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Autore: Graine    03/04/2011    1 recensioni
Una notte d'estate, una casa silenziosa e il fruscio delle foglie smosse da una brezza quasi inesistente in giardino. Ricordi e sensazioni nelle menti di due persone che si sono rincorsi per tanto tempo e che si amano pur non volendolo ammettere.
Evelyn è una strega, Matthew un vampiro di più di duecento anni. Cosa succede quando, in una calda notte estiva proprio come quella ma di tre anni prima, le loro vite s'incontrano? E' un caso? Oppure le loro anime si conoscono da molto più tempo? Cosa accade quando il richiamo del sangue permette loro di ritrovarsi
*Ho apportato delle modifiche al testo, originariamente avevo postato il racconto come One-shot, ora l'ho diviso in tre capitoli per renderlo più fruibile alla lettura, data la sua lunghezza.*
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 

 
Quando era ormai trascorso poco più di un anno dal loro primo incontro, Matthew era diventato un bersaglio.
In più di un'occasione, entrambi erano stati attaccati perché le creature demoniache di cui la strega si occupava volevano vendicarsi del vampiro che aveva rinnegato la sua natura e li aveva traditi – aveva tradito i suoi simili – alleandosi con Evelyn.
Ormai da tempo, la strega si era accorta di riuscire a sentire Matthew – in realtà, se n'era accorta dalla notte del loro primo incontro e questa capacità si era, poi, acuita nel tempo –, di sentirlo prima ancora che lui le fosse accanto.
Si era accorta di sapere sempre o quasi dove fosse, di avvertire la sua presenza prima ancora di udirlo o vederlo. Come una sorta di telepatia anche se, tra i due, lei era l'unica ad esserne capace. O almeno, così aveva creduto all'inizio.
Probabilmente era collegato alla sua natura di strega – così aveva pensato.
Eppure, sebbene Evelyn avesse sempre posseduto delle percezioni al di fuori dell’ordinario, anche prima che i suoi poteri iniziassero a manifestarsi, non aveva mai davvero provato niente di simile. Con nessuno aveva mai posseduto un tale collegamento, un tale legame come un inspiegabile senso di appartenenza –. Nemmeno con sua nonna.
Solo successivamente, aveva saputo che anche Matthew aveva sviluppato qualcosa di simile e anche lui da quella prima notte, solo che per Matthew quella capacità si manifestava in maniera differente.
Mentre Evelyn sapeva sempre dove trovarlo, ovunque lui fosse, e se fosse o meno in difficoltà, il vampiro avvertiva solo le emozioni e gli umori di lei. Cosa che, probabilmente, gli era stata utile per imparare a trattarla.
Ed era stato proprio grazie a questo particolare legame tra le loro menti e i loro spiriti se Evelyn gli aveva salvato la vita.
Oh, lei non avrebbe mai potuto dimenticare quella sera d'inverno di quasi due anni prima. Non avrebbe mai potuto dimenticare la paura che aveva provato vedendolo ridotto in quello stato, vedendo ciò che gli avevano fatto... E non avrebbe mai potuto dimenticare quello che era successo dopo.
E Matthew, tutt'ora, si trovava a combattere contro il desiderio di riprovare le sensazioni di quella sera, consumandosi nel desiderio che aveva di ogni cosa di lei.
Quella sera, quella notte, Evelyn aveva avvertito chiaramente Matthew fosse in pericolo ed era corsa a cercarlo – sapendo perfettamente dove lui si trovasse – e lo aveva trovato rinchiuso in un vecchio scantinato buio, legato, ferito e in balia di una banda di vampiri che lo stava torturando per fargli pagare il suo tradimento.
La fitta al centro del petto che aveva provato nel vederlo esanime a terra, mentre i suoi aguzzini lo picchiavano con oggetti di legno provocandogli ferite che non si sarebbero rimarginate facilmente, la giovane la ricordava bene. Non l'avrebbe mai dimenticata, non avrebbe mai dimenticato il dolore e la rabbia cieca che aveva sentito scatenarlesi dentro e che l'avevano spinta ad attaccare quegli esseri.
Da sola contro dodici vampiri.
E li aveva uccisi tutti.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le loro facce mentre, pervasa dalla furia, li aveva fatti volare contro i muri di quello scantinato con la forza del pensiero e li aveva bruciati vivi, invocando, con un incantesimo, delle fiamme che avevano avvolto soltanto loro e nient'altro.
E non avrebbe mai potuto dimenticare il terrore che, dopo averli eliminati, l'aveva pervasa vedendo Matthew riverso a terra, immobile.
Si era inginocchiata al suo fianco e aveva tentato di svegliarlo, ma senza successo.
Una volta, Matt glielo aveva detto: «Le ferite provocate dal legno sono le uniche che si rimarginano lentamente, in un vampiro. Proprio come una qualunque ferita per un umano». E in quel momento, con Matthew svenuto e il suo capo poggiato sul grembo di lei, che continuava a tentare di svegliarlo e a guarirlo coi propri poteri senza, però, riuscirci, Evelyn aveva compreso che avrebbe fatto qualunque cosa per salvarlo. E avrebbe anche dovuto farla in fretta.
Sapeva che lui non sarebbe morto per quelle ferite che continuavano a sanguinargli copiose – un vampiro si uccideva con un paletto nel cuore, tagliandogli la testa, dandogli fuoco; oppure esponendolo alla luce del sole – ma sapeva anche che tutto quel sangue perso lo avrebbe indebolito, chissà per quanto. In quel modo, Matthew sarebbe stato una preda facile per altri vampiri che ne avrebbero facilmente approfittato per  tentare, ancora, di eliminarlo.
Per questo motivo, Evelyn non aveva esitato un solo secondo a tagliarsi un polso con un pezzo di vetro trovato lì accanto e ad offrirgli il proprio sangue – il sangue di una strega e, per questo, più forte e potente – affinché lui si riprendesse.
«Matt? Matt, mi senti? Ti prego, apri gli occhi! Parlami!», gli aveva detto dandogli dei colpetti sul viso, ma lui non si era mosso. «Matt, per favore!», e aveva continuato a colpirlo in quel modo e a scuoterlo finché lui non aveva mugugnato sommessamente, rinvenendo appena.
«Matt, ascoltami: devi bere il mio sangue, adesso o non ti riprenderai!», e a quelle parole, lui aveva come cercato di ribellarsi ad Evelyn, opponendo quella che, probabilmente, avrebbe dovuto essere una qualche forma di resistenza, ma che si era manifestata, in realtà, in movimenti appena accennati. Era stato troppo debole anche per aprire gli occhi.
«Matt, non abbiamo scelta! Bevi!». Un solo ordine e gli aveva messo il proprio polso davanti al viso, a contatto con le labbra.
Consapevole dell'effetto che gli facesse il suo odore e sapendo che, in quelle condizioni, Matthew non sarebbe stato capace di ribellarsi alla sua natura non avendone la forza, Evelyn aveva sperato solo che bevesse tutto ciò che gli fosse servito per guarire e rigenerare quelle dannate ferite.
Non si era fatta scrupoli ad offrirgli il proprio sangue pur ignorando quando lui si sarebbe ripreso, o se lo avrebbe fatto in tempo, prima di finire con l'ucciderla.
Non le era importato, purché lui fosse stato meglio e le avesse parlato di nuovo.
E quando l'aveva morsa e aveva iniziato a succhiare, finalmente le ferite che riempivano il corpo del vampiro avevano iniziato a guarire.
Ed Evelyn aveva sentito la paura abbandonarla.
Reazione curiosa, poiché proprio in quel momento – ne era stata cosciente – avrebbe dovuto avere paura; paura per la sua stessa vita. Una paura che, però, proprio non era riuscita a provare.
Anche in quel momento, con Matthew completamente schiavo dalla sete e che le stava bevendo dal polso, lei si era fidata. Ignorando anche il dolore che quel morso le aveva causato.
Non aveva avuto timore che lui potesse ucciderla, era stata certa si sarebbe fermato. Sapeva che sarebbe tornato lucido in tempo.
E così era stato. Matthew era tornato in sé prima di arrivare al punto di non ritorno e si era staccato terrorizzato da Evelyn, quando aveva compreso fosse suo, quel polso, e che lei era lì stesa al suo fianco, svenuta.
Evelyn era rimasta priva di sensi per un giorno intero e quando si era svegliata, si era ritrovata in un letto che non era il suo, con Matthew seduto su di una poltrona all'angolo opposto della stanza, che la fissava in maniera strana.
«Non mi avevi mai detto di avere un appartamento», gli aveva detto a mo' di saluto, guardandosi intorno e facendo due più due.
«L'ho preso dopo che abbiamo litigato la prima volta».
Evelyn aveva compreso subito che qualcosa non andava, perché c'era stata troppa calma nelle parole di lui, troppa calma nel suo viso, mentre gli occhi dicevano tutt'altro.
«Non mi ci avevi mai portata, prima».
«Perché lo hai fatto?». Matthew aveva ignorato le sue parole e le aveva, invece, posto quella domanda con tono accusatorio.
«Cosa, dormire? Mah, forse ero stanca». Sarcasmo.
«Sai cosa intendo, Evelyn», le aveva detto quasi ringhiando. Quell'apparente calma adesso significativamente incrinata. La ragazza allora aveva alzato un sopracciglio, infastidita. «Oh, intendi perché ti ho salvato la vita? Mmm, vediamo... non lo so. Forse perché ci tengo a te? – gli aveva risposto – Al mio posto avresti fatto lo stesso e lo sai».
