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Autore: Gondolin    17/01/2011    5 recensioni
“Devi essere amico dell'orrore se vuoi asservirlo a te. Ma tu hai solo paura, moccioso”, la voce del maestro, roca e improvvisa, lo raggiunse da dietro come una ventata d'odio. Anzi, neppure meritevole d'odio, Salvatore si sentì investito dal disprezzo di Kilgore. Immediatamente dopo una delle mani possenti del maestro era sulla sua schiena e poi, giù!, prima di avere il tempo di realizzare, il piccolo era precipitato in quella fossa infernale.
“Il cavaliere del Cancro può muoversi fra i mondi. Giocare con la morte. Osservare le anime dannate. Portare i nemici alla bocca dell'Ade. Sarai in grado di farlo, tu?”

Erano mesi che andavo ruminando questa fanfic, era ora che uscisse. Non so se ha senso, non so se è bella. Io l'ho amata e odiata. Ed è la prima che posto col nuovo nickname!
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cancer DeathMask, Pisces Aphrodite
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'La rabbia di amare'
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L'idea mi è venuta dopo la lettura de Il sigillo di Vale11, ma non è che c'entri niente come storia. Solo Death che non ama essere toccato in realtà viene da lì. Ed è anche sua l'idea di scrivere dopo aver bevuto. Peccato che io abbia retto solo per quattro-righe-quattro. Grazie comunque, Vale. Questa è per te. E per Yuji, che è pazza quasi quanto questi due.

Il nome del Maestro l'ho fregato ad un personaggio di Apocalypse Now, e ringraziate che non mi sia dilungata nell'affibbiargli deliranti background.

Ho sempre avuto in mente una topografia della Quarta Casa che forse non corrisponde alla realtà, ma a cui sono troppo affezionata. Vecchi amici e forbici dalla punta arrotondata, sapete. Il roleplay nuoce gravemente alla salute.

Ah, e temo di aver largamente sottovalutato il rapporto con le anime dei morti, ma davvero non sapevo più dove infilarcelo. Questo è solo un Death Mask. Un minuscolo buco della serratura da cui lo guardo, una mia prospettiva che forse lo fa un po' troppo umano (prendete questa definizione con le dovute cautele) e un po' meno Saint.

 

 

 

# # #

 

 

L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore.

[Apocalypse now]

 

 

“Guardalo”.

Salvatore provò a distogliere lo sguardo e a respirare il meno possibile perché non gli arrivasse al cervello quell'odore nauseabondo, ma il maestro Kilgore gli prese la testa e lo voltò nuovamente verso il corpo in putrefazione.

Questo è il risultato delle guerre. Tutte le guerre. Questo è ciò che diventerai se verrai sconfitto. O meglio”, il viso del suo maestro si fece se possibile ancor più duro, “quando verrai sconfitto”.

Se fosse convinto del fatto che tutti prima o poi dovessero cadere o se fosse invece convinto che il suo allievo non fosse abbastanza forte era incerto.

Adesso toccalo”.

Cosa?”

Di rado il piccolo Salvatore si azzardava a rispondere al maestro, ma quella volta la sua richiesta era troppo. Troppo disgustosa, troppo inumana.

Toccalo, ti ho detto”.

“No, no!”, protestò il bambino, incurante delle conseguenze.

Ah, no?”, rispose Kilgore con una calma in lui, sempre così collerico, bizzarra e minacciosa, “Molto bene. Ho cercato di usare le buone maniere, ma a quanto pare non serve”.

Così dicendo afferrò il recalcitrante allievo per un braccio e lo gettò in avanti. Salvatore cadde lungo disteso sul cadavere, la faccia sul suo petto squarciato perché non aveva avuto il coraggio di mettere le mani avanti per frenare la caduta. Le teneva strette a pugno, come se il non toccare coi palmi quel marciume facesse una qualche differenza.

“L'orrore ha un volto, e bisogna essere amici dell'orrore, o si rivolterà contro di te”, disse l'uomo.

Salvatore avrebbe preferito essere picchiato come le altre volte, o strattonato dal maestro. Invece doveva trovare da solo il coraggio di aprire gli occhi e tirarsi su.

