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Autore: Terre_del_Nord    22/04/2011    11 recensioni
Sul finire del primo millennio, i quattro più potenti Maghi del tempo, Salazar Slytherin, Rowena Ravenclaw, Godric Gryffindor e Helga Hufflepuff, raggiungono il Regno di Alba per fondare Hogwarts, una scuola in cui insegnare Magia. Attraverso lotte, amori e naufragi, tradimenti e Magia, realizzeranno il loro progetto; per uno di loro, però, ritornare ad Alba significa anche altro: mantenere una promessa mancata e riappropriarsi del proprio passato.
1. Prologo di "THAT LOVE IS ALL THERE IS - SLYTHERIN'S BLOOD" (si può leggere anche senza aver letto l'altra), la storia tratta personaggi e trame in buona parte originali.
2. Con "Nuovo Personaggio" ho indicato la presenza di vari personaggi rilevanti per le vicissitudini dei protagonisti.
3. Ho introdotto l'avvertimento "Violenza/Contenuti forti" per la presenza di scene di guerra e situazioni in linea con la vita dell'epoca.
4. La storia è in corso di revisione
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Corvonero, Godric, Nuovo, personaggio, Priscilla, Corvonero, Salazar, Serpeverde, Serpeverde, Tassorosso, Tosca, Tassorosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.005 - La Radura