«E' diverso». Benché Matthew avesse tentato di mantenere un tono calmo, le parole gli erano uscite ancora una volta come ringhio. La mascella contratta e la tensione nelle spalle e nelle braccia.
«E sentiamo: per quale arcano motivo lo sarebbe, Matt?».
«Per salvarmi potevi morire!». E alla fine le aveva urlato contro, esplodendo. «Non avresti dovuto offrirmi il tuo sangue, non mentre ero in quelle condizioni!».
«Perdonami, ma credo che quelle condizione fossero, invece, proprio quelle in cui ne avevi più bisogno!», gli aveva urlato a sua volta lei.
Era sempre stato così tra di loro: vinceva chi sapeva urlare più forte.
E nessuno dei due aveva mai amato perdere, soprattutto l'uno contro l'altra.
«Evelyn, avrei potuto ucciderti! Non ero cosciente in quel momento! Ero fuori controllo! Se non mi fossi ripreso in tempo, tu...».
«Ma lo hai fatto! Ti sei ripreso in tempo e ti sei fermato! Non mi hai uccisa e adesso stiamo bene entrambi, quindi smettila di fare l'idiota!».
«Perché non vuoi capire, dannazione?!».
Un secondo.
Un solo attimo e Matthew si era alzato da quella poltrona con quella sua velocità inumana e, in uno scatto d'ira, aveva fatto volare il tavolino lì accanto contro la parete. Spargendo in una pioggia di schegge di vetro, ciò che vi era stato sopra.
Evelyn, però, non si era fatta intimorire. Lo conosceva, ormai, e anche se quegli scatti erano molto rari – tanto da farla sobbalzare quando avvenivano – sapeva come gestirlo. Sapeva sempre come gestirlo, anche quando l'idiota si chiudeva a riccio.
Aveva quindi incrociato le braccia al petto e lo aveva fissato per qualche secondo, immobile. «Adesso ti senti meglio?», gli aveva domandato poi, impassibile.
Il vampiro l'aveva guardata truce, ancora in balia dell'ira. «Ti sarei immensamente grato, se la smettessi di scherzare», aveva sibilato.
Gli occhi azzurri animati dalla luce minacciosa di una rabbia appena controllata, come avessero voluto incenerirla – lei, che invece avrebbe potuto davvero incenerire lui con la sola forza del pensiero, se avesse voluto.
«E io ti sarei immensamente grata, se tu la smettessi di fare il coglione, Matt». Caustica. Perché lei aveva sempre saputo come gestirlo, anche dicendo le parole sbagliate. Parole che però erano le più giuste per lei, perché Evelyn aveva sempre avuto più rabbia di lui, dentro. Più rabbia di molti.
Matthew, a quel punto, aveva rindossato la solita maschera di calma apparente, sebbene un po' più tirata del solito, ma dalle mani freneticamente contratte Evelyn aveva compreso immediatamente come, in quel momento ancora più che in altri passati, quella fosse stata, appunto, solo una maschera.
«Evelyn, dannazione, perché...», ma aveva lasciato la frase in sospeso. Un altro ringhio, stavolta soffocato. Strozzato. Un ringhio che le era sembrato tanto una supplica.
E la ragazza allora aveva sospirato e aveva sceso la gambe dal letto, poggiando le mani sul bordo del materasso e guardandolo.
Aveva sempre detestato le volte in cui Matthew si comportava in quel modo – e le detestava tutt'ora –, quel suo chiudersi a riccio e trattarla come se lei non sapesse cavarsela da sola o prendere decisioni, anche rischiose, autonomamente.
Lei non aveva bisogno di essere costantemente protetta e aveva sempre detestato che Matthew, troppo spesso, pensasse il contrario.
«Cosa, Matt? Vuoi ancora sapere perché l'ho fatto? Perché ti ho offerto il mio sangue per salvarti la vita, a rischio della mia? E' davvero questo che mi stai chiedendo?».
Lui non aveva risposto, si era limitato a fissarla, immobile. Teso e rigido. Come a trattenersi dal fare qualcosa.
L'aveva capito, lei, che, ad una risposta ritenuta evidentemente scomoda, lui aveva preferito il silenzio. Lo capiva sempre. E sempre la esasperava, questo suo modo di fare. E così aveva sospirato un'altra volta, già stanca di quel suo modo di affrontare le discussioni.
«D'accordo, – aveva detto allora – dato che non ci arrivi da solo, te lo spiegherò: ti ho salvato la vita perché non volevo lasciarti morire. Non potevo. Mi sono tagliata il polso e ti ho fatto bere il mio sangue, l'ho fatto perché le tue ferite non si stavano rimarginando, l'ho fatto perché avevi bisogno di sangue e quello di una strega è più forte di quello di un qualunque altro umano. Ti ho fatto bere il mio sangue mentre eri privo di coscienza, debole e ferito, nonostante sapessi bene che avrebbe potuto essermi fatale, ma l'ho fatto perché, in quel momento, l'unica cosa che aveva importanza era salvarti. Mi sono fidata, Matt, e sapevo che non mi avresti fatto del male, accidenti! Sapevo ti saresti fermato in tempo! Mi sono fidata come ho fatto ogni singolo giorno da quando ho riposto la mia fiducia in te la prima volta e, se non ricordo male, non mi hai mai dato motivo per pentirmene, da allora. E se te lo stai chiedendo, sì: lo rifarei ancora».
«Evelyn, tu non capisci... Adesso che ho bevuto il tuo sangue, io...». Di nuovo una frase lasciata a metà. Ancora un ringhio soffocato e quella tensione che non aveva dato segno di voler abbandonare il suo corpo. Matthew si era voltato e aveva iniziato a camminare avanti e indietro per la stanza – a debita distanza da lei e dal letto –, passandosi convulsamente le mani fra i capelli. La maschera di simulata calma definitivamente caduta.
Evelyn, allora, era scesa da quel letto e si era avvicinata a lui. Non aveva idea del perché di tutto quel comportamento e l'unica cosa che aveva desiderato, in quel momento, era che lui glielo spiegasse guardandola negli occhi.
«Matt...», ma non appena gli aveva poggiato una mano sulla spalla, lui si era voltato di scatto, come scottato da un fuoco invisibile o da acido corrosivo.
Era stato un attimo, un urlo – «Non toccarmi!» – e con una sola spinta, il vampiro l'aveva fatta volare di nuovo sul letto.
A un paio di metri da sé.
«Matt, ma che diavolo...!».
«Non. Toccarmi». Un sibilo che l'aveva ferita più di un pugnale piantato nel petto.
Ma a quel punto non ce l'aveva più fatta, Evelyn era scesa di nuovo dal letto, furiosa, ed era scoppiata anche lei. «Accidenti a te, Matt! Si può sapere cosa cazzo ti prende, dannazione?!».
«Mi prende che in questo momento ho voglia di ucciderti!».
E a quelle parole, la giovane si era paralizzata.
Immobilizzata sul posto da sole dieci parole.
E aveva sentito l'aria nella stanza immobilizzarsi anch'essa.
«Sì, hai capito bene, Evelyn», aveva soffiato lui, ed Evelyn non era riuscita a capire se fosse stata soddisfazione o risentimento, l'emozione che aveva visto lampeggiargli per un attimo sul viso. «In questo momento io voglio ucciderti. Ho una voglia insostenibile di affondare i miei denti nel tuo collo o in qualunque altro punto del tuo corpo e bere fino all'ultima goccia del tuo sangue».
Parole violente, che promettevano morte; parole dette con un tono basso, calmo e per questo ancora più minacciose. Un tono che da solo serviva a rassicurarla sulla loro veridicità. E Matthew aveva iniziato ad avanzare verso di lei, lentamente. Con passo calcolato, felino e flessuoso, inquietante. Facendola arretrare istintivamente – perché l'istinto è sempre più forte della sorpresa, anche di quella fredda e paralizzante. Di quella che promette un gelido bacio di morte.
«Mi prende che in queste ultime ventiquattr’ore in cui eri svenuta nel mio letto, l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era morderti di nuovo».
Un altro passo avanti di lui, un altro passo indietro di lei.
«Mi prende che non ho davvero idea di come sia riuscito a trattenermi fino ad ora, col tuo odore addosso, col tuo sapore nella gola».
Un altro passo avanti di lui, ancora uno indietro di lei.
E adesso, le gambe di Evelyn si erano trovate a diretto contatto del materasso.
«Mi prende, Evelyn, che in questo momento, tutto quello che desidero è afferrarti, immobilizzarti a quel letto e finire quello che ho iniziato ieri. – e poi si era corretto – Quello che tu mi hai fatto iniziare».
Ancora un altro passo in avanti di lui ed Evelyn era caduta seduta sul letto, nel tentativo di arretrare ancora.
«Mi prende», le aveva detto chinandosi in avanti verso di lei e poggiando i palmi ai lati del suo corpo, sul materasso, costringendola a stendere la schiena più indietro, poggiandosi sui gomiti, «che averti qui davanti a me, viva e pulsante, mi sta facendo impazzire. Sentire il battito frenetico del tuo cuore, vedere le tue guance arrossate e accaldate, vederti così impaurita...», e le aveva sfiorato una porzione di collo fino alla guancia con la punta naso, annusando il suo profumo e provocandole un brivido a stento trattenuto, prima di continuare, «...mi piace come non mi è mai successo prima e sento che mi farà perdere il controllo molto presto... Adesso capisci, Evelyn, che cosa mi prende?». Aveva soffiato in fine, ad un centimetro dalle labbra di lei. Gli occhi resi folli e dilatati dalla sete e una nota di tagliente ironia nella voce.
