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Autore: Ranessa    06/09/2010    2 recensioni
I babbani hanno uno strano modo di definire Praga, la chiamano città magica, ma per quanto mi sforzi non è magia ciò che percepisco camminando per le strette vie di acciottolato umido, quanto piuttosto un lieve senso di inquietudine. Ci si muove per Praga costantemente all'erta, come se si dovesse incontrare qualcosa di inaspettato dietro ogni angolo. Il Golem, forse.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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Nota: Epilogo dedicato alle mie polle che mi hanno sostenuta (?) nella sofferta stesura di questo capitolo finale, anche se a modo loro XD Ad Alektos, ladyhawke, Rowena, Erin, freddymercury e RobyLupin!



[ Epilogo - Český Krumlov ]


But if I crossed a million rivers
And I rode a million miles
Then I'd still be where I started

'Keep yourself alive', Queen

Rimaniamo immobili, lasciando che il vento freddo ci passi indisturbato tra i capelli, che giochi con le nostre vesti di tessuto pregiato e ci costringa a socchiudere gli occhi nella luce soffusa del primo mattino. Arroccato sulla cima di una collina, l'arco che dà sulla Città Vecchia di Český Krumlov è, finalmente, di fronte a noi. A separarci un piccolo ponte di pietra, una sottile linea di confine tra ciò che eravamo un tempo e l'ultima possibilità che ci rimane di redimerci, di pentirci, di cambiare e soccombere. Possiamo ancora voltarci indietro e andarcene, possiamo ancora decidere di ribellarci, possiamo ancora tendere alla salvezza. Non la sua, la nostra salvezza. La nostra egoistica, egocentrica, codarda salvezza. Eppure, anche se rimaniamo immobili uno di fianco all'altro senza guardarci, senza parlare, senza nemmeno intuire la sagoma scura dell'altro con la coda dell'occhio, sappiamo già che non lo faremo. Non ci salveremo, non grazieremo nessuno oggi, ma attraverseremo invece quel ponte, varcheremo quella porta e, ancora una volta, ubbidiremo.
«Sembra un bel posto» mormora appena Rodolphus, senza muovere un solo passo in direzione dell'arco.
«Per morire?»gli domando voltandomi a scrutarlo, vagamente infastidito.
Rodolphus replica semplicemente scrollando le spalle e si gira a sua volta a guardarmi, sorpreso dal mio tono inspiegabilmente stizzito. «Andiamo?» chiede a voce sempre bassa, quasi non volesse disturbare l'inquietante silenzio di questo luogo irreale. Lo dice continuando a stare fermo, immobile, una statua nel paesaggio spazzato dal vento. Ma almeno per questa volta non ho intenzione di dargliela vinta. Non sarò io a varcare quella soglia per primo, non sarò io a ripercorrere da solo quel corridoio sotto lo sguardo severo delle marionette, non sarò io a esporre il Marchio pulsante al tocco doloroso di un estraneo, non mi piegherò ancora al suo volere. Annuisco e gli faccio cenno con il capo di precedermi e quando Rodolphus muove i primi passi scuotendo lievemente la testa un pensiero improvviso mi colpisce: è un segno di coraggio il mio? Un segno di ribellione o di immaturità?
Quando mio fratello varca finalmente la porta della Città Vecchia, capisco che si tratta di vigliaccheria. Ho lasciato che scegliesse per me, che il compito di decidere delle nostre sorti fosse unicamente suo: ha scelto lui se proseguire o meno, se provare a cercare qualcosa che fosse ancora vagamente umano in noi o meno.
E Rodolphus, immancabilmente, ha scelto l'autodistruzione.

«Ho fame».
Mi appoggio stancamente al parapetto in legno del ponte. L’acqua scorre grigia sotto di noi, rapida e ignara. Alle mie spalle, Rodolphus tenta inutilmente di accendersi una sigaretta, impotente contro la forza costante del vento.
«Dannazione!»
Lo osservo con la coda dell’occhio mentre lascia scivolare l’accendino d’argento nella tasca della veste per poi estrarne la bacchetta per la punta, quanto basta per dar vita alla sigaretta babbana senza farsi notare da eventuali passanti, anche se sino ad ora, incredibilmente, non abbiamo ancora incontrato nessuno per le vie di Český Krumlov.
«Ho fame» ripete poi, dopo aver preso una prima, lunga boccata. «Andiamo, troviamo un pub».