La notte era ormai giunta al culmine, le stelle e i pianeti attraversavano lenti e inesorabili il cielo, dispiegando con le loro danze arcane le trame oscure del destino. L'acqua gelida le lambiva appena gli zoccoli, mentre Banrigh avanzava cauta lungo la riva sinistra del fiume, lo faceva tutti i giorni e tutte le notti, da anni, competeva a lei controllare quella porzione della foresta, eppure, quella notte, l'oscurità carica di segni la rendeva inquieta e la sua mente si distraeva di continuo, portandola a pensieri lontani. Volse lo sguardo di nuovo al massiccio che sovrastava il fiume, aveva ordinato a Magorian, il maggiore dei suoi figli, di portare i fratelli lassù, dove la foresta avrebbe potuto celarli a occhi estranei, al sicuro, rapidamente, e il giovane si era fatto seguire promettendo ai più piccoli di insegnar loro il significato della luce rossa di Marte. La luce rossa di Marte... erano anni che su An Monadh la stella non appariva così fulgida e splendente, come negli ultimi tempi, di un intenso rosso rubino, pregno di funesti significati: Banrigh lo sapeva, il rosso dell'astro infiammava il cielo quando il rosso del sangue era prossimo a essere versato sulla terra. Stava per accadere qualcosa di oscuro, lo sentiva da giorni, lo capiva da numerosi segni, qualcosa di oscuro forse era già penetrato e si muoveva nella foresta, senza accettare di sottomettersi alla natura: quasi tutti gli animali della montagna erano inquieti e spaventati, molti rifuggivano l'acqua e si nascondevano nel folto della vegetazione, persino il fiume sembrava scorrere più lentamente da quando gli uccelli arrivavano da est, portando la notizia di una terribile battaglia, nella quale avevano trovato la morte centinaia di uomini. E ora, bagnata da tanto sangue impuro, la terra era percorsa da orde di spiriti inquieti, che reclamavano a loro volta morte e vendetta.
Banrigh tremò: conosceva il cuore degli uomini, la loro follia, la loro violenza, non dovevano entrare e turbare, con la loro ferocia e la loro arroganza, la pace della foresta, non dovevano sfregiarne la purezza con la loro disperazione. A volte capitava che qualche incauto si spingesse nei boschi di An Monadh per cacciare il lupo o il cinghiale, ma difficilmente faceva ritorno a casa, di solito si perdeva e moriva nei dirupi, o sbranato dalle fiere, e anche quando riusciva a salvarsi, la paura provata nei suoi vagabondaggi tra quei sentieri oscuri, s’incideva tanto profondamente nella sua anima, da fargli perdere per sempre il senno. Per questo, nel corso degli anni, tra gli uomini si era diffusa la superstizione che ci fosse uno spirito maligno sulla montagna e il timore di essere ghermiti e uccisi da un demone li teneva opportunamente alla larga. Di colpo il vento, che spirava da sud, scompigliò le chiome del Centauro e parlò più chiaramente a Banrigh, che l'ascoltò trepidante: il lamento degli alberi e il canto atterrito degli uccelli notturni raccontavano di fiamme cadute dal cielo e di creature del bosco morte arse nell'incendio. Quella notte, il timore provato dagli uomini verso i segreti di An Monadh sembrava non essere più sufficiente a