Il più pericoloso di tutti i predatori di fronte alla preda che più sfrenatamente bramava.
Evelyn era rimasta immobile, con lo sguardo incatenato a quello azzurro di lui, in quel momento liquido e più scuro per la sete – o forse per altro? Era davvero il suo sangue l'unica cosa che bramava di lei, in quel momento? Non aveva potuto fare a meno di chiederselo.
Il respiro accelerato, il petto che si alzava e si abbassava veloce, il cuore che le martellava nella cassa toracica; Evelyn aveva avvertito ogni muscolo del proprio corpo tendersi alle prime parole del vampiro e adesso, quasi stesa sotto di lui, quella tensione era diventata praticamente insostenibile.
«Adesso capisci perché non avresti dovuto darmi il tuo sangue?», le aveva soffiato di nuovo lui. Con voce bassa, roca e minacciosa. Di nuovo quella rabbia mal celata, quella rabbia in cui, lei, ci aveva visto tanto un'accusa carica di rancore.
«Sì», ed Evelyn si era sorpresa di come la voce le fosse uscita ferma, nonostante il vortice di sensazioni che in quell'istante la stordivano. Ed erano state sensazioni ben diverse da quelle che avrebbe dovuto provare.
«Quindi, adesso, finalmente hai paura». E quella di Matthew non era stata un domanda. C'era stata certezza, in quella frase, la certezza che quello che lui aveva visto negli occhi di lei fosse terrore.
Ma Evelyn aveva sempre avuto la tendenza a sorprenderlo.
«No».
«Come?». Incredulità.
E sorpresa.
E confusione.
«No. Non sono spaventata», gli aveva soffiato lei di rimando. La voce sempre ferma e calma. Sincerità.
Matthew aveva digrignato i denti e i suoi canini si erano allungati pericolosamente, mentre le mani avevano artigliato il lenzuolo sotto di esse. «Che cosa vuol dire?», le aveva ringhiato basso contro.
«Quello che ho detto: non sono spaventata. Non ho paura di te». Sfida. E ancora sincerità.
«Menti! – di nuovo un ringhio di lui, sempre con quel tono basso e i canini che promettevano una minaccia autentica e reale – Vedo come sta reagendo il tuo corpo alla mia vicinanza! Vedo come respiri veloce, sento come ti batte freneticamente il cuore! Tu hai paura!».
Un ultima frase quasi sputata, tanto era stata la convinzione e l'astio con cui l'aveva detta.
«No. – Fermezza – Sei tu che hai capito male, Matt». Calma e ancora sincerità. Disarmante e incomprensibile, sincerità.
Una frase quasi bisbigliata. Carica quasi di... dolcezza.
«Capito male?! Ragazzina, smettila di fare...». Ma non aveva completato la frase, perché le labbra di Evelyn gli avevano fatto morire le parole in gola. Matthew era rimasto paralizzato, gli occhi sgranati e ogni muscolo completamente immobile. Rapito dalla morbidezza e dal calore delle labbra della ragazza sotto di sé. Quella ragazza che non lo temeva nonostante lui le avesse confidato quanto desiderasse ucciderla. Quella ragazza che lo aveva baciato nonostante lui fosse stato sul punto di morderla. Nonostante avesse sentito chiaramente i canini di lui, affilati e crudeli, mentre lo baciava.
Incredulità e sorpresa e confusione.
Disarmante e incomprensibile sincerità.
Sfida, calma, fermezza.
Dolcezza
E ora,completezza.
Evelyn lo aveva baciato lentamente ma con passione, perché per troppo tempo aveva desiderato un contatto di quel genere e se lo era negato.
Quando poi aveva staccato le labbra da quelle di lui, col fiato corto e pentendosene quasi, lo aveva fissato di nuovo in quegli occhi azzurri.
«Adesso capisci perché non ho paura di te, Matt?». Un sussurro, carico di emozione, aspettativa e significati.
«Evelyn, cosa diavolo...», aveva quasi tremato il vampiro ma lei lo aveva interrotto di nuovo, con un altro bacio.
Stavolta approfittando maggiormente della situazione e approfondendo subito quel bacio che le aveva, in un solo istante, acceso ogni millimetro del proprio corpo. Risvegliando un calore che troppo spesso l'aveva quasi consumata, standogli vicina, in quegli ultimi due anni, dopo che aveva abbattuto ognuna delle proprie barriere. E adesso, aveva abbattuto anche l'ultima.
Così gli aveva messo le braccia al collo e aveva immerso le mani nei suoi capelli castani, arpionandosi a quel corpo ancora immobile per la sorpresa e di cui aveva avvertito la rigida tensione. Ma Evelyn aveva desiderato che Matthew fosse partecipe, di quel bacio, aveva desiderato che anche lui abbattesse l'ultima barriera, così se lo era tirato addosso, stendendosi completamente sul materasso e allacciandogli le gambe alla vita. Stringendolo in un abbraccio caldo e intimo, baciandolo con un trasporto a cui, finalmente, anche lui aveva dato risposta.
Matthew si era come svegliato d'improvviso, ricambiando anche lui quel bacio con la stessa passione di Evelyn e con un'irruenza anche maggiore. Le aveva tolto il fiato, lui che non aveva per forza bisogno di respirare mentre lei aveva sempre creduto il contrario per se stessa. E mai come in quel momento aveva compreso di essersi sbagliata, perché, in realtà, con la bocca di Matthew sulla sua, nemmeno lei aveva gran bisogno d'aria.
Nella sua stanza afosa e buia, Evelyn si portò automaticamente un dito alle labbra, ripensando a quel bacio. E sospirò ripensando ad ogni bacio di quella notte, ripensando ad ogni volta che Matthew l'aveva toccata, ogni volta che aveva sentito la perle bruciarle, a contatto con quella di lui, ogni volta che l'aveva sentito come aveva desiderato sentirlo per troppo tempo e come desiderava sentirlo ancora.
Ripensò ad ogni dettaglio marchiato a fuoco nel suo cervello – ogni dettaglio che la tormentava da più di un anno, ormai. Come quando, dopo aver risposto al bacio, Matthew l'aveva afferrata e l'aveva spostata facendola stendere meglio, con la testa sui cuscini, e ad una tale velocità che lei quasi non se n'era accorta. Ripensò a come non si fosse staccato praticamente un solo istante dalle sue labbra, torturandogliele, succhiandogliele e mordicchiandole con foga, massaggiandole con la lingua prima di insinuarla dentro la sua bocca senza trovare la minima resistenza, andando a incontrare quella di lei. L'intensità e la profondità di quel bacio l'avevano lasciata spossata ed Evelyn, all’epoca, se n'era stupita; aveva capito che, con un solo gesto dettato dall'istinto più viscerale, aveva portato Matthew a lasciarsi andare del tutto e lui le aveva riversato addosso se stesso come mai Evelyn aveva immaginato – e in parte sperato – avrebbe fatto.
Era stato come aprire una diga e poi rimanere fermi aspettando di venire travolti dall'acqua. Matthew l'aveva travolta come la piena di un fiume e lei si era semplicemente lasciata annegare in lui.
Vi erano stati bisogno disperato e passione troppo a lungo repressa, in quel bacio, e quando Evelyn lo aveva metabolizzato aveva accolto quel bisogno e quella passione affinché si fondessero coi propri. Il bisogno di sentire l'uno la pelle dell'altra, mentre i vestiti di entrambi erano stati tolti con malagrazia e lanciati chissà dove. Il bisogno di essere certi che quel momento, quel contatto, stesse avvenendo davvero, mentre si erano stretti febbrilmente.
La passione irruenta che li aveva avviluppati nelle sue spire ardenti mentre erano avvinghiati in quell'abbraccio carico di significati, la passione irruenta da cui si erano lasciati avvolgere mentre si erano toccati e cercati freneticamente, come avessero temuto che l'uno o l'altra potessero sparire da un momento all'altro, rivelando che quella che avevano ritenuto realtà fosse stata, invece, solo un sogno.
Evelyn ricordava la forza con cui Matthew le aveva afferrato i polsi e glieli aveva tenuti ai lati della testa, quando era tornato a baciarla dopo averle tolto la maglia. Ricordava quella forza che era stata quasi rabbiosa. Non le ci era voluto molto per capirlo, mentre le dita di lui le stringevano la pelle, consapevoli e incuranti di farle male. Matthew l'aveva stretta a quel modo perché voleva farle male, voleva farle capire che lei doveva avere paura, che lui era pericoloso. Un solo gesto sbagliato e avrebbe potuto ucciderla. Ma Evelyn non si era scomposta, aveva continuato a baciarlo senza opporsi a quella stretta e, anzi, aveva ribaltato la posizione rotolando sul fianco, così da metterglisi sopra. Spingendo il bacino sull'eccitazione evidente di lui, ancora chiusa nei jeans, e strappandogli un gemito roco, prima di staccarsi dalla sua bocca e fissarlo negli occhi. Le mani del vampiro ancora a stringerle i polsi.