Lo fece, barcollando, malsicuro sulle gambe, con la forza della disperazione. E guardò davanti a sé. Oltre il corpo c'era un fossato, che prima non aveva notato a causa dell'erba alta. Nel fossato, altri corpi putrescenti. Nugoli di moscerini quasi li nascondevano alla vista. Vermi rosei e grassi sbucavano pigramente dalle pieghe della pelle e degli abiti, eppure non sembravano morti da troppo tempo: conservavano ancora un'apparenza umana, tratti riconoscibili. Il bambino si sentì agghiacciare nonostante il caldo e la gola gli si chiuse.

“Devi essere amico dell'orrore se vuoi asservirlo a te. Ma tu hai solo paura, moccioso”, la voce del maestro, roca e improvvisa, lo raggiunse da dietro come una ventata d'odio. Anzi, neppure meritevole d'odio, Salvatore si sentì investito dal disprezzo di Kilgore. Immediatamente dopo una delle mani possenti del maestro era sulla sua schiena e poi, giù!, prima di avere il tempo di realizzare il piccolo era precipitato in quella fossa infernale.

“Il cavaliere del Cancro può muoversi fra i mondi. Giocare con la morte. Osservare le anime dannate. Portare i nemici alla bocca dell'Ade. Sarai in grado di farlo, tu?”

Giocare con la morte?, si chiese Salvatore, furibondo e terrorizzato allo stesso tempo. A lui la morte non era mai parsa cosa con cui giocare. La conosceva, a modo suo, e forse non la temeva abbastanza. Ma giocarci, a quello non aveva mai pensato. Non era ancora giunto il momento in cui torme di spiriti tormentati avrebbero preso a seguirlo costantemente, formando la sua arma e il suo tallone d'Achille insieme; la sua compagnia prediletta e odiata.

I corpi vuoti avevano mollemente ceduto al suo peso come fossero stati un'unica sostanza soffice, e lui si era ritrovato incastrato fra due, imprigionato nel loro abbraccio. Osservare le anime dannate? Che paura può farmi, quando vedo te ogni giorno, bastardo?, gridò nella sua testa, facendosi coraggio a forza d'odio. Ma la verità era che tutta quella carne morta intorno a lui somigliava dannatamente alla carne viva. Percepì fu un vago fantasma del contatto umano che doveva aver provato quando era troppo piccolo per ricordare coscientemente. E poi, più forte di prima, quel puzzo di marcio che faceva torcere le viscere e il ronzare ossessivo delle mosche.

Quanta differenza poteva esserci, poi, fra un vivo e un morto? Quanti secondi sarebbero bastati per separare la sua, di carne, dall'anima?

Si arrampicò fuori dal fosso, un piede scivolò sulla coscia scoperta di una giovane donna, una mano fu costretta ad aggrapparsi ad un cranio con occhi quasi sciolti. La fretta di uscire di lì non gli impedì di vedere, poco lontano, quattro bambini che avrebbero potuto avere la sua età. Quattro. Come il Cancro, quarto segno. Quarta Casa. Quella era ancora lontana, però, mentre i cadaverini erano vicini, vicinissimi. Mentre si chiedeva perché non avessero ricevuto sepoltura, si accorse che non gli importava. Ognuno doveva badare solo a se stesso, e se i morti non possono farlo, peggio per loro. Mentre si rialzava, grondante di sangue e umori e fango, e alzava gli occhi sul maestro, si accorse che lo disgustava, come fosse stato anche lui un cadavere.

Quanta differenza poteva esserci, poi, fra un vivo e un morto?

Fu allora che decise che no, lui no. Non sarebbe finito così, eh no.

Se fino ad allora si era allenato solo perché non aveva scelta, con tutta la pigrizia che può sfoderare un bambino costretto a sudare ogni giorno sotto il sole cocente della Sicilia, in quel momento decise di iniziare a fare a modo suo. Dentro di sé giurò di non piegarsi mai davvero a Kilgore, ma piuttosto di usarlo per farsi insegnare a diventare così potente da non dover più sottostare alle regole di nessuno. Avrebbe scelto lui il proprio destino. E non sarebbe stato quello dell'uomo morto ai suoi piedi né degli altri cadaveri.

 

#

 

Che fai, dormi? Avanti, muoviti! Muoviti, ho detto!”, gridò Kilgore accompagnando la propria invettiva con un calcio che fece volare Salvatore un paio di metri più in là, “Qui non si batte la fiacca! O ti alzi o giuro che ti finisco a calci, hai capito?”

Il ragazzino strinse i denti, sentendo l'odio montare insieme alla bile che gli invadeva la bocca amara di terra e di sete.