«Come puoi voler mangiare adesso?!» sbotto voltandomi nella sua direzione, in modo che possa vedere tutto il disgusto dipinto sul mio volto. «Abbiamo appena ucciso un uomo!»
Rodolphus mi guarda impassibile, sbuffando una nuvoletta di fumo nell’aria e osservandola disperdersi immediatamente nel vento feroce.
«Forse è proprio per questo che voglio andare al pub. Forse non voglio solo mangiare».
Sorride beffardo e si avvia con passo misurato nella direzione opposta a quella da cui siamo venuti.
«Forse voglio anche bere».


«Sei sicuro che sia questa la via giusta?»
«C’è un’unica strada principale, Rabastan…» replica Rodolphus con tono sicuro, lanciando però una rapida occhiata alla cartina che stringe in mano. La pergamena immacolata che ci ha consegnato Radek a Malá Strana si è animata subito di nomi, vie e piazze al primo leggero tocco della bacchetta di mio fratello, quando ancora dovevamo raccogliere il coraggio di varcare l’arco d’ingresso del centro storico.
Český Krumlov ha una forma particolare e ostile. Si snoda tutta a partire da una ripida via di acciottolato grigio che percorre l’intero centro storico; dalla cima della collina, ai cui piedi si trova la città moderna, sino allo stretto impluvio in cui scorre il fiume e poi ancora in su verso una seconda collina. Deve aver piovuto di recente, perché ogni cosa è ricoperta da una sottile patina d’acqua rilucente.
«Come mai non c’è nessuno in questo posto?»
«Rabastan, rilassati per favore…» ma dal tono della sua voce capisco che anche lui è nervoso. Intorno a noi c’è un silenzio irreale, intaccato unicamente dal rumore soffocato del fiume che scorre in lontananza e dai nostri passi simultanei sull’acciottolato umido.
Camminiamo in silenzio per un po’, sino a raggiungere un ampio ponte interamente in legno che attraversa il fiume, sospeso a pochi metri dalla rapida corrente grigia dell’acqua. Mio fratello si ferma a metà per consultare ancora una volta la cartina.
«Siamo vicini, ormai» dice senza sollevare lo sguardo dalla pergamena «dovrebbe essere in cima a quella via». Finisce la sigaretta che sta fumando e la butta nel fiume in piena prima di tornare a camminare.
«Tieni» mi sussurra, tendendomi la mappa. «Per ricordo».
Risaliamo la collina per ritrovarci in una piccola piazzetta dalla forma irregolare, dominata alla nostra sinistra da un antico teatro dalla facciata elegante. La locandina dello spettacolo in cartellone è color verde acqua, a riprendere i toni dell’insegna del teatro stesso. Non ci sono immagini, solo un titolo a me incomprensibile e una data, quella di oggi. Provo a immaginare questa piazza alla sera, illuminata dai lampioni e dalle stelle, con la gente raggruppata in piccoli capannelli a chiacchierare animatamente prima dello spettacolo. È un’immagine allegra e serena, completamente in contrasto con la realtà silenziosa e immobile che mi circonda.
Quando finalmente distolgo lo sguardo dall’ingresso del teatro, Rodolphus non è più al mio fianco. È dall’altra parte della piazza, di fronte alla porta di una palazzina a due piani. Lo raggiungo e gli poso una mano sulla spalla, anche se non siamo abituati al contatto fisico, ai gesti fraterni. Lui attende un attimo prima di puntare la bacchetta contro il legno solido e scuro della porta.
«Alohomora».
Rodolphus fa per entrare, ma si volta prima a guardarmi, di tre quarti, senza dare completamente le spalle alla porta socchiusa.
«Rabastan…»
Mi sento come avvolto da uno strano torpore, come se una mano invisibile tenesse in pugno la mia mente, impedendomi di pensare con chiarezza.
«Rabastan?!»
La voce feroce di mio fratello mi riporta alla realtà.
«Sì?»
«La bacchetta! Tirala fuori, idiota!»
Ignorando l’insulto, obbedisco automaticamente. Estraggo la bacchetta dalla tasca della veste e seguo Rodolphus nel piccolo atrio semi oscuro della casa. Forse, in questo momento, non pensare è meglio. Forse, anche se solo per il momento, preferisco obbedire ciecamente.