Evelyn lo aveva fissato negli occhi azzurri e limpidi come il cristallo, profondi, liquidi e torbidi come le acque del fiume da cui si era lasciata travolgere. Non aveva sbagliato, in quegli occhi come nella presa delle sue mani c'erano rabbia e disperazione, emozioni che lui aveva esternato, sì, ma che, in realtà, aveva usato per tentare di nascondere un timore profondo e radicato. Un timore risvegliato nel momento in cui lui aveva capito quanto fosse stato realmente vicino all'ucciderla, la sera precedente e tutta la notte che aveva trascorso a guardarla dormire, aspettando che lei si risvegliasse. La notte in cui si era imposto di rimanere ancorato a quella poltrona dall'altro lato della stanza, lottando ogni secondo, ogni minuto, ogni ora con la sete folle che aveva provato e che aveva desiderato ardentemente di soddisfare. La notte che aveva trascorso lottando contro quel desiderio totalizzante, guardandola e pensando solo a quanto avrebbe desiderato bere ogni goccia di lei e se l'era impedito.
«Smettila», gli aveva detto Evelyn in un bisbiglio, ansante.
«Di fare cosa?», e la stretta sui polsi si era fatta ancora più forte.
«Lo sai. Puoi stringere quanto vuoi, non cambierò idea. So quello che saresti capace di farmi, non c'è bisogno di tutto questo».
«Se lo sai, allora sei stupida a voler continuare», aveva commentato lui, velenoso e con voce bassa.
«Matt, che cosa vuoi dimostrare?». Un altro bisbiglio. Occhi negli occhi. Non c'era stata alcuna emozione particolare, nella voce della ragazza. Semplicemente una domanda fatta col cuore che le martellava nel petto per l'eccitazione e la voglia irrefrenabile di tornare a baciarlo, e il desiderio di sentire una risposta sincera. Una risposta priva di quella snervante serie di sotterfugi e reticenze di contorno che lui sembrava amare tanto.
Lui non aveva risposto – ovviamente –, limitandosi a fissarla intensamente, spostando freneticamente lo sguardo dai suoi occhi scuri alle labbra, al collo carezzato lievemente dai boccoli neri e al seno che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro accelerato.
«Io mi fido di te», il sussurro di lei aveva rotto il silenzio. Una semplice frase a cui il vampiro aveva risposto con un altro ringhio – più un ruggito, in effetti – disperato. «Be’, non dovresti!», aveva sibilato ribaltando di nuovo la posizione e sovrastandola, schiacciandola al letto col proprio peso. Le mani ad artigliarle ancora i polsi e il viso a mezzo centimetro dal suo. «Non dovresti fidarti di me! Non dovresti, sono fuori controllo! Tu non devi!». Ed era tornato a baciarla, stavolta con prepotenza. E sempre con prepotenza le aveva sfilato, con un gesto compiuto ad una velocità impossibile, il reggiseno e le aveva bloccato entrambi i polsi sopra la testa, ora tenendoglieli con una sola mano mentre con l'altra era sceso sul suo seno. Torturandoglielo con le dita e poi con le labbra. Eppure, nonostante la presa sui suoi polsi fosse stata ferrea, a Evelyn non era sfuggita la differenza con cui si era dedicato al suo seno: con irruenza, sì, ma senza violenza. Strappandole gemiti e sospiri a cui era seguito l’ulteriore irrigidirsi della stretta di quella sola mano.
«Matt... gua... ah!». Aveva cercato di chiamarlo ma lui le aveva fatto morire le parole in gola infilandole la mano libera dentro i jeans, a stuzzicarla e a farla ansimare più rumorosamente.
Aveva voluto distrarla, aveva tentato di dirle che lui avrebbe potuto farle qualunque cosa. Aveva tentato di dimostrarle perché lei non avrebbe dovuto fidarsi, ma nonostante le intenzioni non era riuscito ad imprimere una reale violenza, in quei gesti. Solo nella mano stretta intorno ai suoi polsi, tutto il resto era stato desiderio e basta.
Ma Evelyn sapeva sempre come gestirlo, anche quando l'idiota si chiudeva a riccio. Per questo, si era imposta di ritrovare un briciolo di lucidità ed era riuscita a dire un'unica parola – «Guardami» – uscita dalle sue labbra come un ordine perentorio.
E a quell'ordine, lui finalmente aveva alzato lo sguardo e quello che Evelyn aveva visto l'aveva quasi commossa. Negli occhi azzurri di lui, liquidi di desiderio, aveva distinto chiaramente una patina di lacrime di dolore a stento trattenute.
Si erano fissati di nuovo occhi negli occhi in silenzio, entrambi ansimanti, il corpo di lui praticamente steso su quello di lei.
Per Evelyn era stata una violenza parlare, dover pronunciare parole che riteneva inutili – e le considerava tali anche adesso – ma lo aveva fatto. Aveva preso un respiro più profondo degli altri e gli aveva parlato: «Se tu non ti fidi di te stesso allora fidati di me. Mi conosci, sai che non sono una ragazzina indifesa, sai che sono capace di reagire e difendermi – anche da te, Matt – se le cose dovessero mettersi male». Il respiro di lui si era fatto ancora più veloce a quelle parole, un'espressione completamente sconvolta – a metà tra una lussuria trattenuta a stento e che non era solo lussuria, perché non lo sarebbe mai stata, tra loro due, e l'indecisione, la convinzione di non poterlo fare.
«Lasciami», gli aveva detto quindi lei. Ma in risposta, la stretta del vampiro si era fatta più ferrea, crudele, e aveva contratto la mascella, in un chiaro rifiuto.
«Matt, ti ho detto di lasciarmi andare. Lasciami i polsi, fallo».
Dio, quanto l’aveva sempre fatto infuriare quel suo modo di reagire con quella calma disarmante! Com’era capace di farlo, come poteva mostrare una simile tranquillità, una simile fermezza, in una situazione del genere?!
Lo aveva sempre fatto infuriare, lo faceva ancora, ci riusciva sempre – pensò Matthew, appoggiato di schiena all'albero in giardino. Col viso rivolto verso l'alto a fissare la finestra della stanza di lei.
«D'accordo», aveva commentato Evelyn, improvvisamente seria in volto, al cocciuto rifiuto di lui.
Una sola parola e, l'attimo dopo, Matthew aveva avvertito un calore inusuale al palmo della mano con cui le stringeva i polsi. Un calore che si era fatto in pochi attimi più intenso, doloroso e che gli aveva bruciato la pelle costringendolo a mollare la presa imprecando, mentre l'odore di carne bruciata gli era giunto alle narici. Evelyn ne aveva approfittato subito, togliendoselo di dosso e sedendoglisi sopra, a cavalcioni su di lui che la fissava confuso.
Era stata una bruciatura leggera, quella che gli aveva fatto alla mano, e gli era già quasi guarita del tutto, ma era servita allo scopo.
«Adesso mi ascolti?».
«E quello che cos'era?».
«Una dimostrazione. Dato che non vuoi credere a ciò che ti dico, è evidente che non ho alternative se non passare ai fatti», gli aveva detto con voce bassa ma aspra, adesso lei e tenergli fermi i polsi ai lati della testa. «Non sono una ragazza come le altre, questo mi sembrava lo avessimo appurato due anni fa. So come difendermi, so quando una situazione si fa pericolosa e so agire di conseguenza. Non hai bisogno di comportarti dall’uomo nato alla fine del '700 quale sei».
«Quindi?», aveva ribattuto ironico.
«Quindi possiedo dei poteri, ricordatelo, Matt. Sono una strega, non devi mai permetterti di dimenticarlo. Non sono indifesa e non ho bisogno di essere protetta da qualcosa che voglio, da qualcosa che desidero fare. So quando il gioco non vale la candela e questo non è uno di quei casi. Tu non sei uno di quei casi».
Fermezza.
Matthew aveva sempre detestato quando Evelyn lo trattava in quel modo, quando usava quella fermezza, appunto. Lui non l'aveva mai ritenuta debole o fragile, era di se stesso che non si fidava. Soprattutto se era con lei.
Eppure – lo ricordava bene – quella fermezza, quelle parole così perentorie e autoritarie, quelle parole che gli erano sembrate tanto un avvertimento, un ultimatum, lo avevano ammutolito. Erano riuscite ad abbattere i suoi tentativi di trattenersi, erano riuscite a destabilizzarlo, come sempre gli accadeva quando era con lei. Avevano messo in crisi la sua sicurezza, dimostrandogli come fosse stata solida, invece, quella di lei.
Gli avevano impedito persino di replicare.
«Se non ti fidi di te stesso allora fidati di me».
Di nuovo gli aveva ripetuto quella frase bisbigliata, carica solo di desiderio e bisogno, e le labbra di Evelyn avevano incontrato di nuovo le sue e, stavolta, Matthew non aveva fatto più nulla per impedire che ciò che volevano entrambi così disperatamente accadesse.
Non ne aveva più avuto la forza.
Non si era più opposto, non aveva più cercato di fermarla, o d'imporsi su di lei, o trattenerla. Né di trattenere se stesso.
Si era lasciato andare. Tutta la notte, rapito da lei. Si era lasciato travolgere da Evelyn e da quello che lei aveva sempre scatenato in lui.