Alzati. Alzati. Alzati.

Ci volle un'altra pedata dritta allo stomaco prima che Salvatore riuscisse a rimettersi in piedi, ma ce la fece. E dentro di sé ne gioì. Era sveglio dalle tre di quella notte, da prima del maestro, ed aveva già percorso quella salita fin quasi all'orlo del cratere. Se da bambino aveva avuto paura anche solo di avvicinarsi alle pendici dell'Etna per i suoi due cuori, di lava e di tenebra, ora il vecchio gigante non gli incuteva più alcun timore.

Come del resto il maestro Kilgore. Entrambi avrebbero potuto ucciderlo in qualsiasi momento, ma a Salvatore non importava. Finché fosse stato un debole, la sua vita non avrebbe avuto la benché minima importanza, e quando sarebbe diventato forte abbastanza la paura gli sarebbe stata alleata anziché nemica.

 

#

 

Aveva iniziato a detestare il proprio nome sin dall'inizio dell'addestramento. Era soprattutto il significato ad infastidirlo. Se nemmeno sono riuscito a salvare me stesso!, pensava, Che razza di nome idiota è Salvatore.

Poi era sopraggiunto l'odio. Quando aveva raggiunto la forza che ad un vero servitore di Atena serve a proteggere, aveva iniziato a bruciare d'odio profondo. Perché per quanto lo riguardava l'umanità poteva jire a farsi futtiri, e anzi, peggio stava e meglio era. Ma che, doveva essere lui l'unico minchione a soffrire le pene dell'inferno?

Però mica ci aveva pensato, a cambiarlo. Dopo tutto non gli attribuiva molta importanza: poteva anche essere un nome idiota, ma non lo usava nessuno. Kilgore era già tanto se lo chiamava “moccioso” o “scherzo della natura”, tanto per citare gli epiteti più gentili (che poi, provateci voi a nascere coi capelli bianchi e gli occhi rossi e voglio vedere se qualche scompenso non vi viene anche a prescindere da un addestramento massacrante e quasi suicida vicino ad uno degli ingressi dell'Ade, che comunque non aiuta).

Fu solo quando arrivò al Santuario che gli si pose il problema di un nome, poiché solo allora raggiunse lo status di essere umano. O quasi, vista la pessima reputazione della quale iniziò immediatamente a godere.

Anche allora per la verità, il problema non si pose immediatamente come tale. Dopo tutto quando il Grande Sacerdote, dall'alto dei suoi duecento e passa anni, di tutta la sua autorità e delle scale che portano al suo trono, ti chiede perché mai sei tornato al Santuario senza il tuo maestro e tu devi spiegare che, ecco, tu l'avresti anche ucciso quel bastardo, che davvero se lo meritava e che anche le voci delle anime che hanno cominciato a seguirti da quel momento ne hanno gioito, era la loro vendetta, e tu non hai mica paura, nossignore, non hai proprio paura di niente, ma non hai ancora imparato a gestire bene questo tuo orgoglio; e come si parla ad un altro essere umano tu proprio non lo sai, e tanto meno se questo è il Pontefice, e allora se lui ti chiama Salvatore, o giovanotto, o in qualunque altro modo tu nemmeno ci fai caso. Annuisci e ingoi tutto, e basta. È che ottenere l'armatura offusca tutto il resto. Sei il Saint di Cancer, e basta.

 

#

 

 

Il mio nome è al termine del mio viaggio.

[Italo Calvino, Il cavaliere inesistente]

 

 

Da quando aveva ricevuto l'investitura, Salvatore era passato solo un paio di volte di fronte a quel roseto, e l'unica cosa che sapeva era di dover stare alla larga perché i fiori erano velenosi. Questo gliel'aveva detto Sagitter. Ma allora chi li curava? Il Cavaliere della Dodicesima Casa? Ma i Saint di solito non erano esseri umani? Come faceva allora a non avvelenarsi anche lui? O lei? Ma c'erano mai state Gold Saint donna?

La testa piena di domande, alcune sensate ed altre strampalate, quasi non si accorse di una figuretta che emergeva da un cespuglio di rose a pochi passi da lui, e quando ci fece caso non mosse un passo, né in avanti né indietro.

Il ragazzino però allungò un braccio.

Pensando che volesse stringergli la mano, Salvatore fece un passo indietro. Invece si accorse che aveva il palmo rivolto verso di lui, come a bloccarlo.