A prima vista la casa sembra abbandonata; l’ingresso ed entrambe le stanze che vi si affacciano sono deserte, prive di mobili o di qualsiasi altro segno di vita. L’unica macchia di colore è un grande quadro alla nostra sinistra, dove un vecchio lord in vestaglia gioca una partita a scacchi da solo, contro se stesso. Vorrei avvicinarmi per osservarlo meglio quando Rodolphus, dopo aver controllato per sicurezza le altre stanze, mi supera puntandogli contro inspiegabilmente la sua bacchetta e portandosi un dito alle labbra.
«Rodolphus…» sussurro nella sua direzione.
«Potrebbe avvisare Karkaroff, potrebbe passare in un’altra cornice e…»
«Rodolphus, è un quadro babbano!»
Mio fratello si zittisce all’istante, stupito. Muove qualche altro passo verso il quadro sino a toccarne cautamente la tela con la punta della bacchetta. L’espressione del vecchio, colpito in pieno volto, non cambia, rimane impassibile, esprimendo la stessa identica concentrazione che assume invariabilmente da quando è stato dipinto chissà quanti anni, o decenni o secoli fa. Le dita della mano destra strette intorno ad un alfiere nero per il resto dell’eternità.
«Ehm, non lo avevo notato, è troppo buio qui…»
«Qualche incantesimo difensivo deve esserci sicuramente però, non può essere così semplice» commento, una tenue ombra di sorriso ad aleggiare sulle mie labbra alla vista della sua espressione imbarazzata. Nonostante l’ansia. Nonostante la paura e l’inquietudine.
Rodolphus volta le spalle al quadro ma, così come prima con la porta, non completamente, per osservare la ripida scalinata centrale in legno che porta al secondo piano.
«Lo scopriremo presto».

Le scale non emettono alcuno scricchiolio mentre le percorriamo circospetti, silenziose come qualsiasi altra cosa intorno a noi. Anche il gorgoglio continuo del fiume, ormai, è soltanto un ricordo.
Giunti in cima controlliamo una per una le stanze che si affacciano sul piccolo ballatoio, tutte immancabilmente vuote, ma in maniera diversa da come può essere vuota una casa abbandonata da tempo. Qui è molto difficile, impossibile quasi, immaginare che qualcuno possa mai aver vissuto tra queste mura.
«C’è qualcosa che non va Rodolphus, perché non c’è nulla? Nemmeno un banale incantesimo?»
«Igor non è mai stato particolarmente brillante…» commenta Rodolphus scrollando le spalle. Mi supera ancora una volta per dirigersi verso l’ultima stanza da controllare.
«Non dimenticare che è del Preside di Durmstrang che stiamo parlando…». Ho provato ad obbedire ciecamente, ma non riesco a non pensare a tutta la magia nera che deve conoscere Karkaroff.
Non riesco a non avere paura.
Ho appena pronunciato le ultime parole quando varchiamo la soglia dell’ultima, immensa stanza e lo vediamo. È bellissimo e indubbiamente molto prezioso. Alto, rettangolare, con una spessa cornice elaborata in oro massiccio. La superficie è liscia, perfetta, senza una sola macchia o un graffio, e riflette il resto della camera, vuota, e le nostre figure ammantate di nero, i nostri volti stupiti.
Ci muoviamo all’unisono verso lo specchio, poggiato precariamente a terra e contro il muro, nell’angolo più distante dalla porta.
Rodolphus osserva attentamente il proprio volto, come se lo vedesse per la prima volta da quando abbiamo lasciato Azkaban. Si avvicina sempre di più, toccandosi incredulo una delle guance tremendamente magre e scavate, gli occhi viola colmi di repulsione e disgusto.
«C’è qualcosa che non va, Rodolphus».
«Questo l’hai già detto, Rabastan» sbotta lui stizzito, ancora rapito dai suoi zigomi sporgenti, da come sembrano in procinto di bucare la sua pelle candida e fuoriuscire prepotentemente.
«Dico sul serio, Rodolphus!»
Mi guardo intorno e mi domando con stupore come ho fatto a non notare prima che, pur essendo totalmente privo di finestre, torce o marchingegni babbani, l’ambiente è illuminato a giorno.
La luce proviene direttamente dalla cornice dello specchio.
