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Autore: xlairef    26/11/2010    1 recensioni
Dicembre 2012: da mesi le notti di Delia sono turbate da incubi inspiegabili e sinistri. Poi le cose precipitano, troppe persone si interessano a lei, come Anatol, un amico di cui non ci si può fidare, come Paul, l’affascinante padrone di una vecchissima drogheria, come Anna, la psicologa preferita di Delia…Ma perché Claudia, la sua migliore amica, è scomparsa? E a chi appartiene il gatto mostruoso che ogni notte monta la guardia al balcone di Delia? Qual è il segreto del talismano al collo della ragazza? Tante domande a cui solo quattro esseri vincolati da un inganno e pronti a tutto in cambio della libertà saprebbero rispondere…Ma potrebbe essere troppo tardi per fermare il corso della prossima apocalisse…
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima che questo sciocco e insulso pianeta si formasse, prima che si formasse il patetico sistema da esso composto, prima ancora che la via divenisse lattea, ancora indietro verso i più remoti abissi temporali quando ancora la materia tutta era concentrata densissima in un unico punto immerso nel nulla eterno, quando non esistevano né il prima né il dopo e lo spazio non aveva significato. Qui inizia questa storia. Qui finirà questa storia. Qui le infinite scelte delle infinite possibilità delle infinite vite sono state dipanate. Qui tutto si è deciso e tutto ciò che ora è, non è altro che ciò ivi s’era scritto. Come possono dei semplici mortali capirlo? Come possono pensare di decidere il loro destino? Come possono pensare di interrompere ciò che non è possibile fermare?
   
Ma noi…
 
Noi siamo la progenie maledetta dell’inconscio malato di crudeltà che risiede in ogni umano.
 
Noi siamo l’origine degli incubi che perseguitano le anime dei viventi gettandoli nella follia.
 
Noi siamo l’orrore che affascina le menti di chi contempla lo splendore della putrefazione.
 
Noi siamo coloro che la paura chiamò “dei”. Ciò nonostante, ci fu qualcuno che osò legarci con vincoli più antichi del sangue e più forti delle fondamenta del tempo.
 
Questo è il racconto della nostra vendetta.
Che scorrano le libagioni!
 
Lampi. Silenziose lame di luce squarciavano le tenebre della stanza, ora rivelando e ora occultando una scheletrica sagoma - grottesca parodia di vita - appesa alla finestra. Due fiamme scrutavano insaziabili l’interno della camera – cosa volevano? Cosa cercavano quegli occhi maledetti? Al di là del vetro, sporco e pieno di graffiature, una ragazza dormiva inquieta nel sonno.
Il gatto, perché di un gatto si trattava, frugò ovunque col suo sguardo, vagando tra i resti di merende, carte appallottolate e gettate alla rinfusa, serpeggiando tra vestiti, libri e improbabili soprammobili, finché i suoi occhi non si posarono sul viso addormentato.
Osservò meticolosamente le smorfie involontarie che increspavano la pelle della dormiente, infine, saltando nel vuoto tra i lampi che apparivano nel cielo nero sparì nel nulla, come se non fosse mai stato.
In quel momento Delia, la ragazza, si svegliò madida di sudore: di scatto alzò la testa dal cuscino e si guardò intorno, per essere certa che fosse stato solo un incubo.
Non vide nulla fuori posto, tutto era perfettamente normale, dalle pareti smorte della stanza alla lampada spenta sul comodino.
Un incubo… Sospirò, lasciandosi ricadere sul cuscino e afferrando la sveglia a lato del letto. Le quattro e venti del mattino.
Fantastico. Un altro stupido, maledetto incubo…fantastico, ne sentivo proprio la mancanza. Devo dormire. Ora! Ne ho proprio bisogno…Se non mi riaddormento subito domani dormirò sopra al foglio del compito…pensò tristemente, giocherellando con il talismano della sua collana e ricordando i voti degli ultimi tre mesi. Non osava ammetterlo, ma stava iniziando a preoccuparsi: non era normale che ogni notte l’incubo si presentasse implacabilmente a toglierle il sonno e la concentrazione.  E pure la speranza di non avere debiti a fine semestre.
Devo dormire devo dormire devo dormire…Come ninna nanna non era un granché, ma almeno la proteggeva da… dai ricordi dell’Incubo.
Si accoccolò all’elefantino di peluche, un vecchio regalo di suo padre, si girò su di un fianco e si costrinse a chiudere gli occhi.
 
