Sempre la stessa musica, sempre lo stesso violino che suona al piano di sotto, con le corde che chiedono pietà. Tanto qui, ubriaco uno, sbronzo l’altro, di certo non lo ascolterà nessuno. E chi, magari, non pensa al vino ha ben altro da fare. I boccali si svuotano, le lingue si sciolgono, ma i cordoni delle borse faticano ad allentarsi, dannazione. Come diavolo faccio a mandare avanti questa catapecchia fatiscente, così? Con quel che guadagniamo, tra clienti nostri e qualche intruglio venduto al mercato, a malapena ci campiamo. Come posso sperare di rimetterla a posto? Qui piove dentro, maledizione. Ovvio che nessuno è disposto a prestarmi soldi, e chiaro che più di una moneta a botta non la scuciono. Se vedesse mio padre, come ho ridotto questo posto... ma lui se n’è andato, mia madre anche. Ci sono solo io, con qualche altra ragazza e Fabien, per nostra fortuna. Non ce la passiamo bene. La più giovane di noi avrà quattordici anni, se ce li ha. Io ne ho diciannove, e gestisco la baracca, per quel che posso. Alternative non ne ho, nessuno darebbe di che vivere ad una come me né, tantomeno, la sposerebbe. Se potessi andarmene da questo inferno, sposerei il primo che passa. Ma questi finti moralisti le vogliono vergini, le mogli. E dopo il matrimonio certo non gliene frega niente di quanti clienti ho avuto. Gli basta che io sappia fare il mio lavoro, e lo sappia fare bene: che quel soldo bucato che mi lascia in carità sia ben speso, e che ci abbia guadagnato. Lui, non io. Non una delle altre ragazze. Ci ho provato, a mettere in piedi un locale decente, ma di risultati neanche l’ombra. Nessuno che fosse mai entrato in questo posto, quando ancora era un’onesta locanda. Non mi è rimasta alternativa al trasformarla in qualcosa di sudicio. «Adela, c’è uno nuovo» La voce di Fabien mi riscuote dai miei pensieri. Uno nuovo? Speriamo bene... Chi diavolo sarebbe, questo nuovo? «Bah, viene dalla precettoria, non è neanche abbastanza furbo da cambiarsi d’abito...» Sbuffa Fabien. Marie sogghigna: «Sveglio! Mi sa che questo non riesce nemmeno a trovarselo nei pantaloni!». Mi sa tanto che ha ragione. Vediamolo un po’, questo tonto. No, decisamente non ha l’aria sveglia. Me lo lavoro io, il moccioso. Ma... quanti anni avrà questo qui, la mia età? Povero disgraziato, questo l’hanno infilato a forza nel Tempio. Dubito ci sia entrato volontariamente, o non sarebbe qui ora. Anche se sembra già pentito. Male. Fuori la grana. Mi avvicino. Mi apro la scollatura. Se non mi guarda, è meglio che se ne torni tra i suoi confratelli. Mi fissa negli occhi, questo. Lo so, sono particolari, ma di solito gli uomini guardano altro. Apro ancora un po’, e lui guarda più in su... No, ti prego. Fabien,giuro che te lo faccio sbattere fuori a calci. «Io...» Ah, ce l’ha la lingua... «A chi dovrei...?». A me, non ti sembra ovvio? Ma sarà francese? Ha un accento un po’ strano, sembra quasi inglese. Se poi non parla... «Quanto, insomma... io...». Vieni, dai... Lo porto di sopra, ancheggiando vistosamente. Do un’occhiata indietro, sperando che non cerchi ancora i miei occhi. Non li cerca. Sorrido. Ammicco, ancheggio ed entro nella mia stanza.
Lui mi segue, ma esita.
Mi siedo
sul letto, a gambe accavallate. Pare quasi più attratto dai
vasi di erbe che da
me. Non ci credo. È assurdo... Quel biondino non ne ha
un’idea. Si leva il
mantello nero, sotto ha i vestiti da templare. Che diavolo,
s’è portato dietro
pure la cotta di maglia? Ragazzo, vuoi darmi proprio da fare... Se
provassi a
fregarlo? Posso sempre chiedergli il doppio. Si avvicina, si schiarisce
la
voce, si toglie il mantello. Eh, ma qui ci mettiamo tutto il giorno. Ho
altri
clienti, io. Mi alzo, gli slaccio la cinta e la lascio cadere a terra,
incurante. Oh, forse non tanto incurante. Che bel suono che fa la sua
borsa.
Altro che “povero cavaliere di Cristo”!
D’accordo, trattamento speciale. Se
solo la smettesse di guardarmi negli occhi... Gli tolgo la sorcotta,
sorrido
maliziosa. Dì un po’, hai intenzione di farlo con
quella addosso? Lui è in
imbarazzo, rovescia la cotta di maglia e l’infula sul
pavimento, chiaramente
impacciato. Al resto ci penso io, altrimenti facciamo notte. Su la
camicia...
Oh, ecco il bello dei soldati. Fisico muscoloso, ma è rigido
da morire. Bah,
monachello. Meglio scogliere un po’ la tensione, o addio
paga. Dì un po’, bello,
com’è che ti chiami?.
«Io non so se...» Balbetta inesorabilmente, parla a
monosillabi. Tranquillo, non lo dico a
nessuno che sei
stato qui. «Garin... Garin de Lyons».
Finalmente una risposta. Ah, sei francese,
allora. «Sì signora...
signorina...». Chiamami Adela.
Visto
che non agisce, ci penso io per lui. Finisco di svestirmi, rimango nuda
davanti
a lui. Mi aspetto quasi si metta a tremare. Il suo sguardo indaga
più in basso.