fermare gli invasori, la loro brutalità li stava spingendo fin lì e i loro scopi non avevano nulla a che fare con il lupo, né con il cervo. Il Centauro temette che si stesse compiendo il destino, che fosse giunta la notte, la notte più lunga, quella in cui la foresta di An Monadh sarebbe stata violata e sfregiata dall'odio e dal sangue. Annusò l'aria, sentì il vento pregno dell'aroma pungente del legno e della carne bruciata, con un alto grido richiamò a sé Magorian e gli ordinò di correre lontano, di portare i fratelli con sé, di avvisare gli anziani che le profezie si stavano compiendo. Mentre suo figlio si allontanava da lei, Banrigh corse veloce lungo la riva, annusò più e più volte l'aria per orientarsi, ma a mano a mano che si avvicinava all'incendio, iniziò a sentire che la notte e la voce degli alberi erano permeate anche di Magia, una Magia diversa da quella che praticavano il Mago e la Strega della radura, una Magia ancora più antica, più potente, che serbava in sé dolcezza e dolore. Come tutti i Centauri, Banrigh conosceva la Divinazione ma non la maggior parte delle altre Arti Magiche, non comprendeva con chiarezza il messaggio portato dal vento, eppure quello che scorreva nel sussurro delle fronde la colpiva direttamente al cuore, riempiendola di angoscia e di tormento.
Continuò a correre rapida lungo la riva del fiume, avvicinandosi sempre più alla radura dei Maghi, tendendo l'orecchio e riascoltando più volte il messaggio, fin quando comprese: la Strega stava morendo e chiedeva aiuto per salvare i suoi figli. Un tremito percorse la schiena della Custode del fiume, si fermò all'istante, turbata, poi riprese ad avanzare lentamente, a capo chino, senza sapere cosa fare: le leggi del suo popolo le imponevano di non immischiarsi nelle faccende degli umani, ma non poteva dimenticare chi aveva salvato il suo bambino. Banrigh sollevò lo sguardo un'ultima volta verso il cielo, nelle sue iridi color dell'ambra si rispecchiò funesto il rosseggiare dell'astro, attese ancora un attimo, poi, con il cuore stretto dall'apprensione, il Centauro riprese a galoppare rapida, nel folto della foresta.

***
   
Non era come le altre volte, Sheira aveva sentito fin dall'inizio del travaglio che il suo corpo non reagiva come avrebbe dovuto. Non era ancora così vecchia da non poter dare alla luce un altro figlio senza correre rischi, il prossimo sarebbe stato solo il suo trentatreesimo inverno, eppure si sentiva mortalmente stanca, sfinita, prosciugata, incapace di reagire. Non aveva voluto dire nulla a Cormacc, perché il suo uomo sembrava aver recuperato grazie all'idea di quel bambino una serenità che Sheira non gli vedeva da tanto, troppo tempo, ma a se stessa non aveva potuto mentire: in quei mesi, da quando si era resa conto di essere di nuovo incinta, i segni che aveva letto nei suoni della notte, nel fluire del fiume, erano stati tutt'altro che rassicuranti e la Strega si era convinta che la civetta e il lupo cantassero un lamento funebre alla sua creatura, già prima che venisse al mondo, confermando ancora una volta la sentenza della sua gente, motivo di orgoglio e, al tempo stesso, condanna.