Mi volto nuovamente per farlo presente a mio fratello e nella frazione di secondo in cui tutto accade non posso far altro che osservare impotente. Rodolphus allunga la mano libera dalla bacchetta verso lo specchio e appena le sue dita ne sfiorano la superficie, inspira con ferocia una grande boccata d’aria, come un uomo che stia affogando in mare, in bilico sul filo della salvezza tra acqua e cielo. Il suo riflesso invece, assolutamente rilassato, sorride beffardo e in due soli passi è fuori dallo specchio, in carne ed ossa, faccia a faccia con mio fratello. Rodolphus emette un verso strozzato e alza automaticamente la bacchetta a toccare il petto della sua copia perfetta, che ancora imita in maniera eccezionale l’insopportabile ghigno che ho visto infinite volte sul suo volto.
Basta però un solo attimo di incredulità, un solo momento di esitazione da parte nostra e il nuovo Rodolphus tocca a sua volta lo specchio, facendone uscire un terzo, che tocca a sua volta lo specchio creando un quarto Rodolphus e così via, sino a che la stanza è invasa da decine di copie perfette di mio fratello, che si perde tra di essi senza che mi rimanga alcuna possibilità di riconoscerlo.
Esattamente come avevo pensato.
Igor Karkaroff è il preside di Durmstrang.

Abbiamo camminato a lungo per le strade di Český Krumlov in silenzio, senza alcuna meta. Più il pomeriggio scivola lentamente nella sera, più il vento si fa freddo, crudele, e la luce bassa insopportabile ai miei occhi.
La Città Vecchia è più grande di quanto pensassimo, gli stretti vicoli laterali più intricati di quanto non sembrassero questa mattina, quando eravamo guidati dalla mappa di Radek. Adesso che la pergamena ha preso fuoco, nel preciso istante in cui ho puntato la bacchetta contro Karkaroff e l’ho ucciso, assolvendo il nostro ed il suo compito, siamo liberi di percorrere queste vie senza dover seguire le sue indicazioni.
Siamo liberi e persi.
«Lo senti anche tu?» mi domanda Rodolphus, fermandosi d’improvviso ad annusare l’aria.
«Sì, lo sento».
«Luppolo. Pare che non abbiamo trovato solo un pub, fratellino, ma un’intera fabbrica» sorride soddisfatto, nascondendo le mani in tasca per ripararle dal freddo e proseguendo lungo la strada.
«Sei sicuro di volerlo fare, Rodolphus?»
«Non ho molta voglia di tornare subito a casa, Rabastan. E smettila di lamentarti per una volta, puoi farcela?!» sbotta stizzito, superandomi senza neanche guardarmi.
«Non sei stato tu a scagliare quella maledizione, Rodolphus!»
Immagino Igor Karkaroff quando raggiungerà la foce del fiume, o un altro corso d’acqua. Il suo cadavere gonfio, bluastro, gli occhi ancora sbarrati.
«No, infatti, sei stato tu, quindi? Ero abbastanza impegnato a uccidere me stesso, se ti ricordi!»
Per un attimo mi sento spiazzato, colpito a fondo dalle sue parole. Per la prima volta mi domando come deve essere stato per lui, combattere e veder polverizzarsi decine e decine di uomini con le sue stesse identiche fattezze, la sua stessa voce, i suoi stessi occhi, quando già per me è stato così orribile. Così innaturale.
Egocentricamente, non ci avevo ancora pensato.
Arriviamo in un largo spiazzo poco illuminato di fronte alla fabbrica di birra ed al pub che le sta affianco, ospitato da un fabbricato di pietra dall’aspetto severo.
Eggenberg , 1560.
«A proposito» prosegue Rodolphus, aprendo la porta del locale senza alcuna esitazione «dopo dobbiamo tornare a prenderlo».
«Cosa?» domando, abbandonando anche io i toni accesi della nostra breve discussione.
Mio fratello mi ignora e sale deciso una rampa di scale, attraversando poi un ampio corridoio che pare infinito. Alle pareti, a distanza regolare e incorniciate, sono appese delle pergamene. Attestazioni, sembrano, premi di qualità per la birra locale ed il pub pluricentenario.
«Cosa dobbiamo prendere?» domando ancora, temendo di conoscere già la risposta e stringendo con la mano la spalla ferita, quasi a volermi difendere dalle sue parole.
Rodolphus si dirige verso uno dei tavoli più distanti dall’ingresso e dal bancone e si siede, accavallando le gambe con aria rilassata prima di rispondere in tono piatto, casuale.
«Lo specchio».