Bravo, vedo che ci tieni alla pelle. Io sono il Cavaliere dei Pesci, Aphrodite. A giudicare dall'armatura tu devi essere il mio collega della Quarta Casa, giusto? Com'è che non ti avevo mai visto qui? E ricordati di avvicinarti, mi raccomando”.

Non mi piace. Parla troppo., fu il primo pensiero di Cancer.

Meglio così”, disse.

Perché?”, domandò curioso il piccoletto. Di solito la gente gli si avvicinava ben volentieri, almeno quando non era coperto di pollini velenosi.

Non mi piacciono gli esseri umani”.

Nemmeno a me”, annuì Aphrodite, soddisfatto della risposta. Almeno non era uno sciocco idealista come i due che l'avevano accolto lì, Saga dei Gemelli e Aiolos del Sagittario.

Ma esattamente, cosa mi succede se mi avvicino?”

Ma come?”, si scandalizzò Aphrodite, “Non te l'hanno spiegato per bene? Le rose sono velenose!”

Questo lo so, ma non sono mica cosi scemo da pungermi. E poi perché tu ci puoi stare in mezzo?”

Anche il loro polline è mortale. E io ci posso stare in mezzo perché mi sono reso immune al veleno. È stata una discreta fatica, non penso che ti convenga provarci. E poi le controllo anche col mio cosmo. Guarda!”, così dicendo evocò nel palmo una rosa rossa, e poi la fece scomparire come un prestigiatore, “Bella, vero?”

Tsk. Quello che so fare io scommetto che non lo sa fare nessuno”, si vantò. E dopo tutto ne aveva anche ragione: Shaka di Virgo non era ancora giunto al Santuario.

E cosa sai fare?”

In meno di un secondo si ritrovarono entrambi alle porte dell'Ade.

Dove siamo finiti?”, domandò Aphrodite, più curioso che spaventato.

Non hai paura?”

Pisces scosse il capo.

Siamo all'ingresso del mondo dei morti!”

Davvero davvero o è quello che dici per spaventare i nemici?”

Davvero davvero, cretino! Non le vedi le anime dei morti?”

Aphrodite si guardò intorno per qualche secondo. “Da qui non si distingue niente. Possiamo avvicinarci? Non ho mai visto un'anima. Anzi, non ho nemmeno mai visto un morto se è per questo. Tu sì?”

Salvatore grugnì qualcosa in risposta e si chiese perché uno che si dilettava di giardinaggio, che aveva un aspetto carino e aggraziato, delle rose come arma e per giunta anche un nome da femmina non avesse il benché minimo timore di quel luogo. Sarebbe stato ammirato se non fosse stato troppo intento ad essere scocciato.

No, non ti ci porto da quella parte. C'è la bocca degli Inferi, e poi se ci cadi dentro io di certo non vengo giù a chiedere ad Ade di tirarti fuori. Non so nemmeno cantare bene!”, ridacchiò. Ma poi, vedendo l'espressione perplessa dell'altro, domandò: “Non ti ricordi la storia di Orfeo ed Euridice?”

Mentre pronunciava queste parole, Salvatore si rese conto di non aver mai parlato tanto con nessuno in tutta la sua vita.

E si rese conto di essersi ficcato in tunnel senza uscita quando Aphrodite scosse il capo fissandolo con vero interesse per la prima volta da quando si erano incontrati. “Non è che non me la ricordo, non l'ho mai sentita. Me la racconti, per piacere?”

Capì che, se da una parte Aphrodite non temeva il macabro, ad affascinarlo davvero era solo il bello, e il racconto poteva essere una vera forma d'arte.

Come fai a non conoscerla? È una leggenda famosissima!”

Sarà famosa qui. Dove mi sono addestrato io si raccontavano altre storie, e anche dove sono nato, anche se quelle non le ricordo molto bene. Non torno in Svezia da...”, fece i conti sulla punta delle dita, “quattro anni. Tu sei greco?”

No, italiano”.

Bello! Si mangia davvero bene come dicono?”

Nella mente di Salvatore si affacciarono per un momento dei ricordi non proprio piacevoli di brodaglie trangugiate durante l'addestramento, a confronto delle quali il brodo nero degli Spartani doveva sembrare una delizia. “Sì”, rispose semplicemente. Non deludere i turisti o gli stranieri che chiedono notizie in Italia è una cosa che si impara presto, anche se sei un Gold Saint.

