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Autore: Panenutella    24/11/2010    7 recensioni
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
ATTENZIONE: la protagonista interpreta il ruolo della figlia di Galadriel – ovviamente inventata da me -, Hery, che ha una storia d’amore con Legolas e segue i protagonisti nel loro viaggio.
La maggior parte degli avvenimenti narrati in questa fic sono realmente accaduti, ma sono raccontati dal POV della protagonista.
Divertitevi, leggete e recensite in tanti! :)
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lesley's World'
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La mia vita sul set - Cap. 1

Guardando fuori dal finestrino dell’aereo, non riuscivo a non pensare alla telefonata che avevo ricevuto la sera prima dalla Nuova Zelanda.

Stavo preparando le valigie per tornare a casa, in America, con una laurea in recitazione in tasca e un biglietto aereo Oxford – New York in tasca, quando il mio telefonino cominciò a squillare. In mezzo a quel casino di vestiti che era la mia stanza, ci sarebbe voluta un’eternità per trovarlo… fortuna che avevo una co-inquilina infallibile.

- Jess! Non trovo il telefono! – u rlai al disopra della musica a palla. Jessy, la mia migliore amica dalle elementari, entrò nella stanza, tuffò una mano dentro una piramide di magliette e me lo lanciò, il tutto senza smettere di sgranocchiare patatine. Il telefono squillava ancora, per fortuna, e risposi al volo, senza guardare il numero.

- Lesley Dalton? – gracchiò una voce dall’altra parte. Sembrava lontanissima e la linea era un po’ disturbata. – Sono Peter Jackson, un regista, e possiamo darci del tu. – Non si fermava ai convenzionali, a quanto pareva. – Ho bisogno di te. Vorresti una parte  di Hery nel Signore degli Anelli?

- Stai offrendo la parte della figlia di Galadriel ad una appena laureata all’Accademia di Recitazione di Oxford? – chiesi, non credendo alle mie orecchie. Peter annuì.

- Sir Ian Holm mi ha detto ottime cose su di te e mi ha fatto avere il tuo curriculum. Per favore. Abbiamo un bisogno disperato di una come te. Hai cinque minuti per pensarci.

- Partecipa anche zio Ian? Peter, ho già la valigia pronta. Dammi il tempo di avvertire l’aeroporto e i miei genitori e salgo sull’aereo.

Ed ora eccomi, quasi arrivata in Nuova Zelanda neanche un giorno dopo. Una hostess mi si avvicinò e mi disse di allacciare le cinture per l’atterraggio.

Scesi dall’aereo totalmente in balia del fuso orario e del mio scarso senso d’orientamento. Se per caso avevo dormito, sarà stato per un’oretta scarsa. Sommato alla baldoria fatta la notte prima per festeggiare il diploma ottenuto e la fine della scuola, facevano quasi 48 ore di veglia. Decisamente troppo, per una ragazza di 17 anni e, soprattutto, per me.

Chiesi ad un funzionario la strada per il ritiro dei bagagli e lui, gentilissimo, mi scortò fino al posto giusto. Mentre spettavo le mie uniche due valigie, ripensai alle parole di Peter: “All’uscita dell’aeroporto troverai Barrie Osborne. Ti accompagnerà lui negli Studio. Non ti preoccupare”.

Facile per lui, non ti preoccupare! Spaesata, attraversai le porte dell’aeroporto e mi guardai intorno, strizzando gli occhi per adattarli alla luce del Sole. E un nuovo problema mi venne in mente: COM’ERA FATTO Barrie Osborne? C’erano almeno quarantatre uomini all’uscita dell’aeroporto che avrebbero potuto chiamarsi in quel modo.

Sbuffando, mi lasciai cadere su una panchina, tirando fuori dalla tasca della felpa il libro di Sudoku comprato la sera prima in aeroporto e ormai quasi finito. Appena presi in mano la penna, sentii un rumore di ruote frenate di colpo, poi lo sbattere di una portiera. Dopo circa dieci secondi, qualcuno disse:

- Mi scusi, è lei Lesley Dalton? – alzai gli occhi e annuii, trovandomi di fronte ad un uomo con i capelli grigi e gli occhiali.

- Barrie Osborne? – risposi. Lui sorrise.

- Perdoni il ritardo, signorina Dalton, ma la macchina mi ha piantato a metà strada. Ho dovuto spingerla fino ad un benzinaio.

- Non si preoccupi. Ma gli unici che mi chiamano signorina sono…. Uhm… nessuno. – dissi mentre ci stringevamo la mano. – La prego, signor Osborne, mi dia del tu.

- Lo stesso vale per te, allora – rispose. Senza aggiungere altro, prese le valigie e le caricò nel portabagagli dell’auto. Poi, da perfetto gentiluomo, mi aprì la portiera.