In pochi secondi mi ritrovo a pensare mille cose: che dovrei provare a distruggere lo specchio, a riconoscere mio fratello, a trovare Karkaroff, ma bastano quei pochi secondi perché la battaglia abbia inizio e mi assorba, impedendomi di continuare a ragionare. Ogni Rodolphus nella stanza combatte animosamente contro le sue stesse copie, annullando anche le minime possibilità che avevo di individuare quello vero in mezzo al caos di urla e incantesimi che hanno rotto il silenzio irreale della casa, invadendo la stanza. Non mi resta che difendermi scagliando a mia volta raggi di luce rossa in ogni direzione, limitandomi agli Schiantesimi, attanagliato dalla paura di colpire il vero Rodolphus, una paura atavica, primaria, allo stato puro, che non avevo mai provato in vita mia.
Per ogni figura che cade a terra e si dissolve nell’aria con un piccolo sbuffo di fumo nero, un’altra esce dallo specchio, andando a prendere il suo posto in battaglia.
«Rodolphus!» grido con il poco fiato che ho in gola, sperando che possa sentirmi.
«Sono qui!» un coro di voci si alza all’unisono, senza smettere di combattere ogni suo sosia ripete contemporaneamente e insieme a lui le sue parole, facendole rimbombare sinistramente tra le pareti spoglie dell’ambiente.
Faccio per parlare ancora ma un fascio di luce improvviso mi fa cadere pesantemente a terra, lacerando la mia veste all’altezza della spalla destra. Continuo a scagliare incantesimi anche da terra, anche se sanguino, anche se non riesco a immaginare come potremmo mai salvarci da questa situazione assurda e lo vedo.
Karkaroff.
Il flusso di Rodolphus uscenti dallo specchio si è apparentemente arrestato e al suo posto è comparso lui. Igor Karkaroff. Metà del suo corpo invisibile, ancora al di là della superficie riflettente dello specchio e l’altra metà affacciata sulla stanza, le mani saldamente strette intorno alla cornice dorata dell’oggetto che, per il momento, gli sta salvando la vita. Si guarda intorno, aspettando l’attimo giusto per lanciarsi in mezzo ai maghi duellanti e scomparire ancora una volta, per chissà quanti altri mesi o anni.
«Rabastan!» si alza ancora una volta la voce orribilmente amplificata di Rodolphus, «Seguilo!»
Se non sarà un mostro con il volto di mio fratello a uccidermi, sarà l’Oscuro. È questo che mi spinge a fare come dice lui, abbandonandolo a combattere da solo come non mi sarei mai pensato capace di fare, non con così tanta semplicità almeno. Perché tanto anche per lui, se non morirà in questa stanza e se non giustizieremo Igor, sarà per mano dell’Oscuro.
Mi precipito verso la porta aprendomi la strada a spallate e scagliando maledizioni dietro la mia schiena. Continuo a lanciare Schiantesimi anche correndo giù per le scale, inseguito da una dozzina di sosia di mio fratello; ho appena raggiunto l’atrio quando un raggio di luce rossa mi sfiora una guancia e va ad infrangersi sul quadro. Ho giusto il tempo di notare il pezzo di tela mancante là dove l’incantesimo l’ha colpita, distruggendo l’alfiere e lasciando le dita del vecchio a stringere il vuoto, prima di ritrovarmi finalmente all’aria aperta. I Rodolphus mi raggiungono subito, costringendomi a continuare senza sosta la battaglia, e attraverso la porta aperta ne vedo altri accorrere giù per le scale.
«Stupeficium!»
Con la coda dell’occhio scorgo Karkaroff, è dall’altra parte della piazza, diretto alla ripida via che conduce a valle.
«Avada Kedavra!»
Ora che so che nessuno di loro può essere mio fratello, decido di essere più cattivo, semplicemente per sfogare meglio la rabbia, immagino, la mia paura e la mia frustrazione, stupito nel vederli ancora duellare tra di loro e sollevato invece nel notare che, finalmente, vanno diminuendo.
Oppure, non riesco a impedirmi di pensare, mi sto inconsciamente preparando al momento in cui dovrò tornare a scagliare la peggiore delle Maledizioni Senza Perdono contro un uomo realmente vivo, in carne ed ossa.
«Avada Kedavra! Avada Ke…»
«No!»
La loro voce si alza di nuovo, suonando incredibilmente diversa nell’aria fredda della piazzetta.