Non l'aveva fermata quando gli aveva sbottonato i jeans e glieli aveva sfilati, rubandogli un gemito e un sospiro di sollievo, né quando si era dedicata a lui come Matthew aveva fatto prima con lei, e intanto era scesa a baciargli il petto e gli addominali. Ma aveva dovuto fermarla quando il ritmo delle sue mani si era fatto troppo intenso e lui aveva rischiato di concludere prima ancora di cominciare, tali erano la voglia e la sete che aveva di lei.
E non era riuscito a fermare se stesso quando le aveva, praticamente, strappato di dosso i pantaloni e poi anche quell'ultima, inutile, barriera, e finalmente l'aveva sentita. Pelle contro pelle. Quando le era entrato dentro e l'aveva vista boccheggiare e sgranare gli occhi prima di richiuderli, in preda al piacere. Guardarla l'aveva rapito, aveva spiato ogni reazione del suo corpo, ogni più piccola espressione del suo viso finché aveva potuto, fino a che il piacere aveva appannato anche la sua vista, costringendo anche lui a chiudere gli occhi. Costringendo entrambi a vedere soltanto coi sensi – con le mani, con le labbra, con le orecchie piene dei loro sospiri e dei loro gemiti.
Quel piacere inscindibile dal bisogno che li aveva costretti a ricercarsi ogni momento, a mantenere sempre un contatto tra i loro corpi, anche dopo essersi crollati addosso esausti e sconvolti dai tremiti. Un bisogno inscindibile dalla passione strisciante e bruciante, inscindibile da quella urgenza disperata che li aveva portati a ricominciare, fino allo stremo.
Evelyn strinse convulsamente il lenzuolo tra le dita, aggrappandovisi, mentre quei ricordi si facevano largo in ogni più piccolo dettaglio nella sua mente.
E Matthew diede un pugno al tronco dell'albero, con un rumore sordo, reprimendo il ringhio gutturale che gli era salito su per la gola, sentendo le mani di lei toccarlo, in quei ricordi, come se lo stessero facendo davvero e di nuovo, proprio in quel momento.
Poi la ragazza rotolò per l'ennesima volta sul letto, sbuffando, e diede anche lei un pugno ma al materasso, poiché altri ricordi le si presentarono davanti agli occhi. I ricordi della mattina successiva, quando ci si era svegliata sola, in quel letto. Sola nell'appartamento di lui. E lo aveva sentito subito, aveva avvertito immediatamente che Matthew non era in casa, quando si era svegliata. Non aveva avuto bisogno di cercarlo.
Ed Evelyn ricordava anche benissimo l'angoscia che l'aveva attanagliata alla bocca dello stomaco, perché dove diavolo poteva essere, alle undici e mezza di mattina, col sole? Perché, dopo quella notte – la loro notte – lui se n'era andato? Che cosa poteva essere accaduto?  E perché, quando si era concentrata per cercare di capire, non era riuscita a sentire la sua presenza in tutta la città? Perché non era riuscita a sapere nel modo in cui lei sapeva sempre, dove lui si trovasse?
Con quelle domande a tormentarle la mente non aveva perso un solo secondo e, ancora nuda, aveva afferrato il proprio cellulare – che, certamente, lui le aveva lasciato sul comodino affinché lo trovasse – e l'aveva chiamato. Ma Matthew non aveva risposto. Lo aveva chiamato una decina di volte, senza risultato, e poi aveva chiamato Meredith e Mark, chiedendo sue notizie ma ricevendo risposte negative da entrambi. E lo aveva richiamato di nuovo e di nuovo, lo aveva chiamato almeno una trentina di volte, in quelle ore, ma lui non le aveva mai risposto.
Solo dopo, rivestendosi, l'occhio le era caduto su uno dei tre segni rossi di morsi che aveva sul corpo. Si era avvicinata allo specchio di legno accanto all'armadio, per vederli meglio, e il dubbio aveva cominciato a farsi strada nei suoi pensieri.
Quei segni di morsi erano stati particolarmente evidenti, sulla sua pelle chiara. Ormai già quasi rigenerati del tutto dal suo corpo di strega, ma ancora rossi e un po' gonfi. Ne aveva uno sul collo, il secondo nella zona del fianco appena sotto il seno sinistro, e il terzo sul braccio destro, quasi all'incavo del gomito. E a quelli si aggiungevano la cicatrice ormai sbiancata dagli anni del primo morso che Matthew le aveva dato, la notte in cui si erano ritrovati, e il segno di quello che si era procurata ormai due sere prima, nello scantinato, quando gli aveva offerto il proprio sangue per guarirlo. E il dubbio aveva iniziato a insinuarsi, tra i pensieri di Evelyn, si era fatto strada secondo per secondo, strisciante e inequivocabile nella sua logica. E da dubbio, era diventato certezza. Aveva capito perché Matthew se ne fosse andato.
Sapeva perfettamente che lui l'aveva morsa, quella notte. Se n'era accorta, li aveva sentiti, i canini di lui, penetrarle nella carne, ma non le era importato. Non aveva sentito nemmeno dolore, in realtà, non era stato come la prima volta che lui l'aveva morsa. Non aveva sentito quella fitta acuta che le aveva mozzato il respiro. E non era stato nemmeno come nello scantinato, quando prima la paura e poi il sollievo le avevano fatto ignorare il dolore. No, aveva sentito solo un fastidio iniziale e poi era stato come avvertire ciò che lui provava, mentre si trovavano stretti nell'amplesso. Sensazioni che si erano unite e avevano amplificato le sue. Ed era stato stupendo.
Ma la vera domanda che Evelyn si era posta era stata: Matthew si era accorto di averla morsa? Era possibile che lo avesse fatto senza rendersene conto?
Il vampiro era stato via un mese. Trenta interi, lunghissimi giorni in cui era sparito dalla circolazione, era sparito dalla città ed era sparito dalla vita di Evelyn. Senza una parola. Non si era fatto più sentire.
Nemmeno una volta aveva risposto alle telefonate della ragazza, nemmeno una volta aveva risposto ai messaggi che lei gli aveva lasciato sulla segreteria, nemmeno una volta l'aveva richiamata.
E poi era rispuntato dal nulla, la sera del trentesimo giorno. Dopo che Evelyn aveva trascorso quel mese a cercarlo, in parte terrorizzata all'idea che lui potesse fare qualcosa d’idiota, in parte – la maggior parte, in effetti – covando una rabbia profonda. Perché Matthew aveva preso una decisione che riguardava entrambi senza consultarla. Senza pensare di chiederle nulla, prendendosi delle colpe che non aveva. Comportandosi dal martire che non era, non era mai stato e che, con lei, non aveva motivo di essere. Non l'aveva mai avuto.
E quando, quella sera del trentesimo giorno, aveva di nuovo avvertito la presenza di Matthew prima ancora di ritrovarselo alle spalle, la reazione di Evelyn era stata piuttosto risoluta: lo aveva scagliato contro la parete senza nemmeno voltarsi. E sospeso a mezz'aria, contro quel muro, ce lo aveva lasciato.
«Ben tornato», gli aveva detto con tono glaciale ma sarcastico, prima di voltarsi. «Fatto buon viaggio?».
«Se non è di troppo disturbo, ti dispiacerebbe farmi scendere, per favore?», le aveva domandato lui, con un po' di sforzo nella voce, data quella posizione scomoda e inusuale a cui lei l'aveva costretto.
«Oh no, nessun disturbo, figurati», e Matthew era volato dall'altra parte della stanza. Atterrando in malo modo sul pavimento.
«Ti ringrazio, Evelyn». Le aveva risposto, rimettendosi in piedi.
«Devo supporre che la crisi mistica sia finita, se sei tornato». Sarcasmo tagliente e un sorriso freddo sulle labbra.
«Per favore, non fare così».
Le parole sbagliate, dette dalla persona sbagliata, nel momento sbagliato.
E Matthew aveva fatto un altro volo per la stanza.
«Così come? Davvero non capisco a cosa tu ti stia riferendo, Matt».
«Ok, Evelyn, ho capito: sei arrabbiata». Aveva tentato di rialzarsi, ma lei era stata più veloce. E lo aveva fatto volare un'altra volta.
«Arrabbiata, Matt? Oh, e perché mai dovrei?». Un altro volo. «Sei solo sparito per un mese intero – e a quel punto, lo aveva spedito contro il soffitto – dopo che avevamo passato la notte insieme», e poi lo aveva lasciato cadere sul pavimento. «Davvero, non capisco perché dovrei essere arrabbiata! », aveva urlato infine, scaraventandolo contro lo stipite della porta. E lui era caduto a terra tossendo, a causa del colpo.
«Sei sparito, Matt! Per un mese! E non hai avuto la decenza di chiamarmi una sola volta, nemmeno per tranquillizzarmi, nemmeno per dirmi che eri vivo e stavi bene! Hai idea di quanta paura io abbia avuto? Riesci minimamente ad immaginare il terrore che si prova, quando temi che la persona che a... – ma si era corretta subito – che una persona a cui tieni si sia fatta trasformare in polvere, magari esponendosi alla luce del sole?! Hai almeno una vaga idea di quello che mi hai fatto passare?! >>.
Puro risentimento, furia a stento controllata.
Perché Evelyn aveva sempre avuto più rabbia di lui, dentro. Più rabbia di molti.
«E tu hai la vaga idea di quello che ho provato io, mentre non riuscivo a prendere sonno e ti guardavo dormire, quando mi sono accorto dei segni dei morsi?! Hai idea di quello che ho provato, sapendo quello che ti avevo fatto?!».
