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Autore: Cialy    15/10/2010    9 recensioni
Non gli importa quanta gente potrà dirgli che Sherlock Holmes è qualcuno da cui stare il più lontano possibile, John è semplicemente già certo che non seguirà quei consigli.
[leggero Sherlock/John; serie di drabble sulla loro convivenza.]
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• Dedicata, in ogni sua singola parola, alla lovva Ruka. ♥
• Ambientate random e senza un ordine cronologico nelle tre puntate della stagione. L’ultima è l’unica post 1x03 e quindi vagamente what if. \o/



Frammenti di una convivenza


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Osservando l’appartamento di Baker Street, la prima cosa che a John salta agli occhi è il modo in cui la roba di Sherlock ha invaso ogni superficie disponibile, travolgendo la sua fino a farla quasi scomparire. Impiega secoli a trovare qualcosa e, se vuole che i propri averi rimangano in vista per più di cinque minuti, tutto ciò che può fare e trascinarseli in camera da letto, dove l’altro – ancora – non è arrivato.

Pensandoci con attenzione, il modo in cui le cose di Sherlock hanno inglobato tutto il resto gli sembra spaventosamente simile a ciò che è accaduto alla propria vita, a sua volta inglobata in quella dell’investigatore. Pensandoci con attenzione, niente di questo lo infastidisce realmente.


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La stanza completamente buia è rischiarata solamente dalle luci di Londra che filtrano dall’esterno. Sherlock è seduto sulla sua poltrona, le gambe stese dritte davanti a sé, incrociate alle caviglie, e una tazzina di tè tra le mani.

“Che stai facendo?” gli domanda John avvicinandosi, vagamente confuso. “Lestrade ti ha convocato.”

“Bevo il tè,” è la semplice risposta dell’altro, “Lestrade può aspettare.” Tiene gli occhi chiusi finché non ha ingoiato fino all’ultimo sorso e John si ritrova quasi ipnotizzato dal movimento e dalla calma che ristagna nella stanza, dalle lunghe dita affusolate strette attorno al piccolo manico.

Poi, all’improvviso, Sherlock si rimette in azione: riapre gli occhi, appoggia la tazzina sul vassoio e si alza in piedi, già dirigendosi verso l’attaccapanni e l’ingresso. “Andiamo,” si limita ad ordinare.

John impiega qualche secondo in più a riprendersi da quell’immobilità, perso nella realizzazione di ciò che si è trovato ad osservare – del momento di pausa che l’investigatore si è concesso, qualcosa che si potrebbe definire intimo, quasi, qualcosa a cui non a tutti è dato assistere. È con un mezzo sorriso di compiacimento dovuto all’idea di essere uno dei pochi a cui è permesso che si avvia dietro di lui.


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“Hai ucciso un uomo per salvarmi,” dice Sherlock all’improvviso nel mezzo della cena, fissandolo attentamente dall’altro lato del tavolo. John ingoia faticosamente il proprio boccone di cibo e, lentamente, annuisce.

“Ho ucciso molti uomini,” comincia, ricambiando il suo sguardo. “E, come mi hai fatto notare, per motivi decisamente più stupidi quali l’invasione dell’Afghanistan.” Accenna un sorriso e spera che l’altro colga la battuta, che finalmente si rilassi, che smetta di osservarlo al pari di uno strano puzzle da risolvere.

Ma la sua espressione non muta e a Watson sembra sul punto di dire qualcosa. Invece, all’ultimo istante, Sherlock ci ripensa e abbassa lo sguardo sul proprio piatto ancora integro. Quando torna a guardarlo, sposta rapidamente la conversazione su un altro argomento.

Nonostante ciò, John il suo ringraziamento l’ha compreso lo stesso.


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Sherlock Holmes non mangia. Ha trascorso poco più di una settimana nell’appartamento di Baker Street, quando John inizia a notarlo, a prestare inconsciamente attenzione ai piatti rimasti intatti, al cibo ancora lì dove l’aveva posato.

Così prende l’abitudine di preoccuparsi per questo. Gli lascia sempre qualcosa da mangiare prima di uscire per il lavoro o andare da Sarah, ordina per lui quando cenano fuori e bada a riempire il frigorifero, se non completamente, almeno con il minimo necessario.

Eppure, le uniche volte che lo vede mangiare davvero rimangono quelle in cui anche lui è lì, seduto sulla poltrona di fronte nel salotto dell’appartamento. John si dice che è solo per il bene dell’amico se lascia che quelle occasioni diventino via via più frequenti.


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Il violino non gli dà affatto fastidio, scopre nei primi mesi di convivenza, così come non lo annoia il generale silenzio in cui l’appartamento è immerso, o le sparizioni improvvise del suo coinquilino.

Col tempo, smette di sconvolgerlo persino la presenza di vari organi umani congelati nel freezer o le altre mille follie a cui Sherlock lo sottopone e, quando se ne rende conto, John se lo spiega con il suo essere un ex-soldato, con la capacità di adattamento sviluppata durante la guerra.