Durante il viaggio io e Barrie non parlammo molto. Lui mi chiese qualche informazione su di me, e io gli risposi di buon grado, ma ero troppo stanca per mettere insieme un discorso abbastanza sensato. Mi chiese com’era Oxford e se ero inglese. Risposi che ero inglese d’origine, ma la mia famiglia si era trasferita a New York l’anno prima per motivi di lavoro. Poi, dopo circa mezz’ora, mentre io scrutavo quello spettacolo di incontaminata natura che era la Nuova Zelanda, Barrie mi lanciò un’occhiata in tralice e mi chiese:

- Perché hai l’aria così stanca? – Io lo guardai, a metà tra il sorpreso e il divertito.

- Perché ieri notte io e i miei compagni di scuola abbiamo fatto una festa per il diploma che è finita all’alba e quindi avrò dormito sì e no due ore, perché poi ho dovuto cominciare a farmi le valigie per tornare a casa ma Peter mi ha chiamato e sono dovuta salire sull’aereo… e non ho dormito, perché ero troppo eccitata.

- Beh, se vuoi, puoi dormire adesso. – Sul mio viso apparve un’ombra di sorriso.

- Sei sicuro? – chiesi titubante. – Non ti sembrerò maleducata o viziata?

Barrie scoppiò a ridere, pur mantenendo gli occhi fissi sull’autostrada.

- Ti sveglio quando mancano cinque minuti, ok?

Non lo ringraziai neanche, non feci in tempo. Mi addormentai come un sasso, caddi in un sonno talmente profondo da sembrare quasi comatoso. Non mi avrebbero svegliato nemmeno la Terza e la Quarta Guerra Mondiale.

 

Come promesso, Barrie mi svegliò quando ancora dovevamo arrivare. Io, abituata a venire svegliata anche solo ad un piccolo colpo di tosse – quasi sempre appartenente al professor Fitzerbert, mio vecchio insegnante di Storia della Recitazione  -, sobbalzai al piccolo colpetto che Barrie mi diede sul braccio. Sbadigliando, allungai le gambe e gli addominali, mentre Barrie, ridacchiando, mi raccontava di come non si era accorto che mi ero addormentata. Gli prestai poca attenzione, persa com’ero ad ammirare la Nuova Zelanda. In giro non c’era neanche una piccola strada asfaltata e, a giudicare dal panorama, avevamo abbandonato l’autostrada da un po’ di tempo. Ora stavamo procedendo su una via sterrata, immersa in vastissimi campi di grano. Sullo sfondo, montagne con le vette innevate si innalzavano imponenti, e il Sole brillava su tutto ciò conferendogli colori talmente brillanti da sembrare quasi fasulli. A volte, uno stormo di uccelli attraversava il cielo in file ordinate, facendosi trasportare dal vento che muoveva le spighe di grano come una madre fa con la culla del proprio figlio.

- Sei sicuro che gli Studio siano qui? Disseminati in mezzo a questo spettacolo?

Barrie rise.

- Certo che sono sicuro! Quelli laggiù – e indicò un gruppo di camper e roulotte. – sono gli Studio. E tu, Lesley Dalton, stai per conoscere i tuoi colleghi. Sei molto simpatica, Lesley, non ci metterai molto a farti degli amici.

Fermò la macchina in mezzo ad un grande prato, mi fece scendere e mi accompagnò davanti ad una roulotte. Sopra la porta c’era scritto “D – Trucco”.

Entrammo, e Barrie disse:

- Pete, ecco la nostra salvezza.

- Lesley! Esclamò un uomo venendomi incontro. Era piuttosto panciuto e aveva i capelli crespi e ricci sulla testa. Aveva l’espressione di gioia e vitalità che ha un bambino quando, la mattina di Natale, si alza e sotto l’albero trova una bicicletta rossa. Senza dubbio era Peter Jackson, il regista. Mi strinse in un caloroso abbraccio, mentre esclamava:

- Benvenuta! Benvenuta! Grazie per essere qui! Ti presenteremo gli altri attori stasera, va bene?

Annuii, troppo imbarazzata ed emozionata per pronunciare parola.

- Strepitoso! Bene, bene! Allora ti lascio nelle mani di questa tizia qui!

- Tizia? – gli urlai dietro mentre, con Barrie, usciva. Si allontanò ridendo.

Perplessa, mi girai e osservai la roulotte. Dentro c’erano molti scaffali, sui quali erano appoggiati dei piedi e delle orecchie di lattice. Alle pareti c’erano alti specchi, molto illuminati, sui quali erano attaccate alcune foto. Poi c’erano delle poltrone di pelle nera. Nel mezzo della scena c’era colei che Peter aveva definito – spero scherzosamente – “tizia”. Mi avvicinai per stringerle la mano mormorando il mio nome. La donna sorrise, stringendola.

- Spaesata, eh? Ti senti fragile, vero?

- Non sai quanto  - sussurrai fissandomi la punta delle scarpe.

