Titolo:
Moonchild
Fandom:
The Vampire Diaries
Personaggi/Pairing(s):
Tyler Lockwood e famiglia; Jeremy Gilbert (vaghissimissimo
Jyler ma solo se davverodavvero
volete leggercelo); implied Tyler/Vicki/Jeremy
Genere:
Generale, Introspettivo, Angst
Avvertimenti:
oneshot; violenza; un po' di bad language
Timeline:
pre-serie, o tipo all'inizio della prima stagione
Conteggio
parole: 1436
Challenge/Prompt:
scritta
per il team
fucking!Angels
del
COW-T
@maridichallenge;
missione
#2 della III settimana (prompt famiglia)
Note
iniziali: Titolo
orrido e random per quest'altrettanto orrida e random gen. Ma
sticazzi. Il mio adorato team Angeli ha bisogno di ogni contributo
possibile è_é *arruffa piume*
Il
sapore ferroso del sangue bruciava sul labbro rotto di Tyler, mentre
le sue narici si dilatavano frementi, i pugni stretti a viva
forza.
Calmati. Respira. Calmati,
dannazione!
Era
successo di nuovo: l'ennesimo litigio con Jeremy Gilbert, l'ennesima
rissa tra loro, finita con una vittoria del maggiore e un paio di
lividi in faccia per entrambi.
L'adrenalina gli scorreva in corpo
a velocità folle, nonostante fossero passati parecchi minuti
dalla
zuffa, conclusasi con l'intervento di Richard Lockwood.
Era un
copione che si ripeteva sempre più spesso, senza che Tyler
potesse
farci niente.
Quella volta erano stati una battuta e uno spintone
di troppo da parte del fratellino di Elena, fuori dal Mystic Grill,
ma era capitato anche per molto meno.
Perché?
“Ty,
sali in macchina” ordinò suo padre, freddamente.
Tyler fissava
ancora in cagnesco Jeremy, che si stava pulendo il naso sanguinante
sul colletto della felpa.
Voleva colpirlo ancora.
Più
forte.
Il fuoco non s'era ancora spento, e lui nemmeno
ricordava cosa l'avesse acceso, come in preda a un'amnesia.
“Tyler!”
abbaiò nuovamente Richard Lockwood, e a quel punto lui si
decise a
distogliere lo sguardo e obbedire.
“Tutto a posto, figliolo?”
chiese poi sbrigativo a Jeremy, che non rispose e si limitò
ad
annuire.
Cercava di tenere buon viso a cattivo gioco, e fare ombra
ai casini provocati dal figlio con parole vuote e diplomazia, in
pubblico.
Non erano in tanti, ma un piccolo gruppetto di avventori
del locale si era radunato lì fuori, attorno a loro, per
vedere cosa
fosse successo.
Era buio, il parcheggio illuminato scarsamente
dalla luce debole dei lampioni e da quella del plenilunio, ma
chiunque avrebbe potuto riconoscere la voce del sindaco e le sagome
dei due ragazzi.
“Okay, non è successo nulla”
Sorriso da
campagna elettorale e pacca sulla spalla di Jeremy.
Tutto a
posto. Non è successo nulla.
Il motto preferito di suo
padre.
Tyler lo guardò: anche se la sua espressione sembrava
rilassata, la piega tagliente delle labbra era inconfondibile.
A
casa facciamo i conti, diceva
quella smorfia. E fare i conti, con
una semplice traduzione Richard Lockwood-inglese, significava ti
gonfio di botte così la prossima volta impari a non
cacciarti nei
guai.
Richard
guidò in silenzio fino a casa - le mani strette a viva forza
sul
volante l'unico segno di quanto fosse furioso. In salotto, Carol
Lockwood sedeva sul divano leggendo un libro, e quando lui le chiese
gentilmente – con la gentilezza forzata e disgustosa di quei
momenti – di lasciare la stanza, lei obbedì senza
dire una parola.
Solo, rivolse loro uno sguardo impietosito e preoccupato –
maledettamente passivo e inutile - , prima di chiudersi la porta alle
spalle.
Tyler contrasse la mandibola e deglutì, perfettamente
conscio di ciò che sarebbe seguito.
Ricordava ogni singolo colpo
ricevuto dalle mani furiose del padre, come se ognuno avesse lasciato
una cicatrice indelebile sul suo corpo – nulla che si fosse
riassorbito assieme ai lividi, col tempo.
Le
botte erano rimarcate abilmente dalle parole, parole che gli
martellavano nella testa a distanza di mesi –
orgoglio
Ty, alza quel dannato mento e guardami negli occhi mentre ti
colpisco! Non hai le palle di guardare tuo padre, come potrai
dimostrare di essere un Lockwood? Di essere migliore degli altri? - e
i suoi occhi stretti a fessura, a marchiare a fuoco la
lezione.
Cinghiate, pugni allo stomaco, a volte calci. Solo
e sempre in punti coperti dai vestiti, e che, in ogni caso, potevano
essere spacciati per urti incassati sul campo da football.
Tyler
non reagiva mai, non poteva – era come paralizzato dalla
paura, o
da un ordine non detto, urlato a viva forza nel cervello non appena
Richard lo fulminava con un'occhiata feroce.
Non provare a
difenderti.
Anche
quella
volta, Tyler chinò il capo,
come un cane che sa di
dover essere punito dal padrone, e pregò che finisse in
fretta.
Mordendosi
l'interno delle guance fin quasi a farle sanguinare, Tyler
salì in
camera a passi lenti e pesanti. Contò fino a dieci,
interrompendosi
almeno il doppio delle volte senza riuscire minimamente a calmarsi, e
alla fine schiantò un pugno contro la parete, ferendosi le
nocche.