Ma la verità è che sta tutto nell’affetto che ormai distintamente prova – per il 221B di Baker Street e per Sherlock stesso, forse anche per tutte quelle stranezze di cui la sua vita, adesso, è costellata.


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Sul pianerottolo antistante la porta d’ingresso, mentre John lo sta già salutando, Mycroft si volta a fronteggiarlo.

“Penso che tu gli faccia del bene,” dice in tono serio, un semplice gesto del capo ad indicare l’oggetto della sua frase.

John lancia un’occhiata indietro al di sopra della propria spalla, verso Sherlock ancora seduto corrucciato sulla poltrona, con il violino tra le mani, e sorride. “A vederlo così non si direbbe.”

Mycroft si limita a guardarlo con indulgenza, quasi fosse anche lui un fratello minore testardo, poi gli stringe la mano e si avvia verso le scale.


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“Ascolti, Mrs. Hudson,” si ritrova a ripetere John per l’ennesima volta. “Io e Sherlock siamo solo amici.”

“Colleghi!” precisa l’investigatore, seduto sul divano alle sue spalle.

Watson chiude gli occhi ed espira spazientito. “Amici,” ribadisce.

Mrs. Hudson sposta lo sguardo dall’uno all’altro, visibilmente confusa, poi sorride gioviale e, “Certo, caro, come preferisci,” replica; diventa inaspettatamente veloce a raccogliere il vassoio del tè depositato lì al mattino e ad uscire dall’appartamento.

Il dottore si rivolge allora verso Sherlock e, come incerto per quella vittoria troppo facile, ripete nuovamente: “Amici.”

Questa volta, l’altro non ribatte, limitandosi a sollevare l’angolo della bocca in un mezzo sorriso divertito.


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Non gli importa quanta gente potrà dirgli che Sherlock Holmes è qualcuno da cui stare il più lontano possibile, John è semplicemente già certo che non seguirà quei consigli.

Forse perché lo ritiene una persona interessante, sopra ogni cosa, forse perché l’investigatore e la sua vita frenetica, sempre sul filo del rasoio, sono esattamente ciò di cui aveva bisogno. Forse perché all’altro si è sentito immediatamente legato, forse perché le loro esistenze sono ormai intrecciate e confuse tra loro.

La motivazione, ai suoi occhi, non è rilevante: ciò che sa è che non conta quante volte rischierà la pelle, quante sarà messo in pericolo, quante l’altro lo farà sentire un inetto, lui continuerà sempre a tornare al 221B di Baker Street, al fianco di Sherlock Holmes.


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La pericolosità di Moriarty non la stabilisce in base a quanti e quali casi portano la sua firma, né per come la sua figura sia avvolta nel mistero.

La percepisce per l’agitazione che il suo solo nome provoca in Sherlock, per il modo in cui l’uomo si tende, si fa attento, ne risulta intrigato, quasi intimorito. È questo che, agli occhi di John, conta più di ogni altra cosa ed è questo che davvero lo spaventa.


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“Parli troppo di me, nel tuo blog,” commenta Sherlock in piedi dietro di lui, occhieggiando lo schermo del computer portatile su cui Watson sta scrivendo.

L’altro si limita a scrollare le spalle e, “Racconto solo ciò che mi succede,” replica.

“Allora ti succedono un sacco di cose che riguardano me.”

John aggrotta la fronte e si volta a guardarlo, cercando di capire se la sfumatura nascosta nel suo tono di voce sia fastidio o chissà cosa; la sua espressione però si rivela seria, attenta, e, come il novanta percento delle volte, i suoi modi iniziano a confonderlo.

“Beh,” fa per spiegare, agitando una mano in aria ad indicare qualcosa di indefinito, “viviamo insieme, risolviamo casi insieme… facciamo un sacco di cose insieme, a dirla tutta.”

Sherlock lo osserva ancora per alcuni momenti, come se stesse cercando disperatamente di capire o intuire qualcosa, e John non può evitare di cominciare a sentirsi a disagio. “Pensi che questo sia un problema?” domanda.

“No,” mormora l’investigatore, poi, la voce un po’ più sicura, ripete: “No, assolutamente.”

Il resto del pomeriggio lo trascorre suonando il violino in salotto, come tutte le volte che qualcosa gli dà pensiero.


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“Ti sottovaluti, John,” comincia Sherlock, “pensa solo al caso del tassista. Senza di te avrei potuto--”

“Avevi detto che non avresti preso quella pillola,” lo interrompe l’altro, guardandolo torvo, e l’investigatore scuote la testa, come se non avesse importanza.

“Voglio dire che la tua presenza è…”

“Utile?” lo interrompe nuovamente, sospirando di fronte a quello che reputa un malriuscito tentativo di consolarlo.

“Stavo per dire essenziale,” conclude invece Sherlock e nella sua espressione non c’è assolutamente nulla che faccia pensare che lo stia prendendo in giro.

John resta interdetto per qualche ulteriore istante, poi sorride.


