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Autore: Fiamma Drakon    24/06/2010    3 recensioni
Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli occhi e il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.
Ma io, come diavolo ci sono finita in questo inferno...?!

[Linguaggio colorito; possibile cambio di rating]
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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1_Voci, sensazioni
†~Resurrection~† [Feeling of Darkness]



Gli spari riecheggiavano contro le mura degli edifici circostanti, rimbombandole attorno con forza inaudita, togliendole il respiro.

Acquattata sul sedile, le mani premute sulla testa come a proteggersi, teneva un occhio chiuso e con l’altro guardava la strada davanti a sé.
«Papà, per favore, cerca di guidare dritto!!!» esclamò, spaventata.
«Che cosa credi che stia cercando di fare?!».
Un ennesimo sparo e un proiettile perforò il vetro posteriore dell’auto, fendendo lo spazio tra i due sedili, mandando in frantumi il parabrezza. Fortunatamente, la maggior parte della pioggia di vetri si riversò all’esterno dell’abitacolo, anche se qualche frammento riuscì a ferirla.
Strinse a sé con maggior forza la piccola piramide di granati che aveva nella tracolla sulle sue gambe.
«Papà... - chiamò la ragazza, le lacrime agli occhi - ... fa male morire...?».
Era una domanda dannatamente stupida, lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di porla, men che meno a suo padre: chi, meglio di lui, poteva risponderle?
Questo fece per risponderle, quando un secondo colpo lo centrò in pieno al petto, schizzando fuori dallo sterno assieme a del sangue scuro, sfrecciando fuori dal parabrezza rotto.
«PAPÀ!» urlò Erika, presa dal panico.
L’uomo sterzò e girò in una stretta stradina laterale, troppo per il veicolo, al quale furono bruscamente asportati gli specchietti laterali.
Era un vicolo cieco, ma se ne accorsero troppo tardi.
Un’esplosione rimbombò nell’aria e una vampata di fuoco si affacciò dal vicolo, costringendo gli inseguitori a fermarsi.
«Dici che sono morti?»
«Che cazzo di domande fai? Certo che sono morti! Nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una simile esplosione!»
«Allora, che facciamo?»
«Andiamo a fare rapporto al capo».
E ripartirono, sgommando.
Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli occhi e il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.
Ma io, come diavolo ci sono finita in questo inferno...?!