Ti riporto a casa, va'”, borbottò.

Ma nel farlo si distrasse, e invece di tornare alla Dodicesima tornò alla Quarta. Sempre meglio che apparire per sbaglio nelle stanze private del Nono Tempio, o aveva come l'impressione che si sarebbero beccati entrambi un bel Galaxian Explosion in pieno petto. Era vero che non gli piacevano gli esseri umani, ma aveva vissuto i primi anni di vita in un paesino minuscolo, e sapeva farsi gli affaracci altrui con la maestria di una comare.

E adesso che hai combinato?”, si imbronciò Aphrodite, le mani sui fianchi.

Siamo solo tornati al Santuario. Ora che ci penso, come mai non sei mai passato dalla mia casa?”

Perché avrei dovuto farlo? Non mi piace allenarmi giù nell'arena, e men che meno andare ad Atene. Allora, me la racconti o no la storia...? Ehi, non mi hai ancora detto come ti chiami. È molto maleducato da parte tua, lo sai?”

Salvatore esplose: “Che palle! Sei una vera piattola!”

Aphrodite fece tanto d'occhi. “Non si dicono le parolacce!”

Che santarellino”, sbuffò infastidito l'italiano, guardandosi intorno come se si fosse trovato lì per la prima volta.

No, è volgare dire parolacce. Nessuno verrà a sculacciarti se ne dici, ma non dovresti farlo. A parte il fatto che non è degno di un Cavaliere di Atena, esprimersi così è davvero brutto. E non ti fa sembrare più grande, fidati. Io ne conosco anche di peggiori, ma non le uso”.

Tu sembreresti un marmocchio comunque. Di', quanti anni hai?”

Sette. E tu? E non mi hai ancora detto come ti chiami”, sottolineò Aphrodite.

Io ne ho otto”, rispose Salvatore sentendosi grande. Però il suo nome proprio non aveva voglia di dirlo. Vero che quello strano tipo mingherlino e ciarliero avrebbe dovuto solo stare zitto, col nome che si ritrovava, e vero era anche che ora che aveva assodato che il fantomatico cavaliere dell'ultima Casa era un essere umano poteva detestarlo come tutti gli altri. Però c'era qualcosa che glielo faceva percepire come uno con cui stare alla pari, in qualche modo. Non si era nemmeno spaventato vedendo le maschere che adornavano le pareti. Erano ancora poche, ma le loro espressioni già esprimevano tutto il terrore che un Cavaliere di otto anni con dei poteri da adulto e un'immaginazione sadica da bambino era riuscito ad incutere. Sì, doveva ammettere che quelle maschere lo rappresentavano proprio bene.

“Death Mask”, si sentì pronunciare prima ancora di rendersene conto.

“Cosa?”

“Il mio nome”.

“Maschera di morte?”, fece Aphrodite fra lo schifato e l'ammirato.

“Problemi, biondino?”

 

#

 

Posso farti una domanda?”

Me ne hai appena fatta una”, rispose Death Mask.

Sei indisponente”.

E tu sei insistente”.

“Perché sei diventato un Saint? Voglio dire, noi dovremmo proteggere l'umanità ma non lo facciamo, e fin qui è appurato. Saga è schizzato, Aiolos è morto e gli altri sono ancora dei bambini. Io ignoro il resto del mondo, a parte, qualche volta, te, Shura e Saga”, non disse che in fondo lui non poteva permettersi la solitudine completa, perché aveva bisogno di un pubblico. Perché per essere superiori, bisogna avere qualcuno su cui primeggiare, fosse anche un'umanità distante e disprezzata, “Ma tu, tu fai proprio danni. Non è che gli esseri umani non ti piacciono, tu li odi proprio. Allora perché?”

Death Mask si strinse nelle spalle come se stesse dando una risposta ovvia. “Per l'armatura. Per il potere. Tu no?”

“Anch'io, in un certo senso”, confermò Aphrodite come se avesse appena ricevuto la risposta più naturale del mondo.

“Che minchia significa in un certo senso?”

Significa che volevo l'armatura, come te. Ma non per ammazzare gente a caso. Per combattere contro chi lo merita. Per la vittoria, la vittoria perfetta, il più raro e dunque il più prezioso dei gioielli. Non è il potere in sé che voglio, ma quello che ottengo tramite la Bellezza. Per me è solo questo che conta”.

