelli e ci sorrise.

- Okay, basta con gli enigmi. Monica, forse il mio nome ti sembra sconosciuto, ma sono sicura che ti ricordi di Niky182.

Nel dire questo indicò se stessa, dopo di che allargò le braccia con un sorriso, per abbracciare mia cugina.

Monica dapprima sembrò stupirsi, poi ricambiò con gioia l’abbraccio e mi spiegò che la sconosciuta era una sua amica di Messenger, conosciuta tramite amici comuni. Si buttarono allora in una calorosa conversazione, raccontandosi fatti ed eventi che ancora non avevano condiviso. Mi raccontarono che avevano stretto da subito un sincero affetto e, a loro, quasi sembrava di conoscersi da sempre. Bah…! Io non ci vedevo chiaro in questa storia.

Forse perché avevo sempre diffidato di internet e vedevo il computer come una sorta di mostro difficile da capire e da far funzionare. Ogni volta che lo sfioravo, combinavo casini, per, poi, essere presa in giro dai miei fratellini. Sì, senza dubbio, il computer non faceva per me.

Maria ci raccontò di aver letto nel blog di Monica la nostra intenzione di venire qua e lei, dato che non abitava molto distante, aveva avuto la geniale idea di farci un’improvvisata. Mmmh… Monica era raggiante; io non la sopportavo. C’era qualcosa di mellifluo nei suoi modi: sembravano studiati, per nulla sinceri e, per dirla tutta, detestavo l’eventualità che una perfetta sconosciuta mi rovinasse le vacanze.

Dopo poco, ci invitò in un bar lì vicino e ci offrì una cioccolata calda. Ci raccontò che lei, sin da piccola, era sempre venuta a sciare e le piaceva così tanto stare in montagna con la neve che aveva convinto la sua famiglia ad acquistare una casetta isolata a est di Campitello. Disse che era bellissima e che sarebbe stata felice, se noi fossimo andate a visitarla il giorno stesso. Monica subito acconsentì e Maria ci offrì un passaggio sulla sua auto. Io proposi di andare prima a sistemarci in albergo, così avremmo potuto cambiarci e indossare abiti più pesanti, ma Maria si oppose. Disse che non avrebbe mai e poi mai tollerato che due sue amiche dormissero in albergo, dal momento che lei era perfettamente in grado di ospitare entrambe. Così, eccitatissima, ci fece strada verso la sua auto.

Era una Mini rossa, equipaggiata con catene sui pneumatici. Salimmo a bordo dopo aver sistemato i bagagli e partimmo. Ci allontanammo dalle piste sciistiche e imboccammo uno stretto sentiero tra gli alberi. Dopo quello che mi sembrò un tempo interminabile, arrivammo davanti a una piccola baita di legno. Appena la ebbi vista, mi si parò dinanzi agli occhi un flashback di Biancaneve e I Sette Nani. La casetta di Maria, somigliava moltissimo a quella dei nanetti.


Monica scese entusiasta dall’auto e insieme entrammo. Maria si chiuse la porta alle spalle e la sua

espressione cambiò. Ora non sorrideva più. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio e, prima

che me ne rendessi conto, mi colpì violentemente la testa con qualcosa di duro.

Tutto divenne buio. Non so per quanto tempo rimasi incosciente, ma, quando mi svegliai, mi ritrovai legata e imbavagliata insieme a Monica ad un pilastro di legno della baita.

Una musica raggiunse le mie orecchie. Era una canzone che conoscevo, dei Killers: Mr Brightside! Come il suo cognome! O forse no? Sarà stata una bugia anche quella, come il fingersi nostra amica e, poi, trattarci in questo modo. Cosa voleva? I nostri soldi? Non capivo la logica di quanto ci era accaduto.

- I just can't look its killing me and taking control… Jealousy turning Saints into the sea, swimming through sick lullabye, choking on your alibi, but it's just the price I pay, destiny is calling me open up my eager eyes… I'm Mr Brightside!

Oddio! In un momento come questo, la pazza cantava. Apparve nel mio campo visivo ad occhi chiusi, intenta a concentrarsi nella canzone. Faceva dondolare la testa a ritmo di musica a destra e sinistra e volteggiava come se stesse ballando con un cavaliere invisibile. Rimase così a lungo.

La testa mi faceva male. Emisi un rantolo che catturò la sua attenzione.

- E’ ora della festa?

Rise fra sè, di un’ironia che coglieva solo lei e guardò Monica con guizzo luminoso negli occhi.

Si avvicinò a mia cugina e, con uno strattone, la trascinò, legata polsi e caviglie, al centro della stanza, proprio sotto la luce. Fu in quel momento che Monica scorse la causa di quanto ci stava accadendo.

- Ma, cosa ci fai con quella foto?, chiese alla nostra rapitrice.

