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Autore: EryVeg    31/07/2010    0 recensioni
E' un breve racconto che ho scritto per un concorso. Ciò che io sento e provo osservando un quadro. QUEL quadro.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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stagno Ispirato a “Stagno delle ninfee e il Ponte Giapponese” – Monet


Dicembre.
In una giornata di freddo pungente mi ritrovai a camminare lentamente per le vie di Rimini, invase dal mercato, assorta nei miei pensieri. E’ incredibile quanto la gente intorno a te conti davvero poco quando si è immersi nelle proprie preoccupazioni o, come nel mio caso, nel bel mezzo di un’analisi di coscienza.
Avevo scelto proprio il giorno giusto per prenotare una visita alla mostra. In fondo, nell’arte si rispecchiano le tue emozioni e sentimenti. Non potevo chiedere di meglio per schiarirmi un po’ le idee.
Non avevo mai valorizzato abbastanza la pittura, fino a quel giorno. Più precisamente, non mi ero mai soffermata a lungo davanti ad un quadro per assaporarne la completa essenza.
Avevo sempre preferito diverse forme d’arte, come la musica: quell’onda immensa, composta da semplici e pure note, che trasporta fluide emozioni capaci di far sbocciare la tua anima.
Così, poco dopo, mi ritrovai a vagare per i corridoi della mostra, osservando incuriosita i quadri appesi alle pareti. Ero completamente rapita da quei dipinti stupendi, impressionanti e vivi. Ognuno di essi era una storia, una vita raccontata a chi sa fermarsi ad ascoltarla. Ritratti, volti e paesaggi che sembravano frammenti di pura realtà, impressi indelebilmente su tela.
Mi chiesi come fosse possibile creare tutto ciò con semplici pennelli e una tavolozza di colori.
Ricordai allora le parole del filosofo Kant, riguardo il Genio : “Il Genio è la disposizione innata dell’animo, mediante la quale la natura dà la regola all’arte”. Chiamare infatti quei pittori “artisti” era davvero poco.
Solo un quadro tuttavia fu veramente in grado di rapirmi, di catturare la mia anima e farla propria.

“Stagno delle ninfee e il Ponte Giapponese” – Monet.