Il dolore fu tiepido, pungente e bianco, ma durò solo
qualche secondo prima di scomparire e accatastarsi in un torpore
assente.
Lentamente, Tyler si sedette alla propria scrivania,
tirando fuori un blocco di fogli da disegno e le matite.
Quella
passione che aveva fin da piccolo era stata relegata passatempo
vergognoso, e segreto: un hobby sporco, da tenere nascosto tra le
pagine di libri che a fatica trovava la voglia di leggere, figurarsi
a studiare.
Lo faceva stare meglio, nei momenti in cui tutto gli
sembrava grigio e piatto, e, per qualche motivo, schifosamente
triste.
Ultimamente poi, era peggio del solito.
Non sapeva come
fosse cominciata, ma era folle, incomprensibile.
Semplicemente,
perdeva il controllo per qualunque sciocchezza.
Come quella
sera.
Tyler ci rimuginava su
più spesso di quanto non
desiderasse, e ne aveva paura, se ne vergognava.
Odiava
l'idea di aver ereditato dal
padre quegli scatti di violenza
incontrollabili, e allo stesso tempo, facendo di questi pensieri,
temeva di poter diventare, prima o poi, una specie di emo patetico
come Gilbert – a trascinarsi da un'aula all'altra con lo
sguardo da
cane bastonato, occhi bassi e braccia strette ai libri, camminando
rasente al muro come se desiderasse scomparirci attraverso.
Jeremy
Gilbert.
Solo l'aspetto di quel ragazzino depresso, i capelli
scompigliati, l'aria perennemente sconfitta e la postura di chi si
senta sempre un pesce fuor d'acqua, lo mandavano in bestia.
Tutto
in lui suggeriva debolezza e necessità incoerente di
prenderlo a
botte e umiliarlo.
Il basket, la palestra e il football non erano
più sufficienti a sfogare l'aggressività
– Tyler aveva
dimenticato perfino la selvaggia soddisfazione fisica che gli
provocava il respirare a pieni polmoni il sudore e la fatica degli
avversari che riusciva ad atterrare sull'erba – e Gilbert era
un
bersaglio talmente indifeso e a portata di mano...
Gli faceva
montare una rabbia pazzesca, poi, soprattutto quando sembrava credere
che Vicki potesse volere qualcosa di più che della droga o
una
sveltina, da lui. Perché Tyler glielo leggeva sopra quella
faccia
anonima e apatica – Gilbert ci credeva.
Aveva lo sguardo
di chi, nonostante tutto, vuole fermamente convincersi che un giorno
la ruota girerà e i problemi scompariranno.
Forse era quello a
rendere Tyler più furioso di tutto: nella debolezza di
Gilbert, ma
anche in quella speranza innocente e stupida, rivedeva se
stesso.
Quando da bambino, cercava di convincersi che le minacce e
le punizioni di suo padre fossero solo un insegnamento troppo rigido
alla disciplina.
Quando, dopo aver scoperto che i genitori si
tradivano vicendevolmente, non solo non aveva fiatato, ma aveva
assecondato le bugie di entrambi, facendo finta di nulla.
Quando,
segretamente, aveva sperato in qualcosa di più che qualche
blanda e
impacciata carezza da parte di una madre quasi del tutto assente,
capace solo di sorrisi di plastica e tante belle parole, come il
marito.
Il mio Ty.
E poi rimaneva zitta e immobile
quando Richard si scagliava sul suo
Ty – preferiva far
finta
di non vedere, Carol, forse perchè le avrebbe prese anche
lei, se si
fosse messa in mezzo.
Tyler avrebbe voluto gridare che erano degli
stronzi ipocriti.
Avrebbe voluto che smettessero di fingere di
essere la bella famigliola ricca, influente e perfetta che tutti
credevano.
Avrebbe voluto urlare che i bambini non si toccano.
E
non si toccano neanche quelli che bambini non lo sono più,
ma
nemmeno sono ancora totalmente uomini.
Invece era lì, di fronte a
un foglio bianco, con una matita che quasi scompariva nella sua mano
grande e robusta.
Ne poggiò la punta sulla carta, scoprendosi
quasi emozionato di fronte all'immensa distesa di bianco che di
lì a
poco sarebbe andato a sporcare – come i segni che suo padre
gli
aveva lasciato sulla pelle, come i non-sorrisi
di sua madre
impressi nella memoria.
Calcò una prima linea curva, che qualche
secondo più tardi, dopo aver subìto la pesantezza
di altri segni e
un paio di cancellature, assunse le fattezze di un viso.
Tyler era
come in trance. Disegnava senza sapere cosa ne sarebbe venuto fuori,
e il risultato lo stupiva – lo spaventava – , a
poco a poco:
corpi muscolosi, fauci, unghie appuntite e occhi ferini, prendevano
vita con tratti netti e decisi.
Creature strane, né uomini né
bestie, l'una accanto all'altra, in un piccolo branco.
Il ragazzo
continuò a disegnare fino a tarda notte, sempre
più rilassato, e
quando infine crollò esausto a letto, sprofondò
in sogni a tinte
rosse, avvolti da una pace limpida e calda.
Correva nel buio, con
altre persone, perfetti sconosciuti, eppure si sentiva uno di loro,
sentiva che poteva fidarsi.
Che non l'avrebbero mai pugnalato alle
spalle, che erano tutti parte indispensabile di una grande
famiglia.
Lì non c'erano falsità, legami di convenienza o
tradimenti.
Era semplicemente bello.
Al mattino però,
Tyler non ricordò nulla di ciò che aveva sognato.
Tutto era
svanito assieme alla luce della luna, sciogliendosi ai primi raggi di
sole.