    “La vostra unione sarà benedetta da due figli, destinati a un futuro di gloria e grandezza”.

Due figli. Avevano sempre parlato di due soli figli. Per questo, in tutti quegli anni, pur amando il suo uomo con passione e devozione, aveva spesso assunto, di nascosto da lui, le erbe che l'aiutassero a non restare incinta perché, dopo aver perduto due dei suoi bambini alla nascita, non voleva più soffrire di un dolore tanto orrendo, non voleva più sentire il suo cuore indurirsi come pietra e frantumarsi in mille pezzi, mentre affidava la sua stessa carne, ancora calda del suo ventre, al riposo della terra. Ora che teneva la sua Diorbhal sul petto, però, ora che sentiva la forza, la Magia, il calore della sua bambina, Sheira intuiva la verità: i veggenti si sbagliavano, c'erano i nomi di tre figli incisi nel suo destino. Per la Strega, però, non si sarebbe levato di nuovo il sole, Sheira sentiva che non avrebbe visto l'alba. Il lupo da mesi piangeva per la custode di Habarcat, non per la sua bambina. Ora lo sapeva. Era normale per una Strega del Nord restare priva di forze per alcuni giorni, il tempo di trasmettere, con il sangue e il latte, il potere ai propri figli, ma non c'era nulla di normale nel freddo che raggelava le sue membra, in quel torpore sempre più pesante, nel suo sangue che continuava a fluire via da lei, inarrestabile, nonostante gli infusi e la Magia che Cormacc le aveva praticato per arrestarlo.
Il Mago la strinse a sé, trepidante, Sheira sentiva che aveva paura quasi quanto lei: Cormacc non era un veggente e non riconosceva i segni nell'acqua e nel fuoco, ma la sua esperienza e la sua abilità come Guaritore dovevano averlo messo in allerta, lo percepiva dal passo veloce, dal respiro affannato, dall'urgenza con cui la serrava a sé, mentre cercava di raggiungere non la Sorgente, ma la grotta lungo il fiume. Cormacc aveva paura di perderla, temeva per la sua infinita debolezza, temeva per quel corpo che tanto amava e desiderava, sempre tanto forte e malizioso e ora invece… Ora così fragile da non sorreggere nemmeno il peso insignificante della loro bambina.
L'aveva implorato di lasciarla lì, tra gli alberi, di andare avanti da solo, fino alla Sorgente, di portare in salvo Diorbhal, con la Magia sarebbe riuscito a farla sopravvivere anche senza la mamma, di fuggire con i ragazzi, a nord, sempre più a nord, ma non era servito a niente: Cormacc era uguale a lei, innamorato come lo era lei, non l'avrebbe lasciata per nulla al mondo, nemmeno per i loro figli, voleva mantenere fino alla fine la promessa che le aveva fatto, quella che la Strega serbava gelosamente nel suo cuore, con la stessa emozione di quando non era ancora una donna, ma solo una ragazzina. Avrebbe desiderato vivere ancora a lungo accanto al suo compagno, seguire la crescita dei suoi ragazzi, accarezzare il volto di Cuilén e Domnhall un'ultima volta, sapeva bene che gli dei la richiamavano a sé troppo presto, troppo in fretta, lasciando in sospeso troppe cose, ma Sheira non riusciva a maledirli né a ribellarsi, non aveva rimpianti, anzi si sentiva grata e fortunata, perché aveva ricevuto e donato tutto l'amore che può unire un uomo e una donna ed entrambi ai propri figli, e l'unico desiderio che le restava da realizzare, ora, era vedere la sua famiglia, tutta la sua famiglia, in salvo. Per questo, perché il suo tempo era finito e nessuno poteva farci niente, pregava gli dei che la prendessero subito con sé, lì, tra le braccia del suo uomo, così che di fronte all'ineluttabilità della morte Cormacc si arrendesse e la lasciasse andare, pensando infine a se stesso e a tutto ciò che avevano creato insieme, con il loro amore.
Gli dei non erano intenzionati a prestarle ascolto, però, anzi il destino giunse a travolgerli più rapido e feroce della morte stessa: la foresta si riempì improvvisamente di sibili strani, di frecce infuocate che cadevano dal cielo tra gli alberi, erano stati raggiunti dagli uomini di Glower, i cani forse avevano seguito l'odore del suo sangue caduto tra le foglie, e ora li braccavano, sicuri e decisi, nel groviglio della foresta. Pur senza parlare, avevano compreso: se non avessero rotto il patto fatto con i Centauri e non avessero reagito, sarebbe finita, sarebbe finita per tutti loro. Mosso dalla disperazione, Cormacc era intenzionato a fare di tutto per difendere ciò che nella vita aveva di più sacro e prezioso, non si sarebbe dato per vinto, fino alla fine: Sheira lo vide fermarsi, turbato, guardarsi attorno, poi la depose a terra, nell'incavo formato dalle radici di una sacra quercia, in un punto in cui il terreno avvallava, creando una barriera contro le frecce, nascosto tra il fogliame. Il Mago avvolse con cura la bambina e gliela serrò tra le braccia, perché non le scivolasse a terra, poi le coprì con il suo mantello, perché conservassero a lungo il suo calore, ma quando provò a tracciare un cerchio magico tutto intorno al loro nascondiglio, così che le sue donne, in sua assenza, fossero protette da qualsiasi minaccia proveniente dal bosco, non ci riuscì completamente, perché la paura e la disperazione offuscavano il suo potere. La Strega comprese e lo guardò con sgomento, mentre le mani del Mago tremavano: non c’era nulla nella foresta di An Monadh capace di opporsi alla Magia di Cormacc o alla sua, la natura, volontariamente, si prostrava sempre al potere di un Daur, ma occorreva essere saldi nel dominio del proprio cuore e della propria mente, senza farsi turbare dalle emozioni... Cormacc tentò ancora ma, di nuovo, non completò il cerchio, allora mise sulle labbra di Sheira un impasto d'erbe, le portava sempre nella sacca di pelle che teneva al collo, la Strega riconobbe l'odore dell'avena, dell'ortica, dell'astragalo e della passiflora, ne aveva masticato molto in quei giorni, traendone però solo brevi momenti di lucidità e forza: questa volta doveva resistere, a qualsiasi costo, doveva resistere.