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Sherlock sa con certezza che John ha ormai sviluppato un certo talento nell’individuare le sue bugie, per questo, quando il dottore gli domanda cosa pensa di Sarah, cerca di evidenziare solo i tratti migliori che ha notato nella donna.

Tuttavia, aggiungere l’ultima frase – quella che sa perfettamente John vuole sentirsi dire – richiede uno sforzo particolarmente grande per apparire sincero.

“Immagino di essere contento per voi,” dice, sostenendo il suo sguardo un momento in più del necessario. Fortunatamente, a John questa menzogna sembra sfuggire.


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“È così che fai? È così che tratti le persone che ci tengono a te?” domanda Watson, forse più irritato di quanto dovrebbe, appena Molly si è chiusa la porta del laboratorio alle spalle.

Sherlock solleva gli occhi dal microscopio e lo guarda attentamente, inchiodandolo per un istante. La sua risposta è lenta e chiara: “Solo quelle di cui non mi importa davvero.”

A John lascia la sensazione di aver tirato in ballo una questione che non è ancora certo di voler approfondire.


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Il suo coinquilino sembra non avere alcun problema all’idea che lui passi la notte fuori, a dormire a casa di Sarah, celando qualsiasi reazione dietro un’abbondante dose di indifferenza sull’argomento.

Tuttavia a John riesce difficile non notare come, nelle mattine in cui invece si sveglia a Baker Street, l’uomo lo accolga a colazione con un sorriso di cui, le altre volte, non c’è alcuna traccia.


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Dopo mesi e mesi di convivenza, John ritiene di essere riuscito a capire Sherlock Holmes solo in parte, perché l’uomo gli sembra un forziere chiuso ermeticamente che nessuna chiave potrà mai aprire.

Vorrebbe trovarsi nella sua testa, a volte, così da cominciare a comprenderlo davvero, magari arrivare addirittura a comprenderlo alla perfezione.

Poi, ci sono altre volte in cui i loro sguardi si incrociano e l’intesa che ne emerge è assoluta, spaventosa. Quelle volte, a John sembra che ciò che capisce sia abbastanza.


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In taxi, dopo aver riaccompagnato Sarah a casa, Sherlock gli dice: “Se dopo essere stato rapito da un’organizzazione criminale cinese vuoi mettere fine ad ogni nostra collaborazione, sappi che lo capisco.”

Tiene gli occhi incollati al finestrino e John resta un attimo stupito, e allo stesso tempo incuriosito, dall’improvvisa preoccupazione che traspare dal suo tono.

“Non voglio,” replica, dopo appena un attimo di esitazione, e, quando l’altro si gira a guardarlo per accertarsi che non stia mentendo, gli sorride rassicurante.

L’apprensione scompare immediatamente dal volto di Sherlock, che ricambia il sorriso e annuisce, “Bene.”


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L’abituarsi all’assenza del bastone è più facile di quanto John avesse creduto e, in realtà, non ha nemmeno il tempo di realizzarlo a tutti gli effetti che si ritrova a correre per Londra come se non avesse mai fatto altro nella vita.

In seguito, immagina che avrebbe dovuto dare ragione alla sua analista e a Sherlock stesso, ma la cosa ha già perso ogni importanza. Tutto ciò che può fare è ammettere che sì, Sherlock Holmes è davvero la scossa di cui la propria vita aveva bisogno.


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Davanti a John, a Sherlock piace mettersi in mostra, elencare tutte le sue deduzioni, spiegare fin nel dettaglio come è giunto a determinate conclusioni; gli piace esibire le proprie conoscenze, elevarsi al di sopra della massa e lasciare che l’altro percepisca la sua superiorità.

Ciò che gli piace in particolare, però, sono i sorrisi ammirati con cui le sue parole vengono accolte, lo stupore che campeggia negli occhi del dottore e i complimenti che lui – probabilmente il primo al mondo a farlo – gli rivolge.


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Col passare delle settimane, i suoi incubi smettono di riguardare le scene di guerra che ha vissuto, i soldati che non ha salvato, il rumore delle bombe non troppo lontane che colpivano il suolo, e cominciano a girare intorno a cruenti omicidi, rapimenti da parte di organizzazioni criminali, furti di incredibili gioielli, uomini giganti le cui mani si stringono attorno alla sua gola e Sherlock Holmes, Sherlock Holmes al centro di tutto.

Per quanto folle possa sembrare – forse il suo coinquilino l’ha contagiato più di quanto crede – John lo ritiene comunque un miglioramento.


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Nel salotto buio di Baker Street, John non riesce a ricordare come, esattamente, abbiano fatto a scampare all’esplosione e a tornare a casa; ha coscienza solo delle linee tese sul volto di Sherlock e della sua vicinanza.

“Sono solo…” comincia l’investigatore, evitando il suo sguardo, “contento che ce l’abbiamo fatta.”

John solleva una mano in un gesto che sa di tentativo e gliel’appoggia sul braccio. “Anch’io,” replica e accenna un sorriso.

Ma in realtà, le parole che entrambi vorrebbero pronunciare sono ben altre.

  
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