«Sono io!» urlano ancora all’unisono, a tratti sollevando le mani in segno di resa, a tratti ricominciando a combattere furiosamente, forzandomi a colpire ancora.
«Sono io!» ripetono, ma questa volta, mentre i duelli mortali proseguono intorno a me, mentre le loro mani destre si alzano verso il cielo come guidate da un unico burattinaio invisibile, questa volta lo riconosco.
Questa volta lo riconosco perché il vero Rodolphus, a differenza degli altri, stringe in pungo qualcosa.
All’inizio penso che sia l’accendino d’argento, che potrebbe essere proprio il mio regalo a salvargli la vita.
Ma non è così.
Il vero Rodolphus stringe in pungo il suo piccolo Golem.

Duelliamo ancora, lui sempre con la statuetta saldamente stretta in mano, e improvvisamente, con nostro stupore, la piazzetta rimane vuota, mentre l’ultima copia di mio fratello cade a terra e si dissolve.
Riusciamo appena a guardarci negli occhi, la sua espressione indecifrabile, prima che un rumore acuto proveniente dalla casa ci distragga.
«Ne arrivano ancora… Vai, Rabastan, vai!»
Gli volto le spalle e corro, corro senza pensare a niente, a Igor che si sarà già materializzato in qualche luogo sicuro, alla nauseante nuvoletta di fumo nero in cui svaniscono le sue creature, alla piccola statuina d’argilla. Nulla.
Arrivo in fondo alla discesa ansimando, completamente senza fiato. La spalla sanguinante pulsa dolorosamente sotto la stoffa lacera della veste. A pochi passi da me c’è il ponte e, in fondo al ponte, c’è Karkaroff, accasciato a terra con entrambe le mani a stringere il parapetto di legno.
Percorro la distanza che ci separa con estrema lentezza, guardingo, il rumore dei miei passi incerti annullato dallo scorrere deciso dell’acqua sotto di me. Sollevo la bacchetta puntandola contro la sua figura ricurva quando sono abbastanza vicino da poterlo colpire.
La prima cosa che noto è il candore assoluto delle sue nocche contratte, poi viene tutto il resto. Il volto incredibilmente più magro e scavato del mio, forse addirittura più di quello di Rodolphus. Gli occhi più grandi di quanto li ricordassi, iniettati di sangue, le pupille enormi. I capelli fradici di sudore. La pelle del volto chiazzata, a tratti giallognola, a tratti purpurea.
«Karkaroff».
E all’improvviso capisco perché non è ancora fuggito, perché rimane in ginocchio ai miei piedi tossendo sangue sul legno lucido d’acqua del ponte invece che svanire in un attimo di fronte ai miei occhi, smaterializzandosi. La latitanza lo ha consumato, prosciugandolo di ogni energia. La magia necessaria ad incantare lo specchio è stata il tocco finale.
Igor sta morendo.
Indipendentemente dalla mia bacchetta puntata contro di lui, dalle marionette di Rouven o dalle nostre settimane in questo Paese straniero.
Arti Oscure. Più è potente la magia, più è alto il prezzo da pagare, come illustrano alla perfezione le cicatrici di Radek, e nessuno tra noi Mangiamorte in questo ha mai avuto la resistenza fisica e mentale di Severus Piton, nemmeno, per mia fortuna, il preside di Durmstrang.
Karkaroff si porta una mano sul viso, a stringere tra le dita la radice del naso adunco, mantenendo però saldamente la presa sulla ringhiera con l’altra. Apre la bocca per dire qualcosa, ma la sua voce flebile è portata via dal vento.
«Come?» domando, senza mai abbassare lo sguardo.
«Ho detto che… sono felice che sia tu. E non lui…» accenna con il capo alla cima della piccola collina, dove immagino che Rodolphus stia ancora combattendo, ma non mi volto a guardare. La piazza del teatro, ad ogni modo, non è visibile da qui.
«Perché?»
Igor emette una breve risata strozzata, lasciando cadere a terra anche la seconda mano.
«Perché, nel caso non lo avessi ancora notato, tuo fratello è più crudele di te. Più vendicativo. Lui non mi avrebbe ucciso subito».
Attendo un istante prima di replicare, domandandomi silenziosamente di cosa dovrebbe mai vendicarsi Rodolphus con lui.
«Io non ti ho ancora ucciso».