«Erika!».
Il richiamo giunse dal corridoio, cogliendola di sorpresa.
«Erika!!».
La porta si aprì, riversando nella stanza una quantità di luce esagerata.
«Mamma, chiudi la porta!» si lamentò la ragazza, nascondendo la testa dietro un grosso leggìo dall’aria antica.
«Erika, stare a leggere chissà quali libri satanici per tutto il giorno, al buio per giunta, non giova affatto alla tua miopia!».
«Non è buio qui, solo che con tutto questo sole non si vede la luce della candela! E poi io non leggo libri satanici, ma di Alchimia!»
«Tesoro, dovresti uscire...».
Erika conosceva bene quel tono di voce: era quello che sua madre usava per rimproverarle dolcemente qualcosa, prima di passare a toni più bruschi, ma lei non era intenzionata a cedere.
Non ancora, almeno.
«Mi hai tolto la paghetta, per cui non posso andare in libreria» obiettò.
Arianna mandò un lungo sospiro carico d’esasperazione, mentre varcava la soglia dello studio che la giovane Erika Reagh utilizzava come biblioteca e laboratorio, come lasciavano intuire gli alambicchi e le ampolle che aveva sparso un po’ ovunque tra piccoli tavoli e scrivanie.
Osservando la figlia, ne colse l’espressione e gli occhi, così dissimili dai suoi e tanto simili a quelli di Alan, il padre che non aveva mai conosciuto: se ne era andato un mese prima che lei nascesse e da allora non aveva più avuto sue notizie.
«L’ultima volta che mi hai chiesto la paghetta l’hai spesa per comprarti un libro sulle pratiche alchemiche!»
«Libro che, tra l’altro, mi hai sequestrato e non ho mai potuto guardare! - contestò Erika, offesa - Perciò non vedo l’utilità di uscire».
«Adesso basta! Erika Reagh, ti ordino categoricamente di uscire da questo studio e da questa casa!».
La ragazza si alzò con un sonoro sbuffo: ecco arrivati i modi bruschi.
A quel punto non aveva altra scelta se non quella di ubbidire.
«Va bene, vado... ma tu non toccare niente!» avvisò, con espressione seria.
Come Arianna poté ben constatare, Erika indossava il suo solito completo: shorts verde militare e canotta azzurra; teneva i capelli, decisamente lunghi, raccolti in un’alta coda di cavallo, cosicché non le cadessero sugli occhi, grandi e marroni.
Si vestiva in modo forse troppo mascolino, ma proprio per questo, pur nella differenza di sesso e di età, le ricordava terribilmente Alan.
«Che c’è da fissare?» domandò la ragazza, risvegliando la madre da quella sorta di trance in cui era caduta.
«Niente, tesoro. Divertiti»
«Già, come se potessi...» mormorò lei, afferrando la sua tracolla nera preferita ed uscendo dalla stanza.
Le occorsero alcuni minuti perché i suoi occhi si abituassero alla luce che entrava dalle finestre del corridoio, così intensa rispetto a quella cui era abituata a stare nel suo laboratorio.
Attraversò il corridoio, il soggiorno ed uscì da casa, incamminandosi verso la fermata dell’autobus.
Ma perché la mamma non riesce a farsi una ragione della mia voglia di solitudine?! So che non le piace che stia sempre da sola in casa, ma non può obbligarmi ad uscire se io non voglio!
Uffa... se solo papà fosse qui...
Erika...? Sei tu?
La ragazza si fermò, sbattendo più volte le palpebre, accigliata e confusa: aveva davvero sentito una voce nella sua testa che... la chiamava?
Scosse il capo.
Non devo auto-suggestionarmi. Sono solo fantasie. Le mie fantasie. Niente di così eclatante.
Perciò riprese a camminare.
Arrivò alla fermata pochi minuti più tardi, appena in tempo per prendere il bus diretto in centro, con sua immensa “gioia”.
Mentre stava seduta in fondo al mezzo, addossata al sedile, non riusciva a fare a meno di ripensare a quanto appena successo: non era capace di farsene una ragione, per il semplice fatto che, nell’istante in cui quella presunta “allucinazione sonora” aveva pronunziato il suo nome, il suo stomaco aveva sussultato e il cuore le aveva mancato un battito.
Era come se il suo organismo avesse riconosciuto quella voc... “allucinazione sonora”, in un modo a lei completamente sconosciuto.
Starò impazzendo...? Non dovrebbero esserci voci nella mia testa. Tranne la mia, s’intende.
Riuscì a riaversi dai suoi pensieri appena in tempo per scendere alla sua fermata.
Eppure, ripensandoci, ho come la sensazione di... aver già sentito quella voce, da qualche parte, anche se non riesco a ricordare dove, maledizione!
Nel frattanto che si lambiccava su quel pensiero, camminava, senza prestare attenzione a dove andava, lasciando all’abitudine la guida dei suoi passi.
Questa la condusse fino davanti al negozio che, nelle ultime settimane, l’aveva più interessata: non era un edificio molto ben tenuto, esteriormente. In vetrina erano esposti una serie di articoli magici e alchemici dall’aspetto intrigante, soprattutto per chi, come Erika, aveva una malsana passione per i misteri magici e gli antichi rituali alchemici.
Niente di satanico, ma neppure troppo nella norma.
Come la ragazza non tardò a notare, il telaio della vetrina era stato recentemente riverniciato d’una bella tonalità d’oro, come la porta, anche se la riverniciatura non era riuscita a ridare all’uscio un po’ dell’antico vigore: appariva comunque vecchio e sul punto di rompersi.