 
Non era al sicuro.
Il corridoio era buio, caldo e polveroso, e qualcuno la stava seguendo, senza correre, invisibile, silenzioso: i passi scandivano il tempo, inesorabili come il ticchettio di un orologio.
Non poteva fermarsi.
La sensazione di pericolo si faceva più forte ad ogni secondo, avanzava verso di lei.
Oltrepassò il portone e le colonne rosse della sala si stagliarono nelle tenebre.
Al centro un blocco di pietra.
La pietra colava sangue.
Doveva tornare indietro, subito…
Ma una mano fredda le artigliò la spalla.
 
 
 
“Ancora a letto?!?”
Una luce accecante inondò la stanza, rivelando il letto sfatto e la ragazza con la testa sotto il guanciale, che vi dormiva sopra.
“Svegliati! Non ho tempo di aspettare i tuoi comodi! Sto per uscire, Delia, dai!”
Cosa sta succedendo?
L’inconscio di Delia iniziò a riprendere vita: la ragazza sbatté le palpebre, pesanti per il sonno perso, uscì dal suo cuscinoso (so che non esiste, ma mi piace tanto^^…n.d.a)rifugio e tentò di alzarsi in piedi.
“Delia! Non ho intenzione di aspettarti ancora!” Il suono si allontanò verso la cucina.
Che diavolo…Mamma??! Delia si affacciò in cucina, strizzando gli occhi per vedere meglio.
Sua madre,  già vestita e truccata, era seduta al tavolo e sorseggiava il suo caffè leggendo il giornale.
“Che ci fai qui, a quest’ora?” Chiese la ragazza bruscamente.
“E’ casa mia, ogni tanto ci vivo.” La donna bionda non alzò gli occhi dal quotidiano.
Delia si irritò, senza sapere bene il motivo: probabilmente la pettinatura e i vestiti sempre impeccabili della madre, la sua aria indifferente, il tono calmo della sua voce.
“Non ci vivi mai, tu, qui.” Si sedette al tavolo, e si versò del caffè. Non vide altro cibo nei paraggi.
“Dove sono i biscotti?” Domandò brusca.
“Se non ne hai comperati altri, sono finiti un’ora fa, quando ho fatto colazione e ho buttato quella schifezza ipercalorica nella pattumiera .” proclamò, indicando con un  gesto l’immondizia.
Ultima goccia.
La ragazza si alzò, sbattendo la tazza del caffè contro il tavolo,  macchiando la tovaglia.
“Cioè, hai buttato la mia colazione? Entri ed esci di casa come una turista, non ci dormi nemmeno, e quando ti gira torni e mi lasci senza colazione?” Urlò isterica, senza molta coerenza.
La madre alzò gli occhi dal giornale.
“Non farti venire un attacco isterico per una cosa del genere” commentò freddamente,  “A proposito, dimenticati di saltare scuola oggi, so tutto delle tue assenze e non ho intenzione di essere convocata dalla preside: ho già i miei problemi, senza aggiungere i tuoi!”.
Come fa a sapere sempre tutto?
Delia la guardò furibonda. “Sei solo capace di pensare a questo, ai tuoi stupidi problemi? Perché non pensi anche a me ogni tanto, invece di startene con quei tuoi stupidi clienti per tutto il tempo? Perché non hai mai tempo per fare la spesa? Perché…”
“Adesso basta!” La madre di Delia posò la tazzina del caffè sul tavolo. “Non ho tempo di litigare ora, devo uscire. Tornerò tardi stasera.”
“No! Non tornare proprio! Chi ti vuole? Chi ti ha mai voluto? Fai scappare tutti…”
 
Il ceffone giunse inaspettato.
Gli occhi di Delia si riempirono di lacrime, ma sua madre era già uscita, lasciando svanire ogni traccia della sua visita.
Rimase solo la tazzina ancora piena per metà. Delia tirò su con il naso, sedendosi al tavolo, e bevve il caffè avanzato.
 