«Lo farai presto».
Non aspetto altro. Non aspetto che mi guardi ancora negli occhi o che parli ancora a sproposito pensando di conoscere mio fratello meglio di me.
«Avada Kedavra!»
Il suo corpo scivola piano, silenzioso, il fianco sinistro poggiato contro il parapetto.
Gli occhi neri rimangono aperti, vuoti.
Lo osservo per un po’, la bacchetta ancora sospesa a mezz’aria, pronto per un attimo di realizzazione che non arriva, un momento di comprensione, della sua effettiva morte, del compimento finale del nostro compito, dell’ormai imminente ritorno a Londra, che però ancora mi sfugge.
Mi inginocchio di fronte a lui per iniziare a lavorare meccanicamente, come ai vecchi tempi. Cercherò la sua bacchetta tra le pieghe della veste troppo larga, per evitare che qualche babbano la trovi sul suo corpo e si domandi cosa sia. Poi farò comparire un coltello che userò per deturpare orribilmente il suo avambraccio sinistro, e il sangue, ancora per poco pulsante nelle vene, sgorgherà da quello che sino a poco fa era un Marchio Nero, cancellato adesso da una carne che, evidentemente, non era degna di indossarlo. Infine, farò levitare il suo cadavere caldo nelle acque gelide del fiume che lo porteranno via, lavando ogni traccia del nostro, mio, peccato.
Ma prima di fare tutto questo, mi viene in mente un’idea strana, bizzarra. Forse sciocca.
Infilo una mano in tasca e ne estraggo il mio Golem, il mio portafortuna. Lo infilo tra le sue dita sottili, chiudendovele intorno con un incantesimo perché non lo perdano una volta in acqua, il mio prezioso Golem. Inspiegabilmente, una mano a stringere la bacchetta, l’altra il pugno di Karkaroff, fatico a separarmene.
Non so quanto tempo sia passato, ma quando mi volto in direzione della collina Rodolphus è lì, dall’altra parte del ponte.
Non posso esserne certo, ma credo che mi stia osservando.

Il locale è ampio e poco illuminato, arredato in maniera spartana ma elegante con grandi tavoli e sedie in legno scuro e massiccio che contrastano con le pareti completamente bianche.
Se non fosse per due ragazzi seduti al bancone, saremmo ancora una volta soli. Hanno guardato incuriositi le nostre vesti quando siamo entrati, fissandoci più a lungo di quanto sarebbe opportuno.
«Bè, non c’è che dire, i premi sono proprio meritati» commenta Rodolphus, posando il boccale vuoto a metà strada tra i nostri piatti, entrambi a malapena toccati.
«Perché vuoi prendere quello specchio? Non può venirne nulla di buono…».
«Avevi mai visto una cosa simile prima d’ora, Rabastan? Lo porteremo all’Oscuro, e forse ci lascerà in pace per un po’…» replica lui, dando chiaramente poco credito alla sua stessa affermazione.
«Hai detto che le tue copie sono scomparse tutte insieme all’improvviso, Rodolphus. Sicuramente nel momento preciso in cui Igor…
è morto, come la mappa di Radek. È una prova che la magia nera veniva esclusivamente da lui, non dallo specchio. Scommetto che è pure babbano…».
«In ogni caso lo voglio» conclude lui in tono risolutivo, la fronte lievemente aggrottata a farmi intuire che non c’è alcuna possibilità che io riesca a fargli cambiare idea.
Lo osservo impugnare la forchetta e giocare distrattamente con il cibo che riempie ancora il suo piatto, così come nostra madre ci impediva di fare quando eravamo bambini. Il nostro tempo in questo Paese è praticamente finito, e quando torneremo a Londra non so di preciso cosa ci aspetti. Torneremo a nasconderci a Malfoy Manor, immagino, torneremo da sua moglie che detesto e che mi detesta. Sua moglie la cui pazzia è sotto gli occhi di tutti, il cui fanatismo in questi anni ad Azkaban non ha fatto che aumentare, mentre noi desideravamo semplicemente la morte.
Bellatrix che non parla e che non si fa toccare, mentre Narcissa si prende cura di suo marito.
«Mi hai mentito, Rodolphus» dico all’improvviso, senza una vera e propria ragione. Per rompere il silenzio.
Mio fratello distoglie lo sguardo dal piatto e mi fissa incredulo, chiaramente impreparato alle mie parole o al tono distaccato in cui le ho pronunciate.