Death Mask grugnì il suo disprezzo. “La bellezza, see, come no. Che vaccata. Vivi in un mondo tutto tuo, Phro”.

“Anche tu. Credi che normalmente la gente vada in giro uccidendo, torturando e mutilando i cadaveri? Andiamo, Death, sii sensato”.

Si rise addosso da solo per la richiesta assurda che aveva appena formulato.

 

#

 

Premettiamo: Aphrodite non era affettuoso. Nient'affatto. Il suo odio per gli essere umani aveva qualche eccezione, ma di certo non lasciava mai il posto ad improvvisi attacchi di espansività.

Però ormai conosceva Death da anni e gli sembrava davvero strano quel suo modo di ritrarsi quando riceveva anche solo una pacca su una spalla.

“Ma che, ti hanno spaventato così tanto con la storia delle mie rose quando eri piccolo?”, gli chiese un giorno.

“Ce n'è voluto ben di più per spaventare me, sciuri”.

Aphrodite gli rivolse uno sguardo a dir poco sorpreso. Non si sarebbe mai immaginato una risposta simile. Un'ammissione simile. “Allora di qualcosa hai paura”.

“Non più. Anzi, per me la paura è un'arma. La paura è un'amica”, i suoi occhi rossi si piantarono in quelli dello svedese, “Lei vive con me, mi somiglia persino. Vuoi conoscerla?”

“Stai dicendo che potresti farmi paura?”, domandò prosaicamente l'altro, che aveva imparato a convivere con la follia senza lasciarsene turbare più di tanto.

“Diciamo che posso insegnarti qualcosa”, Death Mask si alzò bruscamente, “Seguimi”.

Si avviò lungo il corridoio centrale della Casa del Cancro, poi svoltò inaspettatamente a destra, sparendo nell'ombra delle colonne. Aphrodite affrettò il passo per tenergli dietro, giù per delle scale che non aveva mai visto e poi nell'ombra di un corridoio di pietra e oltre un portone pesante. Non vedeva nulla, ma sin dai primi gradini, un tanfo di morte l'aveva costretto a respirare con la bocca per non lasciarsi stordire, tanto era forte.

Death Mask, davanti a lui, trafficò per qualche istante, e una torcia fu accesa. Dapprima lo svedese sbatté le palpebre per riabituare gli occhi alla luce. Poi le sbatté nuovamente, come a voler ricacciare lo spettacolo di macchie di sangue, sia secco che recente, che copriva il pavimento e forse anche le pareti, non raggiunte dal debole cono di luce della torcia. Ed esattamente ai suoi piedi, un cadavere. Non doveva essere morto da tanto, ma il suo corpo era stato orribilmente sfregiato e il suo volto era congelato in una maschera terrorizzata. Le gambe erano storte in un angolo innaturale, mentre un grosso buco nelle camicia e nella pelle ne faceva intravedere le viscere.

“Guardalo”.

Quello di Death Mask era stato un comando secco e distante. Sembrava provenire da un punto così profondo di lui che Aphrodite non aveva mai potuto neppure intuire. Ubbidì e costrinse ancora lo sguardo su quel residuo di essere umano.

“Adesso toccalo”, ordinò con lo stesso tono, che doveva essere quello che utilizzava con le anime dannate.

“Cosa?”

Aphrodite si ritrasse istintivamente. La sua vita non era certo stata una fiaba, e c'erano stati momenti in cui non si era potuto permettere di essere schizzinoso. Aveva visto la morte, l'aveva rischiata e ci aveva giocato con disinvolta incoscienza. Ma quell'orrore era qualcosa di profondamente differente. Era il risultato della sconfitta, era il tormento della colpevolezza, perché nel loro mondo essere deboli era la colpa peggiore ed era punita con la morte. Quell'orrore non era la morte in quanto non vita, ma tutto ciò che in essa spaventa. Era il macabro e il morboso.

Volevi sapere perché non mi piace essere toccato?”

Facendosi forza, Aphrodite allungò una mano verso quella del morto, l'unica parte di lui non coperta di sangue e lordura. Fu stupito di sentire quanto somigliasse alla pelle di una persona viva. Era solo un po' più fredda.

“Lo senti? Siamo tutti uguali. Tutti morti. Ci sono quelli che hanno smesso di respirare e quelli come noi che ancora camminano. Per questo non ho paura della morte. Per questo uccido”.

  
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