 
Pioveva. Arrancando tra i rifiuti abbandonati alla mercé dei randagi, tentò invano di evitare gli schizzi d’acqua degli automobilisti. Infreddolita, fradicia e, al solito, senza ombrello. 
Il freddo congelava gran parte delle gocce di pioggia in schegge di ghiaccio, che colpivano il viso di Delia mentre la ragazza camminava verso la scuola, cercando di evitare le pozze d’acqua grigie che avevano invaso strade e marciapiedi.
Tutta colpa Sua. Avrebbe dovuto comprarne uno nuovo settimane fa. Idiota. Papà l’avrebbe ricordato, al suo posto.
Immersa nei suoi pensieri, non vide la donna contro cui andò a sbattere.
“Mi scusi.” Sussurrò con voce apatica, senza alzare la testa.
“Delia?”
La ragazza alzò la testa, conosceva quella voce.
“Dove vai senza ombrello?”
Il cielo sopra di lei fu oscurato da un ombrello blu elettrico, proprietà di una donna  alta, pallida e chiaramente preoccupata per la ragazza fradicia.
“Anna?” Si stupì Delia, confusa di incontrare la sua psicologa fuori dalle pareti dello studio in cui ogni giovedì era costretta a recarsi per volere della madre.
Anna sorrise: “Vieni, ti accompagno a scuola: un’influenza in questa stagione spesso è causa di depressioni…Meglio prevenire che curare, giusto?” disse con voce melodiosa.
No no no no!
“Ehm, no grazie, ecco, non voglio disturbare…” si impappinò lei, cercando una scappatoia: non voleva assolutamente che tutta la scuola sapesse che lei conosceva una donna che era una dei più noti psicologi della città. D’altra parte, non voleva nemmeno arrivare in aula completamente bagnata.
Anna la scrutò con lo sguardo: per un momento sembrò immergersi in qualche pensiero remoto, poi si riprese e con gentilezza mise l’ombrello nelle mani di Delia. “Dimenticavo, devo trovarmi fra dieci minuti nel mio studio: dovrò prendere un taxi, ormai. Ti lascio in custodia il mio ombrello, d’accordo?”
“Oh! Grazie, ma…”
“Nessun problema. Ah, ti aspetto domani pomeriggio, ok?” E dicendo questo si allontanò, incurante della pioggia.
Fiuuu…Delia sospirò di sollievo. Non osava immaginare cosa sarebbe successo se si fosse saputo in giro che…
“Ehi! Guarda che cosa gira a quest’ora per le strade!”
Sono morta. Perché proprio lui?
Un braccio le volò sopra le spalle, e una testa rossa arruffata si sistemò sotto l’ombrello, creando uno strano contrasto di colori.
“Anatol, levati dai piedi prima che ti prenda a calci!”
Il ragazzo fece una smorfia che deformò i suoi lineamenti delicati e per tutta risposta si strinse di più a lei. “E dai, vuoi forse che la preside si lamenti un’altra volta perché bagno i pavimenti delle aule?” Le prese l’ombrello dalle mani.
“Non mi interessa! Ridammi il mio ombrello!”
“Non ho mai visto una tinta così blu! E’ nuovo?” sogghignò il rosso, stringendo con più forza il manico.
“Si è nuovo, problemi?”ribatté aggressiva Delia. Non si fidava di lui: non le piaceva la sua aria sicura, i suoi metodi per ottenere l’amicizia di professori e studenti senza grande sforzo, la sua parlantina. Camminare con lui le dava la sensazione di navigare in un mare in tempesta nel quale sarebbe stato fin troppo facile naufragare. E fin troppo piacevole.
E poi…com’era quella leggenda sui folletti?... Gli dai un dito e si prendono tutta la mano?
“Finché ripara dall’acqua, nessun problema…”
E continuarono così fino al portone della scuola.
Nonostante la pioggia (o forse proprio per questo),  alcuni ragazzi come ogni giorno fumavano sotto l’arco d’ingresso, chiacchieravano e aspettavano l’inizio delle lezioni. Dall’esterno, se non fosse stato per quell’arco, che preludeva ad un lungo porticato alla fine del quale si trovava il grande portone scuro, nessuno avrebbe intuito che l’edificio era stato ricavato dalle rovine di un vecchio convento medievale, e che conservava dell’antico stabile le mura e le cantine del piano terra, adibite a ripostiglio, il chiostro interno, verde e fresco, sul quale davano le finestre dell’aula di Delia e il refettorio, convertito in sala professori.
La ragazza si fece largo tra gli studenti, per nulla aiutata da Anatol  il quale non muoveva un passo senza salutare amici e conoscenti, e Delia, per evitare di lasciare in tali mani l’ombrello, era costretta a sostare assieme a lui, ignorata e dimenticata.
“Ora basta! Se hai intenzione di restare qui fuori restituiscimi l’ombrello, ho compito di greco fra dieci minuti!” sbottò Delia dopo l’ennesima sosta.
“Anch’io, ma qualche minuto in più o in meno, che differenza vuoi che faccia...” Rispose il ragazzo tranquillamente, accendendosi una sigaretta.
“Davvero? E come pensi di farlo, senza vocabolario?” osservò lei, malignamente.
Gelo.
Anatol si bloccò: “L’ho lasciato a casa…adesso che cosa…”  mugugnò tra sé.
Delia ne approfittò per strappargli l’ombrello dalle mani. Stava per entrare, quando lui l’afferrò per una spalla.
“Dammi il tuo.” Era un ordine.
“Che cosa? Sei fuori?!”
“Altrimenti dirò a tutti che ti vedi con una strizzacervelli.” Le sussurrò ad un orecchio.
No!
La ragazza lo fissò, terrorizzata e immobile, continuando a stringere l’ombrello.
Anatol, avendo percepito il K.O, con un’aria di trionfo, e il suo dizionario in mano, procedeva solenne nell’ampio corridoio.
Tutto attorno a Delia divenne rosso…
 