Sopra ad essi spiccava a grosse lettere, dorate e dalle forme arabescate, il nome del negozio: “Magie e misteri”.
Erika fissò la porta alcuni istanti, indecisa se entrare o meno: in fondo, non aveva soldi con sé ed entrare per farsi tentare e basta non le avrebbe affatto giovato alla salute.
Dovrò fare a meno dei miei adorati gingilli per qualche tempo, almeno finché la mamma non si deciderà a darmi di nuovo la paghetta... uff...
Erika... vieni.
Sussultò, facendo scivolare gli occhiali fin sulla punta del naso.
Riassettandoli, continuò ad esaminare la porta, mentre la sua mente lavorava febbrilmente.
Infine, la soluzione del mistero le capitò sotto mano più per caso che per altro: aveva capito dove aveva già sentito quella voce.
È... strano, no, pazzesco! Non posso credere che quella voce sia la stessa di quei sogni!
Ora la ricordava bene, forse anche troppo: negli ultimi tempi aveva avuto dei sogni piuttosto singolari. Solo un personaggio, un uomo, li accomunava tutti, oltre al tipo di ambiente, spettrale anche se diverso di volta in volta.
Più d’una volta aveva addirittura paragonato quei sogni ad un telefilm a puntate: in qualche strano e bizzarro modo, sembravano tutti collegati.
Comunque, una cosa era certa: era di quello sconosciuto la voce che udiva nella testa.
Cercando di far un po’ di luce nella memoria, riuscì a ripescare una delle ultime “puntate”, ambientata in una piccola casa, dove si trovavano il misterioso personaggio e una donna di bell’aspetto, ma dall’aria pericolosa.
«Per tornare... cosa devo fare?» aveva chiesto l’uomo.
«Devi contattare qualcuno, ma non ti basterà mantenere il contatto: il tuo corpo non sopravviverebbe dall’altra parte» aveva replicato la donna in tono serio.
«E allora come faccio?».
Sembrava che lui si stesse arrabbiando.
«Dovrai nutrirti»
«Di cosa?».
A quel punto, lei gli aveva sorriso in modo candido e malevolo.
«Non vorresti saperlo...»
Era tutto ciò che si ricordava, l’ultimo pezzo prima che sua madre la svegliasse.
Non vi aveva badato molto, accusando la stanchezza di quel suo sogno così bizzarro, ma adesso non ne era più tanto sicura.
Che cosa dovrei fare? Inizio ad avere paura...
Non devi spaventarti, Erika. Vieni... vieni da me.
Okay, adesso ho paura sul serio.
Indietreggiò di qualche passo, decisa a non entrare in modo categorico, poi una strana sensazione s’impossessò di lei: era fatta di nostalgia e... tristezza.
Non aveva mai provato una cosa del genere prima di allora.
Prima che potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa, la sensazione crebbe, divenne più forte, più intensa, finché non ne fu completamente sopraffatta.
Che cosa mi sta accadendo?! Perché mi sento... affogare? Sto affogando nelle mie stesse emozioni...?
Erika... entra.
Era chiaro, ormai: chiunque o qualunque cosa le stesse sortendo quell’effetto, voleva che lei entrasse in “Magie e misteri”. Con ogni probabilità la stava aspettando là dentro.
Che fare?
Da una parte era curiosa di scoprire che cosa voleva il misterioso figuro del suo sogno, ma dall’altra temeva di farlo.
Erika vieni!
Fu quell’ultimo richiamo, più deciso e potente di tutti gli altri, che la convinse a muovere i primi, timidi passi verso l’entrata del negozio, le mani serrate attorno alla spallina della sua tracolla, nella vana speranza che ciò le potesse dare coraggio.
Camminò a passi lenti verso l’uscio; con mani tremanti la spinse e varcò la soglia.
Dentro, come sempre, la luce era debole, soffusa, ed i grossi, vecchi scaffali che decoravano le pareti e l’interno del negozio, erano immersi in una familiare, mistica penombra. Gli articoli parevano trarre immenso beneficio da quella semioscurità, che li faceva apparire ancor più preziosi e interessanti.
«Signorina Penelope?» chiamò Erika con voce incerta, avanzando all’interno, senza poter fare a meno di guardarsi intorno.
La signorina Penelope era la proprietaria del negozio, nonché sua amica. Erano ormai tre anni che lei frequentava quel negozio e aveva avuto modo di conoscere la padrona come questa aveva avuto modo di fare altrettanto.
«Signorina Penelope...?» chiamò ancora, a voce lievemente più alta: forse era nel retrobottega e non l’aveva sentita.
Un improvviso tonfo sordo proveniente proprio dall’altra parte della porta del retrobottega la costrinse a fermarsi, i sensi all’erta. Non era stato un tonfo “normale”, quello dei vasi che cadono e si frantumano, o di un qualsiasi altro oggetto. In realtà, non credeva neppure che ci fosse differenza tra il tonfo di un oggetto e di qualche altra cosa, eppure in quella circostanza le era parso proprio diverso.
Anche perché aveva carpito nel rumore un che di vagamente umido e carnale. Non sapeva neppure come potesse aver afferrato un’informazione del genere, fatto stava che l’aveva recepita.
Sembrava il rumore di un corpo morto... che cadeva.
Scosse con forza la testa: come poteva anche aver solo pensato ad una cosa del genere?
La signorina Penelope non tiene cadaveri in negozio.