Guardai nella sua stessa direzione e vidi la foto di un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi verdi. Lo riconobbi subito: era l’ex ragazzo di Monica. Lo conoscevo bene. Era un ragazzo silenzioso, ma molto simpatico: spesso ci prendevamo in giro a vicenda e, anche se ora non era più il fidanzato di mia cugina, ci sentivamo ancora per telefono o trascorrevamo una serata insieme ogni tanto.

- Vuoi sapere cosa ci faccio? Ebbene, sappi che io, due anni fa, ero follemente innamorata di lui. Aveva portato nella mia vita una gioia nuova. Ho sempre condotto una vita triste e vuota, ma lui mi aveva insegnato a trovare un senso a tutto ciò che mi capitava. Quando vi siete fidanzati, lui è cambiato. Gli hai avvelenato l’anima, illudendolo e, poi, abbandonandolo. Ora non si fida più di se stesso né degli altri. Nemmeno di me… Hai rovinato la sua vita e la mia, come potrei mai permetterti di continuare a respirare?

Ora, i suoi occhi erano rossi: le erano scoppiati i capillari per la rabbia.

Ad un tratto, le sue mani si avventarono sui capelli di Monica e cominciò a strattonarli con tutta la sua forza. Mia cugina urlò di dolore, ma tutto era inutile: ci trovavamo nel cuore delle montagne, nessuno ci avrebbe mai sentito.

Maria aveva il volto deformato dall’ira. Dopo un attimo, cominciò a scagliarsi contro Monica con calci e pugni. Io non avevo idea di come difendere Monica. Ormai, avevo la vista annebbiata dalle lacrime, ero totalmente impotente. Mia cugina tentò di rannicchiarsi su se stessa, ma, all’improvviso, la furia dai capelli rossi si allontanò. Non feci in tempo a sospirare di sollievo, che la vidi tornare con un matterello. Cominciò, allora, a picchiare selvaggiamente Monica in ogni punto del suo corpo, con forza brutale. Le sue urla risuonarono nella stanza e mi squarciavano il petto dal dolore. Dopo ogni colpo sentivo il rumore delle sue ossa che si spezzavano. Il sangue le usciva dal naso rotto, a fiotti, e si mischiava con lacrime che le rigavano le guance. Non aveva più la forza di contorcersi e subiva passiva ogni colpo. Tentai più volte di slegarmi, ma era inutile. Chiusi gli occhi per non vedere quella mattanza, ma, ormai, il volto di Monica, insanguinato, con i denti rotti, mi riempiva la mente. Ripensai a come era stata felice il giorno che avevo acconsentito ad accompagnarla qui. Maledetto giorno! Perché doveva proprio succedere a noi? Fra tante persone, perché mai era toccato a noi il destino di essere massacrate da una psicopatica sadica?

Pensai poi alla nostra infanzia. Sempre inseparabili sin dalla culla. Non potevo permettere che

Monica morisse così, non dovevo arrendermi, non potevo. Dovevo salvarle la vita… e dovevo farlo in fretta. Cercai di ignorare la macabra scena dinanzi a me e cercai di concentrarmi sulle cose che mi circondavano. Chissà, magari avrei avuto la fortuna di trovare qualcosa di tagliente per slegarmi. Nei film succedeva sempre, perché non poteva accadere ora?

I film sono film e la realtà non segue mai trame tanto felici. Inutile dire che non c’era niente che potesse aiutarmi in quel momento. Potei solo tentare di allentare il nodo delle corde che mi legavano, ma non di più. Monica, intanto, seguitava a urlare e singhiozzare. Implorò pietà, ma la pazza rise di lei e continuò a picchiarla ancora più violentemente. Ormai, il sangue le aveva imbrattato l’abito e aveva ricoperto il suo volto di schizzi; ma non le importava. Continuava e continuava. In cuor mio le augurai di finire nel più profondo dell’inferno e di subire le pene più atroci, ma, in fondo, avevo la certezza che l’inferno fosse quello dove io e Monica ci trovavamo ora. Avrei accolto con piacere le fiamme, invece di stare lì in quel momento e avrei anche detto grazie. Ad un tratto, si fermò. Inclinò la testa di lato, come fanno i bambini piccoli, quando qualcosa attrae la loro attenzione, e guardò mia cugina a terra con un sorriso, la quale ormai aveva perso l’aspetto umano, sostituito da ciò che sembrava un cumulo di ossa ricoperto malamente da carne sanguinolenta.

- Ti prego, le dissi, lasciala andare. Lei non ha colpa di nulla, se è stata preferita a te!

La psicopatica emise un suono simile ad un ringhio, in un istante mi fu vicino e mi colpì con il matterello.

- Taci, tu!

Mi urlò contro, a due centimetri dal viso. Posò la mazza a terra e trascinò quel che rimaneva di Monica vicino a me.

- La vedi?, mi disse, Ho fatto al suo corpo quel che ha causato lei alla mia anima!