- Non preoccuparti, passerà molto presto. Io sono Emma. Dunque, qui ci sono i trucchi, poi le parrucche, ma tu non ne avrai bisogno ( a proposito, hai dei capelli davvero meravigliosi! Colore naturale?)… poi si va per la sala costumi, invece da quella parte…

 

Dopo avermi mostrato tutti i segreti e i particolari degli Studio – evitando accuratamente la sala mensa, non so perché – Emma mi spinse dentro uno stanzone enorme, pieno di attrezzi da palestra. All’interno trovai un uomo con in mano una spada, e lungo i muri tantissimi uomini, tutti alti e possenti. L’uomo che stava al centro, con indosso una tuta da ginnastica, mi si avvicinò e mi porse una spada, senza dire una parola. Incerta, la afferrai, rendendomi conto di quanto pesasse. Lui si allontano di qualche passo, e mi urlò:

- Bene, piccola Lesley! Io sono Bob, e ora combattiamo! ATTACCATELA!

Tutti gli uomini cominciarono a corrermi addosso brandendo spade stranissime, urlando e guardandomi con aria feroce. Mi coprii gli occhi con una mano, mentre sentivo i passi degli stuntmen che si avvicinavano… finché si fermarono ad un tratto.

- Li vedi questi, Lesley? – mi chiese Bob. Io sbirciai fra le dita. Gli stunt ridacchiavano tra di loro. Ecco. Prima figura dell’idiota della giornata.

- S- sì.

- Bene. Dovrai imparare a difenderti da loro. Cominciamo?

 

Passai le ore seguenti sotto la tutela di Bob e dei suoi assistenti, mentre Emma mi guardava dagli spalti ridacchiando. Bob, scoprii in seguito, era l’insegnante di scherma del cast. Dopo averlo capito, lo presi in simpatia e mi fu più facile imparare le mosse: mi insegnò la posizione di difesa, di attacco, accennammo anche ad una coreografia. La fine della lezione arrivò troppo presto. Avrei dovuto sentirmi uno straccio, ma il mio cervello si rifiutava di essere stanco e quindi non sentivo il bisogno di dormire. Il mio orologio, sull’ora della Nuova Zelanda, segnava le nove meno un quarto quando Emma mi scortò fino alla sala mensa. Quando mi spinse dentro, mi bloccai: dentro c’erano tantissime persone, la sala STRABORDAVA di gente. Dall’altra parte della mensa, Peter mi salutò con un gran cenno della mano e mi fece segno di avvicinarmi. Mentre camminavo, sentivo gli occhi della gente puntarsi su di me, e io, ripetendomi che ero invisibile – mio personale sistema di auto disintegrazione dell’autostima – accelerai il passo mentre mi avvicinavo al regista. Appena lo raggiunsi, sentii qualcuno esclamare:

- Ma guarda chi si vede! La mia piccola Lesley!

- Zio Ian! – esclamai di rimando. Recuperando tutta l’autostima persa, mi precipitai nelle braccia di Ian Holm. Ovviamente non era mio zio, ma un caro amico di famiglia da quando ho memoria: quando la mia famiglia abitava in Inghilterra, lui era lì, ad ogni festa, ogni occasione, ogni cena, ogni Natale, ogni barbecue, ogni campeggio. Stando ai racconti di mia madre, cominciai a chiamarlo “Zio” quando, alla veneranda età di tre anni, dall’alto delle spalle di mio padre lo scorsi in mezzo ad un gruppo di amici e urlai: “Guarda, mama! C’è zio Ian!”.

Quando io e Ian ci sciogliemmo dall’abbraccio, Peter mi scortò fino ad un tavolo dove sedevano – nove uomini – nove – e una donna. Peter mi mise una mano sulla spalla e disse:

- Ragazzi, ecco la nostra salvezza. Questa è Lesley Dalton.

- Wow! Un’altra ragazza! Ci divertiremo un mondo insieme! Io sono Liv! – Grazie all’affabilità di quella ragazza, la sensazione di preoccupazione che mi attanagliava lo stomaco svanì come per magia. Abbracciai Liv, e lei mi presentò gli altri.

- Allora… questo è Elijah, Frodo.

- Porti le lenti a contatto? – gli chiesi. Sorridendo sornione, mi rispose di no.

- Poi ci sono Billy, Dom, Viggo, John, Sean, Bean e… Orlando, detto Orlie.

Salutai tutti stringendo loro la mano, e tutti mi risposero con cortesia. Quando arrivai a stringere la mano di Orlando, venni percorsa da un brivido.

Lo guardai meglio: era un angelo….

Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.

Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.

Oddio.

…Mi ero presa una cotta da manuale.

 

Salve a tutti! Eccomi con un'altra Fanfiction! Ne ho già scritto una gran parte questa estate, ma l'idea di pubblicarla mi ronzava in testa da un po' ed ora... eccola qua! Come al solito, ringrazio chi passerà per caso, chi avrà voglia di leggerla, chi lo farà e soprattutto... quelli che recensiranno!!

A presto... con un nuovo capitolo!

   
 
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