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Autore: La Matta    10/09/2010    2 recensioni
Prima di partire, Isildur si congeda da suo nipote, affidandogli il regno di Gondor e piantando assieme a lui l'Albero Bianco. Cosa gli dirà? Che emozioni si agitano nel petto di quest'uomo, quest'uomo che ha visto la battaglia di Barad-dur, che ha distrutto il Nemico e che infine è stato plagiato dal potere? Un ritratto di Isildur diverso da come molti lo immaginano. Un capitolo unico dove non è altro che un uomo, distrutto dalla stanchezza e dalle macchinazioni del fato.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il congedo di Isildur

IL CONGEDO DI ISILDUR

 

Isildur sospirò, appoggiandosi al parapetto di marmo.

Non poteva più restare a Minas Anor.

Non poteva vivere in quella città grandiosa, inondata dalla luce del sole, non poteva respirare nell’amata contrada di suo fratello minore. Ogni volta che passeggiava per i giardini della Torre, sentiva una dolorosa stretta al cuore, e rammentava il corpo devastato di Anàrion, ucciso nella piana di Gorgoroth, nella battaglia che aveva dato vita e speranza alla Terra di Mezzo. Rammentava il suo ardore, la sua giovinezza, la sua risata - oh, ricordo remoto di giorni più belli, in cui ancora tutto sembrava possibile!-, la sua espressione di malinconia celata, i suoi occhi profondi, che dicevano tutto ciò che lui non sapeva spiegare o non voleva ammettere.

Ogni volta che il signore di Gondor contemplava il suo regno, dalla svettante Torre del Sole Calante, si diceva che Anàrion era morto, pur avendo tutto il diritto alla vita. E lui, Isildur, lui era sopravvissuto, sopravvissuto a suo padre e a suo fratello, sopravvissuto per devastare il Nemico, sopravvissuto per condurre un’esistenza vuota.

Colpevole, abbassò lo sguardo verso la cittadella. Anche se ormai era notte, ribolliva di vita. Tutti erano pronti a dimenticare la morte e la distruzione, tutti volevano sperare, e ridere, e cantare, e vivere di nuovo, come se il brutto sogno si fosse finalmente concluso.

- Mio signore, cosa vi succede?-

Isildur si voltò di scatto, sorpreso dalla voce innocente di suo nipote, Meneldil, l’ultimo figlio di suo fratello. Quando si perde qualcuno di amato, a volte ci si ostina nel vedere il suo viso riflesso ovunque, si finisce per vedere i suoi figli come la sua immagine speculare. Per questo, anche se Meneldil non era per niente come suo padre, anche se aveva preso i capelli corvini della madre, anche se i suoi occhi erano luminosi come una giornata d’estate, anche se i suoi lineamenti non rispecchiavano quelli di Anàrion, per Isildur assomigliava al fratello perduto in maniera devastante, in maniera quasi insopportabile.

- Nulla.- rispose il signore di Gondor, passandosi una mano fra i capelli, prematuramente screziati di bianco – è che non riesco a togliermi dalla mente il ricordo della guerra. Mi sembra impossibile che tutto sia finito.-

Non era una vera menzogna. Ogni secondo vissuto dopo la caduta di Sauron, sembrava appestato ancora dalla sua malvagità. Mentre tutti gli altri avevano capito come andare avanti, come dimenticare, Isildur non ci riusciva. E, di notte, sognava gli eterni fuochi di Barad-dur, i campi di sangue della piana di Gorgoroth, si svegliava sudato, con gli occhi pieni dei cadaveri dei suoi uomini, col cuore oppresso da una sofferenza che non riusciva a comprendere.

La vita del signore di Gondor, da quel giorno, era divenuta semplicemente insopportabile.

Che affetti gli erano rimasti, in fondo?

Sua moglie, la donna che aveva sposato da giovane e che aveva dovuto trascurare, negli anni di guerra? I suoi figli, che erano cresciuti senza di lui, che aveva mandato lontano, ad Imladris, affinché fossero protetti dalle ultime rappresaglie, e che ancora lì vivevano, ormai dimentichi del padre mai conosciuto veramente?

Anàrion era stato l’unico familiare che davvero gli era sempre stato vicino. Maltrattati insieme dalle vicissitudini del fato, avevano sempre vissuto insieme, prima della caduta di Numenor, durante i tempestosi viaggi per mare, per il breve periodo di pace, la fondazione di Minas Ithil, caduta preda del Nemico, e di Minas Anor. Separati per breve tempo, si erano riuniti sul campo di battaglia. Avevano sconfitto Sauron alla Piana della Battaglia ma, durante l’assedio di Barad-dur, la sorte aveva deciso di separarli per sempre.

E ora Isildur viveva a Minas Anor, viveva e moriva giorno per giorno, trovava insopportabile la compagnia di chiunque, eccetto di quel silenzioso nipote, che sembrava portare un fardello paragonabile al suo.

- Meneldil…- mormorò Isildur, poggiando una mano robusta sulla spalla esile del ragazzo -… sii sempre un uomo d’onore, mantieni fede alle più antiche tradizioni della nostra stirpe, ma non arroccarti dietro ad esse. Circondati di pochi uomini meritevoli della tua fede, e segui i loro consigli ed i loro insegnamenti. Non affidarti unicamente all’ardore del nostro sangue, ma non diffidare dell’istinto, quando non sai come agire. Sii coerente con te stesso, non scendere a compromessi, ma prediligi sempre la via diplomatica, anche se a volte ti sembrerà uno spreco di tempo. Ma se lo scontro è predetto, non nasconderti dietro alla politica. Fortifica il tuo coraggio e scendi in campo. Non temere la morte, ma non temere neppure la vita, perché sono entrambe preziose compagne dei nostri giorni.-

Isildur tacque per un secondo, come sorpreso da quello sfogo di lucidità, da quel discorso che sentiva vero anche se non riusciva a riconoscere come proprio, da quegli insegnamenti che gli parevano giusti, anche se lui per primo non li aveva mai seguiti.