Perché era sempre stato così, tra di loro: vinceva chi sapeva urlare più forte.
«Fatto cosa, Matt? Credi che io non lo sapessi già, che non ti avessi sentito mordermi mentre facevamo l'amore?!».
«E allora perché non mi hai fermato?! Se tu sapevi che cosa ti avevo fatto, se lo sapevi mentre te lo stavo facendo, avresti dovuto fermarmi!».
«No, invece! Non dovevo e non l'ho fatto, perché non è stato nulla di grave! Non c'è stata una sola cosa, di quella notte, che io non abbia voluto! E non c'è una sola cosa per cui mi sia pentita!».
«Evelyn, io non posso stare con te! Non in quel modo, non posso! Perdo il controllo in una maniera che non mi è mai capitata in più di duecento anni! Non posso permettermi di rischiare e finire, un giorno, con l'ucciderti!».
«Non è una scelta che puoi prendere da solo! Riguarda, innanzitutto, me! Se non ti fidi di te stesso, allora fidati di me!».
Quell'ultima frase, quella frase che gli aveva ripetuto per due volte, quella notte. Era stato con quella frase che l'aveva zittito.
Matthew l'aveva fissata quasi boccheggiando, non sapendo che cosa risponderle – quella fermezza, quelle parole così perentorie e autoritarie, quelle parole che gli avevano impedito persino di replicare.
Così lei aveva continuato, imperterrita: «Entrambi avvertiamo cose ciò che riguardano l’altro. Tu sai che dico la verità quando dico che non mi hai fatto male, che non mi hai fatto nulla! Lo senti, Matt, dannazione! Allora perché ti comporti da idiota?!».
«Evelyn, mi dispiace», gli occhi bassi per un momento, prima di rialzarli su di lei, «…ma non posso. Anche se per te non è stato grave, per me lo è. Non potrei vivere con la consapevolezza di averti fatto del male, non lo sopporterei».
Ed Evelyn aveva provato una sensazione strana, a quelle parole; come di un qualcosa che le andava in frantumi, tra le costole. Qualcosa che si era rotto dopo essere stato preso a calci.
«Dio, Matt, non ti rendi conto che male me ne stai facendo comunque?», aveva ribattuto esasperata. Poi gli aveva voltato le spalle, esausta, e si era passata le mani tra i capelli, ravvivandoseli sulla nuca. Aveva preso un respiro profondo e scosso la testa, per quella situazione totalmente assurda e paradossale. In fine, aveva sbattuto convulsamente le palpebre, proibendosi di versare una sola lacrima. Ma quando si era voltata di nuovo per fronteggiarlo, la rabbia nelle sue iridi scure era palese, insieme a qualcos’altro di più doloroso e profondo.
«Sei incredibile, lo sai, vero?», era sbottata sarcastica e retorica. «All'inizio di tutta questa storia, quando io non volevo avere niente a che fare con te, quando non volevo saperne nulla, mi hai praticamente perseguitata. E adesso che sono passati due anni e che ci conosciamo come non potremmo conoscere nessun altro, e sappiamo quello che c'è tra di noi – perché lo abbiamo sempre saputo, Matt, anche quando fingevamo di ignorarlo, anche quando fingevamo che ciò che sentivamo non avesse alcun significato –, ora che lo abbiamo accettato e dopo tutto quello che abbiamo passato insieme… Adesso tu ti tiri indietro».
«Io non mi sto tirando indietro, Evelyn»
«Oh sì, invece». E quel qualcos’altro di più doloroso e profondola delusione – si era manifestato con chiarezza. «Tutte queste sono solo scuse. Il fatto di non riuscire a controllarti, il temere di farmi del male quando ti ho detto – e non una volta – che non può accadere perché io so badare a me stessa, tutte queste sono delle scuse e basta. Ti stai tirando indietro perché hai paura, sì, ma di rischiare. E se tu vuoi far finta che quello che ho detto non sia vero, che non è per la paura di rischiare che lo stai facendo, va bene. E' affar tuo. A questo punto non posso farci niente. Ma non pretendere che creda anche io ad una cazzata del genere. E adesso vattene, fuori da casa mia, adesso! Non voglio vederti per ora, quindi vattene».
E lui se n'era andato. L'aveva lasciata da sola come lei aveva chiesto. L'aveva lasciata a raccogliere i pezzi di quel qualcosa che Evelyn aveva sentito rompersi dentro di lei, tra le costole.
Da quel giorno, da quella trentesima sera in cui lui era tornato, il loro rapporto non era stato più lo stesso. E non lo era più stato per molto tempo.
Quell'ultimo anno era stato un inferno per entrambi. Evelyn, per un periodo, non aveva tollerato nemmeno la vista di Matthew. Non c'era riuscita, non ce l'aveva fatta a vederlo ogni sera, come se nulla fosse successo, dopo quello che c'era invece stato tra di loro. Dopo quella notte, quel dannato mese e dopo quella maledetta lite, la sera del trentesimo giorno.
E ogni volta che lo aveva sentito arrivare, aveva eretto una barriera mistica sulla casa, così da impedirgli di entrare.
Aveva fatto in modo di vederlo il meno possibile e lui aveva rispettato quella decisione di lei, fino a che, una sera, era scoppiato.
Matthew ricordava bene quella lite, la ricordava come tutte le liti di quell'ultimo anno. E la ricordava perché era stata violenta senza che si fossero gridati addosso. Era stata sfiancante ed esasperante, anche non si erano scontrati come loro solito.
Matthew la ricordava, quella lite, perché lo aveva traumatizzato vedere Evelyn con quell'aria gelida. Parlare con lei, che lo aveva fissato impassibile, senza emozione alcuna nel volto, con gli occhi freddi e spenti - quegli occhi castani e caldi che lui amava così tanto e che non lo avevano mai guardato a quel modo, non lui. Quegli occhi in cui il vampiro aveva sempre visto così tante cose, in cui lui ci aveva sempre visto tutto e in cui, durante quella lite (e tutte le liti di quell’anno), non aveva visto più nulla.
Per Matthew era stata talmente traumatico, l’atteggiamento di Evelyn, da portarlo a cercare di scuoterla in tutti i modi – lui che non aveva quasi mai mostrato le proprie emozioni se non nelle mani – senza, però, riuscirci. Senza ottenere nulla se non quegli sguardi vuoti e freddi e quelle espressioni impassibili. Solo le parole di Evelyn avevano esternato qualcosa e lo avevano fatto sempre in maniera tagliente e laconica. Liti che si erano svolte quasi in sordina, pacatamente, cinicamente. E che avevano causato ferite costantemente aperte e infette in entrambi.
E avevano trascorso mesi a litigare in quel modo, a non viversi in quel modo, a logorarsi in quel modo.
E Matthew non era mai riuscito a capacitarsene, in tutto quel tempo; non era mai riuscito a capacitarsi di come lei riuscisse a trattarlo con quella freddezza glaciale, nonostante la rabbia che lui riusciva a sentire agitarsi dentro di lei. Ogni volta. Perché lui lo sapeva sempre, quello che Evelyn provava, lo aveva sempre saputo dopo il loro primo incontro. Dopo la notte in cui si erano ritrovati.
E Matthew, sapendo quello che lei in realtà aveva sempre provato, sentendo ciò che si era agitato in lei ogni volta che l'aveva visto, non si era mai capacitato di come Evelyn fosse capace di una tale freddezza e imperturbabilità, all'apparenza. Come ci fosse riuscita e come ci riuscisse tutt'ora, come ci riuscisse sempre, lei che era sempre stata così facile agli scatti d'ira, al contrario di lui.
Non che Matthew fosse stato da meno, in quanto a maschere e freddezza. Evelyn ricordava benissimo come il volto di lui non avesse quasi mai tradito una sola emozione. Ricordava anche, però, come le sue mani, in tutto quell'anno, fossero state contratte molto più del consueto, ricordava la costante rigida tensione nelle sue dita. Ma lei c'era abituata, lo conosceva, le era sempre stato facile scoprire la finzione di quell'apparente calma.
Finché non si era alzato il vento. Un vento forte e violento, freddo. Un vento carico di una pesante aria di morte. E un uragano era giunto, senza che se ne fossero accorti, a sconvolgere le loro vite.
Era stato un uragano dai capelli rossi e gli occhi viola, le labbra carnose, il corpo esile e la voce da bambina. Un uragano che all'inizio li aveva ingannati tutti, un uragano che si era finto in difficoltà, che aveva chiesto il loro aiuto, un uragano che li aveva supplicati di proteggerla da qualcosa che l'aveva inseguita per mesi – a suo dire – per ucciderla. Un uragano che Evelyn aveva accolto in casa e aveva difeso, un uragano che la giovane aveva protetto senza capire chi fosse stata in realtà. Un uragano che aveva celato la sua vera natura non facendo percepire i propri poteri. Una strega che era giunta dal sud, dalla Louisiana, una ragazza all'apparenza molto più giovane di Evelyn, una ragazza che aveva detto di avere appena diciannove anni e, invece, era una strega vecchia abbastanza da vantare quasi un secolo di vita.
Una strega che aveva ingannato tutti, che aveva ingannato Evelyn ma che non era riuscita ad ingannare Matthew. Non era riuscita ad ingannare i suoi sensi di vampiro, quei sensi che avevano sentito l'odore di un sangue troppo vecchio per appartenere ad una diciannovenne e che gli avevano impedito di fidarsi di lei, anche se all'inizio ancora non era riuscito a spiegarsi il perché di quell'odore.