L’abbandonò lì e si allontanò. Osservai meglio mia cugina: era ridotta malissimo, ma respirava!

- Moni… mi senti?

Non mi rispose, ma la vidi fare un movimento appena percettibile.

- Ascolta, ce la faremo, non ti abbattere! Usciremo di qui e lei avrà quello che si merita, te lo prometto!

La stavo ancora guardando, quando Maria tornò.

- Non temere, mi disse, fra un po’ tocca anche a te.

Mi fece l’occhiolino e se ne andò. Rabbrividii e la sentii chiudersi la porta di ingresso alle spalle: se n’era andata. Mi concentrai sulle corde che mi legavano. Dovevo riuscire a scioglierle, dannazione! Ad un tratto, sentii un gemito provenire da Monica. Mi voltai di scatto e la vidi sospirare. Il suo petto si alzò, poi ricadde. Attesi che riprendesse a respirare, ma ciò non accadde. Monica era lì, immobile, gli occhi semi aperti.

- Moni? Rispondimi, ti prego…

Ma lei non rispose. Lei non mi avrebbe mai più risposto. Non mi avrebbe mai più parlato né sorriso né confortato. Monica non c’era più.

Piansi a lungo, fin quando, dopo tantissimi sforzi, riuscii a sciogliere la corda ai polsi. Sì, ce l’avevo fatta; ma ora non mi importava più. Lentamente mi liberai le caviglie e andai vicino al corpo di mia cugina. Presi il suo volto, prima bellissimo, fra le mani e piansi finché non mi rimasero più lacrime. Allora, un pensiero raggiunse quel poco del mio cervello che aveva conservato una briciola di lucidità e capii che non dovevo abbandonarmi a me stessa. Non ora. Morire allo stesso modo di Monica era un lusso che non potevo permettermi. Non avevo più molta voglia di vivere, ma di una cosa ero del tutto certa: non avrei permesso che l’assassina continuasse a vivere impunita. Dovevo scappare, salvarmi e fare in modo che Maria finisse i suoi giorni in carcere. Volevo vendetta e avevo una promessa da mantenere!

Mi alzai e corsi fuori. Senza cappotto, senza riparo per il freddo. Non avevo idea di dove mi trovassi, il bianco della neve mi abbagliava la vista e non riuscivo a vedere la strada che ci aveva condotto lì. Cominciai, allora, a correre disperata, lontano da lì, lontano da Monica.

Fu così che, scappando, raggiunsi la roccia.

Mi abbracciai le ginocchia e chiusi gli occhi. Il tempo passava lentamente e, piano piano, portava via con sé un pezzetto di me. Prima i piedi, poi le mani, poi le gambe… Mi domandai quanto tempo avrebbe impiegato il mio corpo a ghiacciarsi del tutto, ma senza voler conoscere la risposta.

Cominciai a sentire una stanchezza incredibile. Ancora poco e sarei morta, me lo sentivo.

Avete presente quando, nei film, puntualmente, gli eroi riescono a disinnescare la bomba proprio nell’ultimo decimo di secondo del conto alla rovescia? A me accadde qualcosa di molto simile: ad un tratto, quando più mi sentivo vicina alla fine, sentii una voce. Rimasi frastornata, mentre sentivo delle mani che mi sollevavano da terra e mi portavano via. Non sapevo chi fosse la persona, ma poco mi importava. Mi stava portando via di lì, questo era l’importante. Mi addormentai esausta fra quelle braccia sconosciute e, quando mi svegliai, mi accorsi che mi stavano caricando su una barella in un’autoambulanza. Attorno a me c’era una folla enorme di persone, tutte sconosciute. Facce di curiosi, persone turbate, volti sconvolti. Ad un tratto, vidi un guizzo di rosso tra la folla.

Era lei. Stava immobile tra la gente come fosse una persona qualsiasi di passaggio. Si accorse del mio sguardo, sorrise e mi fece un cenno con la mano, come per salutarmi.

Avrei voluto urlare, far capire a tutti che era lei l’assassina di mia cugina, ma le mie labbra erano incollate insieme e non potei fare nulla.

Passai molto tempo in ospedale e, non appena mi fui ripresa, chiamai la polizia e raccontai a loro tutta la nostra disavventura. I poliziotti si misero sulle tracce di Maria, ma venni a sapere che non esisteva nessuno con quel nome. Setacciarono tutte le zone nei dintorni di Campitello, ma non c’era più alcuna traccia di lei e nemmeno della mia amatissima Monica.

Avevo fallito. Non avrei mai mantenuto la promessa.



NOTA: Quanto avete letto non è di mia invenzione, ma di una mia carissima amica. Appena l'ho letta, le ho chiesto subito se potevo postarla in questo forum, poiché volevo farla conoscere a tutti voi. Spero che vi piaccia come è piaciuta a me!


  
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