-… mio signore…- chiese Meneldil, con appena un filo di voce -… perché mi dite questo?-

- Perché stanotte, col favore delle tenebre, io partirò per non fare ritorno.-

Il ragazzo s’irrigidì, già partecipe di ciò che sarebbe successo

- E, Meneldil, tu mi succederai sul trono di Minas Anor, e dovrai governare più rettamente di come potrei fare io. Ricorda sempre da che sangue discendi, e rammenta il valore e l’integrità di tuo padre. Rammenta l’amore, di mio fratello, l’amore che lui provava verso ogni cosa vivente, vivi la vita che a lui è stata tolta.-

Meneldil chiuse gli occhi, appoggiandosi alla balaustra, sentendosi schiacciato da quella responsabilità, da quelle parole che gli impedivano di vivere una vita sua, che gli imponevano di essere all’altezza, quando lui proprio non si sentiva pronto.

- Dovete proprio andarvene, mio signore?- domandò, titubante.

Isildur rise, con amarezza, scompigliandogli i capelli corvini

- Sì, devo.- disse – Perché qui non troverò pace e non la darò ad altri. Perché qui posso solo distruggermi lentamente, quando spero che altrove le mie pene si attenueranno. Cercherò un luogo desolato, dove deporre le armi, dove dimenticare ogni cosa.-

Meneldil sospirò, annuendo col capo.

- Vi auguro di trovare ciò che state cercando, mio signore.- riuscì a dire.

- Non avere paura del futuro.- lo rincuorò Isildur, che non sapeva rincuorare sé stesso – le mura sono alte e il pericolo scongiurato. Il Nemico è sconfitto e la pace vivrà assieme al tuo popolo. Lontani sono i giorni in cui la sofferenza è stata padrona di queste contrade.-

Mai abbastanza lontani, tuttavia. E il peso dell’Unico Anello, portato in un sacchetto di cuoio appeso al collo, sembrava ricordare ad Isildur che ogni giorno portava ancora le cicatrici di quella malvagità, che un giorno sarebbe risorta, più potente, più agguerrita.

- Vieni con me, Meneldil. Ti mostrerò ciò che intendo dire.-

Poi, con un gesto di confidenza che non aveva più concesso a nessuno da tempo immemore, il signore di Gondor prese il nipote per mano e lo condusse ai piedi della torre, dove si estendeva un cortile di pietra al cui centro, per ordine di Isildur stesso, si era ritagliato un riquadro di terra. Inginocchiandosi davanti ad esso, l’uomo estrasse un sacchetto dalla tasca del mantello.

- Questo – disse a Meneldil, estraendo un germoglio – è ciò che resta dell’Albero Bianco di Minas Ithil. La sorte dell’Albero è sempre stata la sorte di coloro che lo coltivavano. Quando il Nemico distrusse la mia città, io riuscii a fuggire e portai con me questa gemma. Ora l’affido a te, l’affido a questa città, in memoria di mio fratello e dell’amore che ha dato a Minas Anor, dal giorno in cui l’ha fondata, al giorno in cui le ha dato l’ultimo addio.-

Parlando, Isildur fece scivolare il germoglio nella terra umida.

Prese una mano al nipote e la pose sul terreno.

Assieme, piantarono il germoglio nel mezzo del cortile, e un singolo raggio di luce argentea balenò attorno ad esso. Per un singolo istante, Isildur seppe che Minas Anor sarebbe sopravvissuta a tutto. Che un giorno il Nemico avrebbe di nuovo tentato di piegarla, ma lei avrebbe resistito. Seppe che la città di suo fratello sarebbe vissuta per sempre, ergendosi a baluardo, in memoria delle guerre passate.

Prima che tutto tornasse buio, Isildur ebbe una fugace visione di Minas Tirith.

Baciò il nipote sulla fronte e poi, senza parlare, si allontanò, nel buio della notte.

Da solo, col cuore pieno di amarezza ma illuminato da una flebile speranza, s’incamminò verso una meta che a lui stesso era sconosciuta.

Senza saperlo, s’incamminò verso la fine, verso il Disastro ai Campi Iridati.

E, forse, in quell’ultimo istante, quando l’Unico Anello gli scivolò dal dito, forse allora ritrovò un frammento di pace, sapendo che il suo cuore corrotto aveva potuto dare ancora un po’ d’amore, prima di piombare definitivamente nell’oblio.

 

FINE

 

La Coda

 

Alcune precisazioni vanno fatte.

Ho cercato di essere fedele al testo del Silmarillion (che comunque non dice poi così tanto), ma alcune modifiche le ho apportate.

Infatti Isildur partì da Minas Anor assieme ai tre figli maggiori (uccisi anch’essi ai Campi Iridati) e ad un drappello di guardie, ma questo non si confaceva al significato che volevo dare alla partenza.

Spero che questa shot vi faccia pensare ad Isildur, almeno un po’, come ad un uomo, ad un uomo che ha fatto un errore che molti avrebbero commesso, ad un uomo distrutto dopo le prove che la vita gli ha messo davanti.

 

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