Non so dire di preciso cosa mi catturò: fu una sensazione puramente istintiva, inconscia, nulla a che vedere con la razionalità.
Dal momento in cui posai il mio sguardo su quel capolavoro, non fui più in grado di distoglierlo.
Fu come un leggero vento: una delicata e piacevole carezza sul volto, ma una immensa forza che rapidamente strappa via i piumini dai candidi soffioni, abbandonandoli solitari nell’aria.
La mia mente, le mie emozioni in quell’istante si dispersero semplicemente, in modo confuso e senza alcuna logica.
Si dice che quando una persona è immersa in un sogno, la sua mente è libera di vagare in un mondo inesplorato, inaccessibile da svegli.
Stava succedendo la stessa cosa a me, tranne per un piccolo dettaglio: non stavo propriamente dormendo, ma avvertivo un torpore simile a quello che invade le membra quando finalmente, dopo una intensa giornata, puoi adagiarti nel letto. Una sensazione piacevole, che culla i tuoi pensieri fino al momento in cui non sei nemmeno consapevole di pensare.
Nulla impediva alla mia mente di spaziare e nessuna recinzione o barriera sarebbe riuscita a contenerla. Libera e fluttuante, arrivò infine allo splendore, all’opera d’arte, come se per tutto quel tempo non avesse atteso altro.
Fu un’attrazione che avvenne con la stessa naturalezza con la quale un bambino si rifugia tra le braccia protettrici della madre, con la spontaneità di uno sguardo rivolto alla persona amata, con la soddisfazione con la quale il poeta raggiunge la propria Musa.
Fu così che mi ritrovai su quello stesso ponte che prima stavo ammirando, consapevole di quella sensazione di irrealtà che mi circondava.
Ero sicura che niente di tutto quello che stava accadendo fosse reale, ma allo stesso tempo compresi che se solo avessi pensato all’assurdità della mia situazione, tutto sarebbe inevitabilmente e dolorosamente finito.
Non mi era mai capitato nulla di simile, non riuscivo a capacitarmi di ciò che stava avvenendo. Mi ero forse sentita male? O magari mi ero semplicemente addormentata e quello era tutto un sogno assurdo, più strano di quelli che ogni notte facevo. Un po’ di tempo prima avevo letto delle esperienze extracorporee, magari la mia era proprio una di quelle!
Risi al solo pensiero, nonostante la preoccupazione e la paura. Ridere spesso è il migliore espediente in certe situazioni.
Il suono della mia stessa risata mi tranquillizzò, famigliare e riconoscibile come sempre.
Feci un respiro profondo e finalmente sentì di essere tornata padrona di me stessa, di aver ripreso il mio naturale autocontrollo.
Mi guardai intorno e rimasi stupefatta: nel disorientamento e nella paura di pochi istanti prima non avevo osservato il luogo in cui mi trovavo.
Era assolutamente perfetto. Il ponte sul quale mi trovavo era immerso nella natura, così semplicemente stupenda da togliere il fiato. Sotto il ponte scorreva lentamente un ruscello, quasi completamente ricoperto da ninfee e delicati fiori. Sullo specchio d’acqua, in quella piccola parte che non era occupata dalle ninfee, si rifletteva la vegetazione: piante esotiche con fiori di ogni dimensione e colore, cespugli verdi e rigogliosi, salici piangenti maestosi che sovrastavano e dominavano il paesaggio.
Una flebile luce, proveniente da un sole nascosto, illuminava l’ambiente. Si stava avvicinando la sera e presto il sole sarebbe definitivamente tramontato.
Fissavo tutto ciò con occhi spalancati, cercando di osservare tutto nello stesso momento, nel timore che quello splendore scomparisse da momento all’altro.
Nessun rumore o suono, solo un leggerissimo scorrere del ruscello, appena percettibile. Nemmeno un soffio di vento.
Calma assoluta.
Avevo paura di avanzare anche solo di un passo, timorosa di infrangere quella tranquillità con uno scricchiolio delle assi del ponte, ma anche solo con il movimento. Pareva incredibilmente fuori luogo persino il mio respiro irregolare.
La mia curiosità tuttavia ebbe la meglio. Non potevo lasciare parte di quel luogo inesplorata.
Lentamente feci il primo passo. Nessuno scricchiolio. Tutto rimase inalterato, come se non mi fossi mai mossa.
Feci qualche altro passo lungo il ponte, ammirando sempre più i salici piangenti, che sembravano regnare e circondare quel luogo.
Ho sempre avuto un’attrazione particolare per tali alberi, quasi rispetto, associando il salice piangente alla riflessione: posarsi ai suoi piedi, protetto e isolato dal mondo esterno grazie alla sua enorme chioma, e pensare.
Credo che tutti gli alberi meritino tale ammirazione. In fondo, se ne stanno solidi e indisturbati, silenziosi osservatori del mondo. Anni, decenni e secoli passati a contemplare il mondo in continuo cambiamento, senza giudicarlo.
Mi chiesi che cosa avessero osservato gli alberi di quel luogo, se avessero mai avuto qualcosa da osservare.
Avanzai ancora di qualche passo, finché non scorsi un sentiero di terra battuta, là dove il ponte aveva fine.
Meravigliata avanzai fino a ritrovarmi sul sentiero, completamente circondata da cespugli e fiori. Fui inebriata dal loro profumo, una fragranza mai sentita prima. Chiusi gli occhi. Mille ricordi e pensieri affiorarono nella mia mente, richiamati dall’aroma dei fiori: il profumo che mia nonna indossava sempre, percepibile in ogni suo infinito abbraccio, l’odore che sentì la prima volta che tenni tra le braccia mia sorella appena nata, l’odore del mio cane, quando la sera si adagiava sulle mie gambe e lentamente si addormentava.
Allo stesso tempo percepì, seppure più debolmente, l’aroma del caffè caldo, l’odore delle pagine di un libro nuovo, l’essenza d’incenso, il profumo dell’albero di Natale, del mare, dell’erba appena tagliata…
Tutti gli odori scomparvero improvvisamente.
Arrivò, senza preavviso e con prepotenza, il Suo odore. L’odore della persona che amai, alla quale donai silenziosamente, giorno dopo giorno, il mio cuore.
Basta.
Aprii lentamente gli occhi.
Per un attimo pensai, con orrore, di essere nuovamente nel corridoio della mostra.
Invece ero ancora lì, nel Luogo.
Non volevo andarmene. Non volevo tornare alla realtà, volevo continuare il mio sogno, restare in quel piccolo (grande) spazio solo mio, dove nessuno poteva ferirmi più.
Guardai il cielo, chiedendomi quanto tempo fosse ormai passato. Niente però sembrava cambiato, nemmeno la più piccola variazione di luce.
Sembrava che il tempo lì non passasse.
In fondo, che importanza può avere il tempo in un luogo che nemmeno esiste, dove nessuna cosa muta e nessun sole tramonta?
Decisi di continuare a camminare, per vedere dove portava quel sentiero.