    “Mastica lentamente, a lungo: ti darà un poco di sostegno. Ti prego... devi resistere, almeno finché non sarò tornato da te, devi resistere per la nostra bambina... farò presto, li spaventerò e li metterò in fuga, ma tu devi restare lucida, Sheira, o Diorbhal piangerà e quegli uomini non troveranno solo te... troveranno e faranno del male anche a lei... ”

L'aveva salutata con una carezza sui capelli, con un sorriso, il suo bel sorriso, con un bacio sulle labbra, talmente appassionato da aver in sé il fuoco del primo e la disperazione dell'ultimo: lo sapevano entrambi che quello era un addio, quando lo vide immergersi nella boscaglia, nella direzione da cui salivano fumo e rosseggiare di fiamme, Sheira scoppiò in lacrime, perché sapeva che non l'avrebbe visto mai più, che Cormacc non sarebbe più tornato né da lei, né dalla loro bambina. Restò immobile, preda della disperazione più profonda, finché sentì muoversi, lieve, sua figlia tra le braccia e un vagito infranse il silenzio della foresta: no, non poteva cedere, non poteva lasciarsi andare così, se voleva dare a Diorbhal una possibilità di salvarsi, doveva impedire che la trovassero e sfruttare le poche forze e il poco tempo che le erbe le avrebbero concesso. Sheira masticò l'impasto e attese di sentire un poco di forza tornarle nelle membra, stringendosi il mantello addosso, così da non disperdere il calore, poi fece appena leva sui gomiti tirandosi su quasi a sedere, con estrema difficoltà, scoprì la testolina della piccola, su cui spuntava già un folto ciuffo di capelli corvini, si aprì la veste e la accostò tremante al seno, la guardò poppare, avida, latte e vita, ogni stilla le toglieva altra forza ma la trasmetteva alla sua bambina, e Sheira sorrise, incitandola a prenderle tutto ciò che poteva, la sua vita, il suo sangue, la sua Magia, la sua speranza. Ammirò quel nasino minuscolo e quegli occhi ancora serrati, le labbra rosse e umide, le manine chiuse a pugno che sembravano nuotare lente nell'aria e poi aggrapparsi sicure e forti a lei; sospirò a fondo, con le lacrime che le inondavano inesorabili il viso e le appannavano ancora di più la vista, poi raccolse con le dita il sangue che usciva ancora copioso dal suo ventre e tracciò la runa di Cormacc sul collo della piccolina. Una volta soddisfatta la fame di Diorbhal, Sheira si sentì di nuovo mortalmente intorpidita, allora, temendo di essere prossima alla fine, rapida, cercò di soffiarle le preghiere antiche sulle orecchie, sulle labbra, sul viso, sul cuore, affidandola alla protezione degli Antichi e sperando che la propria voce e il proprio ricordo si fissassero per sempre nella memoria della sua bambina, poi riprese a cullarla piano, finché non la vide addormentarsi di nuovo tra le sue braccia. Lentamente, si tolse il caldo mantello di Cormacc e l'avvolse per bene, la depose tra le foglie, accanto a sé, poi, prostrata a terra, ormai quasi del tutto priva di forze e vita, grattò il terriccio con le unghie, tutto intorno al giaciglio della piccola, con difficoltà, fino a ferirsi le mani, continuando a bagnare del suo sangue la terra, e componendo, sfinita, ostinata, le rune del nord, del sud, dell'est e dell'ovest intorno a lei, tra le foglie, aiutandosi con quello che trovava, pezzetti di legno, sassi, interrompendosi più volte, sbagliando più volte, rifacendo i segni più volte, finché la piccola non fu racchiusa nel cerchio magico più potente, quello che non poteva essere spezzato da niente e da nessuno, nemmeno dalla Magia di un Daur.