Era arrivata un mese dopo la sera del trentesimo giorno e aveva conquistato Evelyn, l'aveva intenerita con la sua voce da bambina e il suo aspetto così fragile; l'aveva ingannata – Evelyn che non si era mai fidata facilmente di nessuno – e la ragazza ci era caduta con tutte le scarpe, nella trappola dell'uragano. C'era caduta senza accorgersene e senza fiutarne il pericolo.
Ma Matthew l'aveva fiutato, lo aveva fiutato fin dall'inizio e aveva cercato di avvertirla ma Evelyn lo aveva ignorato, non gli aveva creduto e avevano litigato di nuovo. Sempre in quel modo che li aveva visti litigare per tutto quell'anno. Avevano litigato tante volte, a causa di quell'uragano dai capelli rossi, gli occhi viola e la voce da bambina.
Finché il vento non si era alzato e la trappola che l'uragano aveva ordito con cura, quella trappola in cui aveva per mesi – per quasi un anno - intrappolato lentamente e a poco a poco Evelyn come una mosca nella tela del ragno, era scattata. Ed Evelyn era stata avvolta dai fili di quella ragnatela che non aveva visto, rendendosi conto troppo tardi della realtà.
«Lo so», le aveva detto l'uragano, con quella vocetta cantilenante da bambina. «Non è stato giusto ingannare una ragazza così giovane, una strega ancora così inesperta. Ma vedi il lato positivo della faccenda: con i tuoi poteri diverrò praticamente invincibile, piccola. E siccome non sono una maleducata, ci tenevo a ringraziarti per l'ospitalità che mi hai dato in questi mesi. Sei stata davvero un tesoro, cara. Nulla di personale».
Il vento si era alzato una mattina, alle prime luci dell'alba, che Evelyn era ancora addormentata. L'uragano era entrato nella sua stanza, le aveva posto un ciondolo con un sigillo sulla fronte e l'aveva intrappolata. E quando Evelyn, l'attimo dopo, si era svegliata, si era ritrovata completamente paralizzate e sospesa a mezz'aria.
L'uragano aveva atteso pazientemente per più di nove mesi, aveva atteso affinché il Potere che scorreva nel sangue della giovane – il potere unito di due delle più antiche e potenti famiglie di streghe del Massachusetts – fosse giunto al momento di massima maturazione, e intanto l’aveva studiata, in tutti qui mesi, e quando quel momento era arrivato l'aveva imprigionata con quel sigillo e l'aveva portata con sé. L'aveva rapita e quella notte stessa – una notte di luna piena – l'aveva portata in una radura nel bosco – quella stessa radura dove, tre anni prima, Evelyn aveva affrontato e ucciso l'assassino di sua nonna – e lì si era preparata per compiere il Rito, la Somma Invocazione. Ma l'uragano non avrebbe chiamato il proprio Potere, no, avrebbe invocato quello di Evelyn e nell'esatto istante in cui quel Potere fosse stato scisso completamente dal sangue della ragazza, se lo sarebbe preso. Glielo avrebbe rubato. Ed Evelyn non avrebbe potuto far nulla per impedirlo, bloccata da quel sigillo sulla sua fronte. E quando l'uragano aveva iniziato il Rituale, Evelyn aveva avvertito chiaramente il Potere fluirle a poco a poco fuori dal corpo e non era stato come la prima volta, era stato diverso, era stato doloroso perché il suo corpo veniva costretto a fare qualcosa contro la propria volontà ed Evelyn aveva avvertito come se centinaia di pugnali le venissero conficcati nella carne, secondo dopo secondo.
E il minimo di resistenza che aveva comunque tentato di opporre a quella violenza era stata sempre più inutile, perché il Potere aveva continuato a fuoriuscire da lei e quando fosse uscito completamente, Evelyn lo sapeva, sarebbe morta.
Non c'era stato nulla che lei potesse fare, le energie l'erano venute meno poco a poco, avevano iniziato a mancarle sempre di più a causa di quello sforzo e aveva desiderato urlare, gridare con tutta la voce che aveva in corpo per quel dolore e quella violenza, ma non aveva potuto nemmeno quello.
E poi era successo qualcosa.
Il Potere le era tornato dentro improvvisamente, con tanta forza da mandare in frantumi il ciondolo col sigillo che le era stato posto sulla fronte ed Evelyn era caduta a terra, finalmente libera di muoversi e agire anche se tramortita.
E poi, un paio di minuti.
Evelyn aveva alzato gli occhi e l'aveva visto, aveva visto Matthew addosso all'uragano dai capelli rossi che li aveva ingannati, l'aveva visto attaccato con i denti alla gola di lei. Poi la strega era riuscita a colpirlo, in qualche modo, e aveva spedito il vampiro qualche metro lontano da Evelyn, urlando, e subito si era rimessa in piedi. Il sangue che le colava dalla ferita al collo – una ferita che, però, aveva già iniziato a rimarginarsi – il viso stravolto dall'ira e le iridi viola accese da una furia omicida.
«Tu! – aveva urlato al vampiro – Come hai osato attaccarmi?! Come hai osato nutrirti del mio sangue?!». I capelli rossi che fluttuavano nell'aria per l'energia dell'incantesimo ancora pienamente attiva, dentro il cerchio del Rito.
«Fidati, ne avrei fatto volentieri a meno», le aveva risposto lui, sarcastico.
«Brutto insolente, a causa tua, adesso, dovrò ricominciare tutto d'accapo! Dannato vampiro, me la pagherai!», ed era stata sul punto di attaccarlo ma una luce dalle fiamme rosse l'aveva colpita al fianco, sbalzandola a terra.
«Devi solo provarci!», le aveva urlato Evelyn. In piedi sulle sue gambe, carica di un'energia inusuale, quel tipo di energia aveva già provato una un’occasione, in passato, quando aveva per la prima volta compiuto lei stessa il Rito. All’epoca, però, la Somma Invocazione era stata portata a termine, il Potere si era scisso del tutto dal suo corpo prima di abbattersi contro il cacciatore di streghe e quando era tornato dentro di lei l'aveva lasciata esausta; mentre stavolta il Rituale non era stato completato e, a causa di ciò, il Potere si era come attivato completamente, ma in lei. Dandole un'energia tale da poterlo sfruttare a pieno come mai le era stato possibile prima.
Tutto in un paio di minuti.
«Vedo che non sei più bloccata dal sigillo.», aveva sibilato quella. «Non fa niente, mi serviva solo per non perdere tempo, potrò ottenere il tuo Potere anche così».
«Parli troppo per i miei gusti». Ed entrambe si erano scagliate addosso incantesimi urlati, sfere di fuoco o di energia evocate dal nulla. Finché Evelyn, riuscita a schivare tutti gli attacchi contro di sé, con uno aveva finalmente colpito l'uragano di nuovo, facendola cadere sul prato. Svenuta.
Eppure…
Eppure, Matthew aveva notato subito che qualcosa non era andata come avrebbe dovuto: il modo in cui quell'uragano dai capelli rossi e la voce da bambina non era riuscita a schivare quell'ultimo fascio di fuoco, il modo in cui era caduta a terra. Gli era sembrato quasi che la strega si fosse... lasciata colpire di proposito.
Tutto in un paio di minuti.
E poi, solo quattro secondi.
Matthew aveva guardato Evelyn in piedi, una decina di metri da sé, e l'attimo dopo la strega stesa a terra e aveva visto, aveva visto prima di Evelyn ed era scattato. Si era lanciato verso di lei alla velocità tipica di quelli come lui e l'aveva afferrata ponendosi tra la giovane e il fascio d'energia scagliato per ucciderla, facendole da scudo. E venendo colpito da quel fascio al posto della ragazza.
Solo quattro secondi.
Il colpo li aveva scagliati lontano, dalla parte opposta della radura, quasi al limitare degli alberi, Matthew con Evelyn stretta tra le braccia, a coprirla col proprio corpo. Immobile.
E tutto il resto era stato delirio.
Delirio puro quando Evelyn aveva aperto gli occhi e aveva chiesto a Matt di spostarsi e lui non aveva risposto, delirio quando si era voltata aveva visto i suoi occhi vitrei e spalancati; delirio quando si era accorta che una ferita aveva aperto uno squarcio nel petto del vampiro, uno squarcio che lo aveva passato da parte a parte, bruciandogli la pelle circostante la ferita. Delirio quando Evelyn l'aveva scosso urlando, implorandogli di alzarsi; quando lo aveva supplicato, singhiozzando, di non essere morto; quando aveva cercato di guarirlo senza risultato. E si era tagliata un polso un'altra volta, con un rametto, ma lui non l'aveva bevuto, il suo sangue, Matthew non si era mosso. Era rimasto con gli occhi azzurri spalancati a fissare il vuoto, opachi e privi di vita.
Evelyn aveva urlato e gli aveva sollevato il viso, stringendoselo al petto, chiamandolo e implorandolo di perdonarla. Perché era a causa sua se lui era morto, colpa di lei che non lo aveva ascoltato, quando Matthew le aveva detto i suoi sospetti, ogni volta, in tutti quei mesi. Colpa di lei che lo aveva trattato sempre freddamente, perché furiosa per ciò che era accaduto tra di loro e che lui si era rifiutato di accettare, furiosa per il comportamento di lui.