Gradualmente mi lasciai alle spalle il ponte e il leggero rumore del ruscello, ora impercettibile.
Non avevo idea di dove stessi andando, verso a cosa stessi andando incontro. Camminavo e basta, un passo dopo l’altro, automaticamente.
Il sentiero sembrava procedere diritto, con qualche piccola curva ogni tanto. Tutto era sempre uguale, stessi fiori e alberi, stessa terra sotto i miei piedi.
Cominciai a dubitare, a chiedermi se davvero volevo continuare.
Forse mi ero sbagliata, non era quel paese delle meraviglie che mi aspettavo e io iniziavo ad essere stanca. Ormai non ero più sicura di niente, ma fondamentalmente non ero mai stata nemmeno certa dell’esistenza di quel luogo.
Mi fermai. Decisi di appostarmi ai piedi di un salice, luogo ideale per riflettere sulla situazione.
Mi sedetti comodamente, cercando di iniziare a ragionare e capire cosa volevo veramente: rimanere in quel luogo oppure lasciarlo e tornare alla mia vita, ammesso che fosse possibile.
Quel luogo pareva proprio quello che stavo cercando, una fetta di paradiso perfetto dove trovare rifugio dalla quotidianità opprimente.
La pace e la tranquillità di quel luogo erano quello che da tempo cercavo, che attendevo speranzosa.
Mentre riflettevo, cercai di sistemarmi più comodamente sull’erba. La mia mano accarezzò la zona d’erba in cui ero adagiata. Stranamente, la sensazione non fu piacevole.
Abbassai lo sguardo e non vidi erba verde e rigogliosa, solo steli fragili e rinsecchiti.
Mi invase un’amara tristezza.
No, quello non era il paradiso perfetto. Non era nemmeno il luogo in cui regnava la calma e la tranquillità che tanto desideravo.
Nonostante la sua indiscutibile bellezza e purezza, non riusciva a cancellare le preoccupazioni e la tristezza che provavo. Attenuarle forse, ma esse ricrescevano forti come prima, nei momenti più inaspettati.
Scossi la testa. In diciotto anni di vita non avevo ancora imparato che non si fugge dai propri problemi, ma che essi, prima o dopo, vanno affrontati.
Lacrime calde iniziarono a scorrere sul mio viso, cadendo come sempre silenziose, incapaci di essere udite.
Un forte vento scosse il salice sotto il quale mi ero rifugiata. Chiusi gli occhi e sperai che questo segnasse la fine, il ritorno alla realtà.

Inspirai profondamente e aprii gli occhi.
Di fronte a me, attraverso un velo di lacrime, osservai il ponte del dipinto, immerso in quella meravigliosa ma ingannevole natura.
Una mano si posò sulla mia spalla, facendomi sobbalzare.
“Tutto bene?”, mi chiese una signora.
Cercando di controllare la voce tremante, risposi che andava tutto bene. “Sa, è un quadro bellissimo”, aggiunsi infine.


All’uscita della mostra fui colpita da un vento gelido. Osservai il cielo e sorrisi, constatando che era del chiarore tipico di una imminente nevicata.
Incurante del battito accelerato del mio cuore, presi il cellulare e composi il Suo numero.
Pochi minuti dopo, i primi fiocchi cominciarono lentamente a cadere.
Ho sempre adorato la neve, ma mai quanto quel giorno.
  
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