Gliene aveva parlato per la prima volta sua madre, prima di morire, quando aveva appena nove anni, le aveva spiegato che come custode di Habarcat, era destinata ad apprendere Magie sopraffine dai maestri, con cui guidare e rafforzare la Sacra Fiamma per il bene dei Daur, ma esisteva un'altra Magia, più forte di tutte le altre, capace di sconfiggere qualsiasi altro potere, una Magia che non s’insegnava e non si apprendeva, una Magia innata che scaturiva forte, pura, indomita direttamente dal cuore: era l’amore, l'amore che lega una madre al proprio bambino. Sheira recitò il nome della sua Diorbhal con tutto l’amore che sentiva nell’anima, con le poche forze che le restavano tracciò quel nome col suo sangue nella terra sacra, e l'affidò alla natura e agli spiriti dei suoi antenati, perché la proteggessero e trovassero il modo di salvarla. Infine, stremata, si aggrappò al tronco della quercia che la sovrastava e tremando di freddo e di febbre, s’inginocchiò ai suoi piedi, baciò la corteccia e vi appoggiò la testa, pensò con forza ai suoi tre figli e supplicò lo spirito dell'albero di mandare un messaggio, attraverso le fronde, in ogni angolo della foresta, fino a Banrigh, il Centauro Custode del fiume. Quando erano giunti nella foresta di An Monadh, sedici anni prima, era stata lei il primo Centauro che avevano incontrato, subito dopo aver attraversato il fiume: la femmina si era avvicinata a loro, austera e distaccata, non amava avere a che fare con i Maghi, ma il suo compito la costringeva a svelarsi, doveva conoscere le loro intenzioni, assicurarsi che portassero nel cuore e nella mente sentimenti di pace, e concedere loro il passaggio solo se intenzionati a rispettare la natura. Sheira e Cormacc le avevano promesso che non avrebbero usato la Magia contro le altre creature, che non avrebbero cacciato oltre le loro necessità, che non avrebbero alterato gli equilibri della foresta, e per sedici anni avevano mantenuto quei giuramenti. Da allora, avevano visto la Custode del fiume solo un'altra volta, quando Cormacc aveva trovato un giovane Centauro ferito dai dardi di un cacciatore babbano e l'aveva salvato dalla morte con la sua Magia: quando era arrivata alla radura, di notte, per cercarlo, scoprirono che era il più giovane dei suoi figli e Banrigh li aveva ringraziati e benedetti, pregando la Natura di ricompensarli con ogni bene. Ora era Sheira ad aver bisogno dei Centauri, non per sé ma per la sua bambina: se Cormacc fosse morto, qualcun altro doveva portare Diorbhal dai fratelli alla Sorgente, ed era sicura che Banrigh, una madre, non si sarebbe tirata indietro, benché il suo popolo non amasse immischiarsi nelle faccende umane. Sì, Sheira era sicura che Banrigh non si sarebbe tirata indietro. Doveva andarsene da lì, però, doveva lasciare sua figlia da sola nel giaciglio di lana e foglie, protetta da una Magia che solo l’amore di un'altra madre avrebbe potuto spezzare: come la volpe, che abbandona la tana per allontanare i cacciatori dai suoi cuccioli, anche Sheira doveva separarsi da Diorbhal, non poteva restare lì, il suo sangue avrebbe attirato i cani e alla presenza di quegli uomini mossi dall'odio, sapeva che Banrigh non si sarebbe mai avvicinata. La Strega baciò un'ultima volta la sua bambina, poi si levò lentamente in piedi, iniziò ad avanzare, tremando e ondeggiando, la mente ormai offuscata le impediva di mantenere una direzione precisa, solo l'abbaiare del cane e le urla degli uomini atterriti dal suo compagno le indicavano, in mezzo al groviglio di rami, alberi e foglie, dove si stesse consumando la battaglia. Avanzò, infreddolita, esangue, decisa a raggiungere il signore di Glower: sapeva che era lì per lei, se si fosse lasciata catturare e uccidere, avrebbe soddisfatto il suo odio e avrebbe dato a Cormacc una possibilità di salvarsi. Quando le foglie si richiusero dietro di lei e Sheira intravide più vivido il rosseggiare del fuoco, il silenzio atterrito della foresta alle sue spalle fu percorso di nuovo dal pianto della sua bambina: con le lacrime agli occhi, Sheira si fece forza, e appoggiandosi a un altro tronco, avanzò di un altro passo.
Fu l'ultimo. Esausta, sentì la sua Magia spegnersi lentamente, e scivolarle dalle membra come un velo leggero, portando via con sé il suo ultimo respiro: la Strega si accasciò a terra priva di vita, tra le foglie, come una bambola addormentata, il corpo baciato dalla rugiada, gli occhi di mercurio socchiusi sullo splendore del cielo tempestato di stelle.
   