Ora ci siamo. Lo faccio sedere sul letto, mi metto a cavalcioni su di
lui. Prima volta?
«Sì...». Almeno lo ammette.
Un piccolo bacio sulle labbra, lui ricambia e ci riprova. Sembra si
stia
sciogliendo. Gli slaccio la cinta, lui si sdraia, mi lascia fare.
È mio... Lo
accarezzo, lo bacio ancora, le mani scendono. Gli sfugge un gemito. Io
sorrido vedendolo
arrossire come fosse una verginella. «Tu...». Sì? «... hai gli
occhi viola...?». No. NO. Non ci credo. Non è
possibile. Nessuno dei miei clienti aveva mai notato che ho gli occhi
viola. E
non è certo un buon segno se lui li ha notati. Ssssh, lascia stare i miei occhi.
«Scusa». Si scusa? Oddio... Lo
bacio ancora, scendo sul collo, gli mordo un orecchio mentre mi
struscio
leggermente più in basso. Trattiene il respiro, stringe i
denti. È combattuto
tra il desiderio e il senso di colpa. Lasciati
andare... «Come?».
Che diavolo vuol
dire “come”? Rilassati,
respira. Si
accorge improvvisamente di non stare respirando. Rido e scendo ancora
con i
baci, mentre le mie carezze si fanno più audaci. Lui
arrossisce, non solo di
imbarazzo. Bene. Bacio il suo torace e lo sento contrarsi e distendersi
rapidamente, ha il fiato corto. Gli tremano le labbra. Risalgo di nuovo
lungo
la gola, lecco il mento. Ha i brividi di eccitazione. Le nostre lingue
si
incontrano di nuovo, si lasciano e si riprendono in un gioco malizioso.
Lui
geme. Io sorrido quando sento crescere il suo piacere sotto le mie
mani. È il
mio giocattolo, non può resistere. Freme, mi vuole. Gli
prendo una mano, la
appoggio al mio seno. La sento spostarsi sulla schiena e scendere,
scendere
ancora. Prende l’iniziativa, grazie al cielo. È
ancora uomo. Il suo respiro è
pesante, le sue labbra cercano il mio collo. Mi sta imitando?
Probabile, ma non
è male come imitatore. È ancora un po’
incerto, ma è un principiante, si può
anche accettare. Con l’altra mano riprende a toccarmi il seno
con dolcezza. Non
sembra quasi essere un mio cliente, non mi tratta da puttana. Mi bacia,
mi
accarezza, io continuo con i miei tocchi licenziosi. Lo sento scosso da
un
leggero tremito, geme in un sospiro mentre la sua eccitazione arriva al
culmine
e le sue mani mi stringono quasi fossi un oggetto prezioso. Questo mi
può
tornare utile, vediamo di dargli un buon motivo per tornare. Sorrido.
«Io
dovrei...». Andare? Non
se ne parla. Abbiamo appena iniziato.
«Ma se sto via
per molto...». Rido. Se dura quanto è durato
prima, non si renderanno nemmeno
conto che è andato via! Avanti,
resta
ancora un po’. Cos’è, non ti piace?
«No!- Si affretta a rispondere- Ci
mancherebbe». Per fortuna. Allora,
resta.
Ancora un bacio, mi stringe a sé, affonda il suo viso sul
mio collo. Si blocca.
«Hai un buon profumo». Un’altra cosa che
non nota nessuno. Mi sorprende che ci
abbia fatto caso. Ho messo erbe profumate tra i capelli, lo faccio
sempre.
Perché si ferma? Mi annusa, mi accarezza dolcemente. Ti piace? Non risponde, continua. Ora
è sciolto, mi sa che la
risposta è sì. Interessante... Lui sussulta.
Campane. «Il vespro!». No,
miseriaccia, proprio ora! Lui mi sposta con noncuranza, si riveste in
fretta,
si morde il labbro. Mi alzo, raccolgo il suo mantello mentre lui
allaccia le
cinghie del gambeson. Si schiarisce la voce: «Quanto ti
devo?». È diventato
improvvisamente freddo, distaccato. Sembra quasi che abbia paura.
Raccoglie la
cotta di maglia, gli tremano le mani. Ti
aiuto? «Ci penso io» Sbotta lui, nervoso.
Rivolta la cotta, le anelle
scivolano lungo il suo corpo. Non so cosa rispondergli. Qualche soldo
in più
farebbe comodo, ma se non volesse più tornare? Si infila la
sorcotta, allaccia
la cintura. Lo vedo aprire la scarsella. Dio, quanti soldi. Deglutisco.
«Ti
bastano?» Butta tre monete sul tavolo. Sto sognando. Allungo
la mano verso le
monete, mi blocco. Ne prendo una sola. Questa basterà.
Riprende le monete di
fretta biascicando qualcosa tra i denti, si caccia il pollice in bocca
e si
strappa violentemente l’unghia, facendosi sanguinare. Mi
chino a raccogliere la
sua infula e gliela porgo assieme al mantello. Lui copre i suoi bei
capelli
biondi, le sue spalle. La scarsella si chiude, lui si avvicina alla
porta. Mi
lancia un’ultima occhiata amareggiata prima di calare il
cappuccio sugli occhi.
«Addio». Cosa vuol dire
“addio”? Apre la porta, fa per uscire ma torna
indietro. Mi mette una moneta in mano e mi bacia, poi scompare
giù per le
scale. Mi affaccio, lo guardo andare via. Prima di uscire lancia
un’occhiata
verso la mia stanza. Gli sorrido. Tornerà, so che lo
farà. Tornerai, Garin de
Lyons.