«Che vuoi dire?»
«Avevi detto di aver rotto il tuo Golem. Non è così. Mi hai mentito».
Rodolphus aspetta qualche istante prima di lasciar cadere la forchetta che ancora stringeva in mano e scoppiare a ridere fragorosamente, facendo voltare per un istante i due ragazzi al bancone.
«E’ questo che ti turba, fratellino, dopo tutto quello che abbiamo passato in queste settimane, oggi, è questo che ti turba?»
«Perché lo hai fatto?»
«Non lo so. Mi andava semplicemente di dirlo».
Estrae una manciata di banconote babbane dalla tasca della veste, probabilmente troppe, e le posa sotto a uno degli innumerevoli boccali vuoti che costellano il nostro tavolo.
«Tu perché hai lasciato il tuo a Karkaroff?» domanda alzandosi e cominciando a camminare in direzione dell’uscita. Il cameriere che ci ha serviti non ci guarda nemmeno mentre scompariamo al di là della porta, inghiottiti dal corridoio e poi dalle scale e infine dalla sera che si è ormai fatta notte.
«Non lo so. Mi andava semplicemente di farlo» replico io, aspettandomi che da un momento all’altro lui si fermi alle mie spalle per accendersi una sigaretta, stringendo con forza l’accendino che gli ho regalato contro il vento che soffia ancora incessante. E infatti, immancabilmente, intuisco la piccola fiammella arancione con la coda dell’occhio.
Come possiamo essere così distanti quando, in realtà, ci conosciamo così bene in ogni gesto, in ogni espressione?
«Hai fatto bene, Rabastan. A lasciargli il Golem intendo» riprende a camminare passandosi una mano tra i capelli troppo lunghi, per toglierseli dagli occhi. «Ne avrà più bisogno lui di te, all’Inferno».
Sorrido. «Sei sempre così tragico, Rodolphus. Così teatrale».
«Lo so».
Svoltiamo un angolo e ci ritroviamo dove non ci saremmo mai aspettati: di fronte all’arco della Città Vecchia, a pochi passi da noi, liberi ma, forse, ancora persi.
Mio fratello guarda al di là dell’arco, verso i prati e le luci della città moderna, e poi alle nostre spalle, la via che riconduce al cuore antico di Český Krumlov, alla casa di Igor e allo specchio.
«Non sarebbe male, vero? Arredare un po’ la casa di Karkaroff e vivere qui. In mezzo a questa pace assoluta. Dimenticarci di Londra, della guerra, di tutto…»
«E Bellatrix?»
«Già, Bellatrix» sbuffa dopo una breve pausa. «Da quando ti preoccupi per lei?»
«Tu quando hai smesso, invece?» domando a bruciapelo,esattamente come quel giorno sulla Torre, un giorno che sembra lontano mille anni.
Rodolphus si volta a guardarmi di scatto, l’espressione furiosa del suo volto perfettamente distinguibile anche nella quasi totale oscurità. Sto per scusarmi con lui, forse per dirgli che riesco sempre a rovinare stupidamente ogni cosa, ma lui mi precede.
«Lascia perdere. Senti… vado io a prendere lo specchio, tu torna subito a Londra».
«Cosa? Perché? È pericoloso…».
«Non dire sciocchezze. L’hai detto tu stesso che ora che Karkaroff è morto è soltanto uno stupido specchio babbano. E poi l’Oscuro avrà sentito svanire il suo Marchio, si chiederà perché ci mettiamo tanto a tornare. Vai da lui a riferire».
«Ma…».
Rodolphus chiude gli occhi, portando una mano a massaggiarsi stancamente la fronte.
«Fallo e basta, Rabastan, per favore. Io ti raggiungerò subito dopo».
«D’accordo» mi arrendo,anche se restio ad accettare di separarci in questo modo, che possa finire tutto così. «Ma fai attenzione».
«Bene».
Butta a terra la sigaretta fumata a metà, spegnendola con il tacco della scarpa, e prima di andarsene e lasciarmi solo ai piedi dell’arco mi si avvicina per stringermi con forza la mano, posando l’altra sulla mia spalla dolorante e guardandomi intensamente negli occhi.
«Per te, fratellino. Per quando ci andrai tu all’Inferno».
Lo guardo allontanarsi nella notte e poi apro il palmo della mano.
È il suo Golem.

   
 
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