***

    “Ho colpito il cane! Mio signore, ho colpito il cane!”

Kenneth mac Maìl, lo scudiero del signore di Glower-o 'er-em, abbassò l'arco, asciugandosi con un braccio la fronte madida di sudore e impiastrata di polvere e sangue: non poteva crederci, ce l'aveva fatta, quel demonio fatto di zanne e artigli, che aveva visto dilaniare e uccidere molti dei suoi compagni, era caduto sotto il suo dardo e ora giaceva da qualche parte a terra, di là della fitta selva di rovi che aveva davanti. Da dove si trovava non vedeva il corpo, e pregava il Signore che non lo mandassero in quella tetra oscurità a cercarlo, ma era certo che il mostro fosse morto, non poteva essere altrimenti, l'aveva colpito in pieno petto e la striscia di sangue che ora vedeva a terra era troppo abbondante per chiunque, di sicuro anche per un figlio del demonio come quello. Al solo pensiero, si rifece per l'ennesima volta il segno della Croce, mentre Áed  mac Taidg, il suo signore, gli si avvicinava, la faccia illuminata da un ghigno di follia che voleva essere un sorriso: di colpo tutta la fatica della guerra e di quella notte di caccia, la paura, la disperazione davanti alla morte dei suoi uomini e di suo figlio, sembravano spariti dal suo cuore, uno sguardo smanioso era dipinto sul suo volto, mentre sputava improperi e oscenità che culminarono, arroganti, in un urlo che pervase tutta la foresta.

    “Ora vengo a prendere anche a te, puttana maledetta!”

Áed raggiunse lo scudiero avanzando con ampie falcate, seguito dall'onnipresente Gregorius, il monaco irlandese che svolgeva le funzioni di cappellano di corte, un omino basso e tarchiato, con il volto da faina, la chierica lucida e i pochi capelli che gli erano rimasti in testa candidi e arruffati. Kenneth sapeva che era un uomo di Dio, ma ogni volta che il monaco gli posava gli occhi addosso, si sentiva pervaso da un senso di profonda inquietudine, qualcosa di persino più terribile del disagio che provava quando doveva confessarsi e raccontare quanto la sua carne fosse debole, fallace, imperfetta.
   
    “Trova il corpo e portalo qui, Gregorius vuole studiare quella dannata bestia!”

Lo scudiero guardò inorridito Áed, mentre il suo signore si allontanava di nuovo, diretto ai portatori di cani, chiamando un nome che si perse nel silenzio irreale della foresta, dopo avergli imposto quella che sembrava una condanna a morte, non il premio per una miracolosa impresa. Il soldato tremò per alcuni istanti poi, segnatosi con la Croce del Signore, si fece largo tra la vegetazione, pregando tutti i Santi che lo proteggessero: superò la selva di spine, si guardò attorno, capì la direzione da prendere quando notò dei brandelli di pelo e carne sanguinante attaccati a dei rametti, avanzò timoroso, finché gli sembrò che il cuore gli si fermasse del tutto nel petto. Tra le foglie, a terra, invece di un cane, c’era il corpo inanimato di un uomo, trafitto da una freccia in pieno petto. Kenneth non poteva credere a quello che vedeva, doveva per forza essere uno dei maledetti intrighi dei Maghi o il potere sinistro della foresta di An Monadh… eppure... No, dentro di sé sapeva che non era un errore, non era un caso, non era una Magia: quella che aveva di fronte piantata nel petto dell'uomo, era proprio una delle sue frecce. Tremò: se la freccia era davvero la sua allora ai suoi piedi, c'era la terribile dimostrazione dell’esistenza di Satana sulla terra, perché solo uno spirito tanto immondo poteva trasformare un uomo in un cane e servirsene per arrecare morte e sofferenza. Era talmente sconvolto da quella scoperta da voler urlare, ma era ancora più terrorizzato, tanto che non ci riuscì. Non sapeva cosa fare. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e guardare meglio, di toccare e capire se era davvero morto, l’unica cosa che voleva era allontanarsi il più possibile da lì, magari chiamare i suoi compagni in quel punto, di certo non voleva restare da solo con quell'essere; d’altra parte, era anche vero che il suo signore gli aveva impartito un ordine e sapeva quanto potesse diventare violento di fronte a un rifiuto. Doveva portargli quel corpo il più velocemente possibile, non aveva altra scelta. Kenneth si fece coraggio, titubante si avvicinò e dopo averlo toccato con la spada, vedendo che non reagiva, si piegò, prendendo l’uomo per le gambe e trascinandolo attraverso le sterpaglie: il corpo era possente, pesante, ancora caldo, ma era veramente morto, non reagiva in alcun modo al suo tocco. Lo scudiero prese via via più fiducia e si mosse sempre meno lentamente, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi fruscio sorgesse tra le foglie intorno a sé. All'improvviso, così piegato, qualcosa attirò la sua attenzione da dietro dei cespugli: si fermò, lasciò cadere a terra le gambe dell'uomo, estrasse di nuovo la spada dal fodero e scostò con la punta della lama alcuni rovi per vedere meglio. Pallida come la luna, a terra, dietro dei cespugli, vide una specie di bambola che sembrava riposare tra le foglie, avvolta in una tunica scura, il viso e i capelli in parte coperti da un mantello, la pelle delle gambe e delle braccia esposte in buona parte alla vista.
Possibile che fosse la Strega? Possibile che anche lei fosse morta? E se era così, che cosa l'aveva uccisa?
Rimase per alcuni secondi a guardarla, quel volto, già solo a guardarlo da lontano, gli trasmetteva un senso di pace, voleva avvicinarsi, toccarla, baciarla, solo con difficoltà l'uomo riuscì a ritornare in sé e a ricordare chi fosse e soprattutto cosa fosse quell'essere. No, non doveva avvicinarsi o sarebbe caduto sotto qualche maleficio di quella dannata Strega, magari il turbamento, l'attrazione che provava in quel momento era proprio frutto degli incanti del demonio per strappargli l’anima e farla bruciare all’inferno. Si ritrasse e, mettendo da parte, di nuovo, qualsiasi cautela, iniziò a urlare a squarciagola perché corressero tutti lì: aveva trovato anche la Strega.