Ma il suo Matt non poteva essere morto, non poteva, non doveva. Non in quel modo, non per proteggere lei, non per un suo errore.
E poi una risata si era diffusa nella radura, una risata che l'aveva fatta infuriare, tra le lacrime, come solo un’altra volta le era successo in vita sua. Una risata che gliene aveva ricordata tanto un'altra, sentita tre anni prima, quando si era ritrovata in una situazione simile, nel giardino sul retro di casa sua. Una risata che, come quella del vampiro che aveva ucciso sua nonna, si era burlata di lei, delle sua rabbia e del suo dolore. E se tre anni prima, Evelyn non aveva potuto sfogare immediatamente quella rabbia, adesso non c'era stato più nulla a impedirglielo. Ed era esplosa.
Un urlo – lungo e acuto, stridente come il suono delle unghia su di una lavagna – le era uscito dalla gola, un urlo carico di tutto quel dolore e di quella rabbia profonda, quella rabbia che si era portata annidata dentro per anni, quella rabbia che l'aveva sempre accompagnata da quando erano morti i suoi genitori. Quella rabbia nata dal dolore per aver perso le persone che amava senza aver potuto far nulla per impedirlo.
E mentre quel grido aveva inondato la radura, un'esplosione era avvenuta nel petto di Evelyn, un'esplosione che, come un'onda d'urto, aveva investito ogni cosa. Prima di tutto, Matthew. E urlando e sprigionando una luce accecante dal petto, avvolta da un'aura di Potere Puro, si era alzata correndo verso la strega, aveva invocato un cerchio di fiamme che, vorticando, aveva circondato l'intera radura, mentre Evelyn e si fermava ad alcuni metri da lei. L'uragano le aveva lanciato subito contro i suoi attacchi ma questi si erano infranti addosso alla barriera che Evelyn aveva alzato e con cui aveva assorbito la potenza di quei colpi. Gli occhi della giovane animati dalle fiamme che aveva invocato.
Tutto in un paio di minuti.
E poi, solo quattro secondi.
E in fine, pochi attimi.
La luce che si sprigionava dal petto di Evelyn e l'aura che l'avvolgeva erano esplosi con un lampo improvviso, lasciando fluire il Potere dal corpo di lei come tre anni prima ma, stavolta, senza necessitare del Rito completo e con una potenza e una violenza molto più forti che in passato. Era bastato volerlo, alla ragazza, perché accadesse, e il fascio di luce ed energia bianca e brillante aveva colpito in pieno l'uragano, travolgendolo e spazzandolo via in un secondo. Spazzando via per sempre lei, i suoi capelli rossi, gli occhi viola e la voce da bambina.
Era passato quasi un mese e mezzo, da allora. Un mese e mezzo e adesso era la notte dell'anniversario del loro primo incontro. L'anniversario della notte in cui si erano ritrovati.
Dopo aver sconfitto l'uragano, Evelyn era svenuta ed era rimasta in quello stato per quasi una settimana. Per questo non si era accorta delle braccia di Matthew, che l'avevano sollevata e riportata a casa. Matthew che era tornato in vita, grazie a lei.
Era successo con quell'onda d'urto, con quell'esplosione che era avvenuta nel suo petto e che si era riversata in tutta la radura e buona parte del bosco. Un'esplosione di Potere Puro, lo stesso con cui aveva annientato l'uragano, lo stesso che l'aveva avvolta e che l'avvolgeva ancora, sebbene in modo meno evidente, diverso. Ma da quella sera, quell'aura particolare era sempre stata lì, intorno a lei. Pronta ad intensificarsi di nuovo ogni volta che lei avesse voluto.
Ed era stata proprio grazie a quell'esplosione, innescata dal suo dolore e dalla sua rabbia, se Matthew era tornato.
Evelyn non se n'era accorta, presa com'era stata dall'uragano. Non aveva visto che quando lei era corsa verso la strega, un secondo dopo gli occhi del vampiro erano tornati vivi, non più vitrei e immobili, e che lo squarcio nel suo petto, quello squarcio che gli aveva bruciato metà del cuore, si era risanato completamente, come se non ci fosse mai stato. Non aveva sentito la voce di lui chiamarla, urlarle di fermarsi; la voce di Matthew che, nonostante tutto, temeva per lei e per la sua vita. Non lo aveva visto rimettersi in piedi e correrle incontro e poi venire sbalzato indietro dalla barriera che lei aveva eretto per contrastare gli attacchi dell'uragano. Né aveva visto la sua espressione d'angoscia e terrore o sentito le sue mani sul viso e le sue braccia sollevarla, quando il flusso di energia era cessato e il potere era tornato in lei ed Evelyn era svenuta. Né, tantomeno, aveva visto il sollievo sul viso di lui, quando aveva compreso lei era priva di sensi, sì, ma viva. O la strana consapevolezza – quella consapevolezza che, adesso, vi era qualcosa di diverso in lei –, nel momento in cui lui aveva avvertito quell'aura particolare, seppur flebile, ancora intorno a lei.
Evelyn, però, aveva sentito il sangue.
L'unica cosa di cui si fosse accorta, mentre era stata priva di sensi per cinque giorni, era stato il sangue che le era stato fatto bere più volte, il sangue che aveva sentito scenderle vischioso lungo la gola e scorrerle subito dentro, andando ad accelerare la rigenerazione del suo corpo esausto. Il sangue di un vampiro, capace di guarire le ferite di un umano. Il sangue di Matthew.
E anche se priva ci conoscenza, Evelyn aveva capito che lui era vivo.
Quando poi, cinque giorni dopo, si era risvegliata nel proprio letto e aveva sentito un petto caldo contro il viso e due braccia forti e note avvolgerle la vita, per un attimo aveva creduto di essere morta ma poi aveva ricordato il sangue e allora si era voltata verso Matthew con le lacrime agli occhi, non capendo come fosse possibile. Lui era morto, lei lo aveva visto; era morto nella radura per proteggerla, quando l'aveva riparata col suo corpo dall'attacco dell'uragano.
«Sei stata tu», le aveva risposto lui, mentre lei lo fissava piangendo e con gli occhi sgranati, passandole una mano sul viso bagnato di lacrime. «Quell'esplosione che hai generato, prima di correre a combattere, credo di essere stato travolto dalla tua energia». E poi aveva aggiunto sorridendo: «Come mi è accaduto spesso da quando ti conosco, solo che questa volta mi hai riportato in vita. Hai guarito la mia ferita e così sono tornato». E non c'era stata più freddezza, tra di loro. Erano tornati quelli di un tempo, erano tornati come prima di quella sera in cui lei gli aveva offerto il proprio sangue, nello scantinato; e prima della loro notte e della sera del trentesimo giorno.
All'apparenza.
Perché in realtà nessuno dei due aveva dimenticato né avrebbe mai potuto. Ma dopo quasi un anno di liti violente anche se prive di urla, di liti che li avevano logorati, a suon di voci fredde e pacate e prive di emozioni, dopo quasi un anno in cui si erano privati di sfoghi e si erano impediti di esternare qualunque cosa, accumulando all'interno risentimento su risentimento e dolore e rabbia, entrambi avevano avuto semplicemente bisogno di un periodo di tregua per ritrovarsi un'altra volta e tornare quelli di prima, tornare quelli che si erano impediti di essere per troppo tempo.
Ma quel periodo di tregua non sarebbe potuto durare in eterno e lo sapevano tutti e due. Il terrore che avevano provato, il terrore di essersi persi per sempre, era stato troppo forte.
E col passare dei giorni e delle settimane, era trascorso un mese e mezzo e La sera era arrivata. La sera del loro anniversario, la sera del terzo anno da che si erano ritrovati – pensò Matthew, sempre poggiato di schiena a quell'albero e il viso rivolto alla finestra della stanza di lei.
Poi sgranò gli occhi, sorpreso, perché a causa di quei pensieri – immerso nei ricordi di tutto quanto accaduto in soli tre anni – non si era accordo di quando il respiro di Evelyn era mutato e lei si era svegliata. Era stato a causa di tutti quei pensieri se non l'aveva sentita alzarsi dal letto, nel silenzio di quella notte afosa e calda, e andare alla finestra da cui ora lo fissava.
E lui la guardò, ammirando quella scena che incorniciava la figura della giovane strega come la cornice fa con un quadro: le tende bianche, ricamate e leggere, scostate da quelle mani candide, i boccoli color pece raccolti alla meglio sulla nuca e alcune ciocche ricciute e ribelli che, nonostante tutto, le accarezzavano il profilo del viso, la camicia da notte viola e leggera che le fasciava il corpo e, in fine, gli occhi – quegli occhi in cui, adesso, Matthew era tornato a vederci tutto, quegli occhi castani, caldi e ipnotici che avevano rapito il vampiro fin dalla prima volta che li aveva visti – fissi su di lui.
Si fissarono per pochi secondi. Pochi attimi che, però, sembrarono un'eternità, perché come sempre il tempo si dilatava quando si guardavano. E poi Matthew vide una luce particolare, brillare nelle iridi scure di lei. Una luce di un solo attimo, una luce che il vampiro conosceva bene – una luce di decisione e fermezza - e poi il profilo della ragazza sparì dalla finestra e il vampiro la sentì aprire la porta della stanza e andare verso le scale. 

   
 
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