Nell’istante in cui formulò quel pensiero la porta fatidica si aprì.
«Oh, Erika!».
«S-salve» replicò la ragazza, nervosa, all’apparire della proprietaria.
Questa si appoggiò elegantemente allo stipite dell’uscio, incrociando le braccia sul petto.
Penelope era davvero una bella donna: capelli biondi lunghi fino alla vita, occhi azzurri e look da maga dell’antica Grecia. Il suo stile si addiceva molto al genere di negozio che gestiva.
La donna le sorrise cordialmente.
«Sei venuta per qualcosa in particolare?».
Erika si guardò intorno un’ultima volta: niente di anomalo. Scosse la testa.
«Niente» esclamò, volgendosi per uscire.
Mosso un passo, udì distintamente un rantolo soffocato alle sue spalle, qualcosa di ovviamente non umano e inquietante. Rabbrividì palesemente e, decisa ad uscire da lì il più in fretta possibile, si affrettò verso la porta, tuttavia...
«Erika».
Il richiamo la fece girare un’altra volta: Penelope si era scostata dallo stipite. Adesso era in piedi al centro della soglia e la fissava con sguardo dolce ma indecifrabile.
«Sì...?»
«Vieni, ho qualcosa da mostrarti...».
Così dicendo la donna rientrò nel retrobottega - completamente buio, da quel che la ragazza poteva vedere - facendole cenno di avvicinarsi.
Le gambe di Erika tremavano - non sapeva dire se per paura, emozione o ambedue le cose - mentre lentamente ubbidiva, il cuore che le martellava in gola, il cervello in febbrile lavoro.
Cosa vorrà farmi vedere...? E cosa è stato ad emettere quel rantolo di prima...?
Cosa nasconde... là dentro?
«Cosa c’è oltre quella... porta?» domandò, incapace di trattenere oltre la domanda.
Negli occhi di Penelope balenò una scintilla che non le piacque affatto: sembrava malvagia. Inoltre, pareva emanare pericolo come fosse un’aura che permeava non solo la sua pelle, ma anche l’aria tutt’intorno a lei.
Riusciva quasi a vederla.
«Vedrai... ti piacerà di certo» esclamò, ma dal tono con cui lo disse Erika non ne fu affatto convinta: sembrava eccitata dalla cosa, ma al tempo stesso malsanamente contenta. Tuttavia, la ragazza continuò ad avvicinarsi.
Quando giunse sulla soglia, un acre odore di carne non propriamente preservata la investì.
Non era un odore molto intenso, ma era pungente, tanto da darle un po’ di mal di testa.
Si fermò, senza azzardare un passo all’interno.
Non è... possibile...





Angolino autrice
Dopo una lunga riflessione e numerosi tira e molla, alla fine ho deciso di postarla, anche perché ormai l'avevo iniziata e, sinceramente, non mi andava di lasciarla a prendere polvere nell'anonimato, dato che è un lavoro estremamente sentito.
Per cui spero di ricevere qualche commento, per sapere se interessa o meno.
Well, al prossimo capitolo (forse).
F.D.
   
 
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