Un tramonto.
Una distesa infinita di sabbia, polvere e mosche tutto intorno a lei la faceva respirare a fatica per l’eccitazione. Finalmente era dove desiderava essere.
Sotto di lei, le case degli indigeni, le tuniche degli uomini, le carrozze dei turisti, i dragomanni vestiti di bianco che tenevano i mendicanti lontani dall’atrio dell’albergo.
Ma era il profumo, un intenso profumo speziato, che le dava alla testa. Avrebbe voluto inspirare fino a scoppiare quell’aroma dolce e amaro insieme.
“Hannah!!” Un urlo.
“Torna subito dentro!”
Si spaventava sempre per la quantità enorme di odio che quella voce riusciva a risvegliare in lei…
 
“Ehi! Tutto bene?”
D’un tratto il mondo tornò grigio e freddo.
Delia si accorse di alcuni ragazzi che la fissavano incuriositi.
“Eh? Oh, si. Tutto a posto, grazie.” Quelli, ridacchiando, si girarono e tornarono alle loro sigarette.
Non posso sognare se sono sveglia. Cosa è stato?Non è l’incubo…cos’era?
Si portò una mano alla testa e la vide tremare. Salì i pochi gradini che portavano all’interno della scuola in fretta. La campanella d’inizio lezioni fece in tempo a perforarle i timpani, prima che la ragazza si accorgesse che Anatol era svanito.
Con il suo vocabolario di greco.
 
 
  
  
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