***
 
Áed fremeva di eccitazione, tutto preso dai suoi pensieri, mentre ritornava verso Gregorius: aveva appena parlato con i portatori dei cani e distribuito i compiti, stando ai suoi calcoli, ora che il mostro che difendeva la Strega era morto, dovevano esserci almeno altri quattro Adoratori di Satana, attorno a loro, nascosti nelle tenebre della foresta. Eppure, benché fossero in evidente inferiorità numerica e strategica, non conoscendo il bosco, il signore di Glower si sentiva ottimista e pregustava la vittoria, perché poteva opporre alle arti demoniache dei Maghi, la croce e il rosario del suo cappellano. Sentiva che li avrebbe catturati presto, vivi o morti, tutti quanti. Pregava di riuscire a prendere lui stesso la Strega, la voleva uccidere con le sue mani, ma non voleva chiudere quella storia subito, più ci pensava e più si convinceva che la morte era troppo poco, voleva farla soffrire, nel più orribile dei modi. Oltre alla fattucchiera, poi, c'erano l'uomo che aveva provato a impiccare, senza riuscirci, e quel figlio maschio di circa diciotto anni, quello che aveva visto al collo della Strega al mercato di Fonn Abhuinn: avrebbe fatto pendere dalla forca entrambi gli uomini, sulla pubblica piazza, anzi, sarebbe stato lui stesso il boia, voleva far vedere a tutti che si era pentito dei suoi peccati, che era tornato a essere un uomo timorato di Dio. E, soprattutto, avrebbe costretto la Strega ad assistere, così che provasse, vedendo con i suoi occhi la morte del proprio figlio, lo stesso dolore devastante che Áed aveva sentito spezzargli il cuore, quando aveva raccolto il corpo esanime di Mael dalla nuda terra.

    Mael…

Suo figlio, il suo unico figlio… Non c'era solo il dolore per la morte e il desiderio di vendetta a dominare la mente del signore di Glower, c’era anche una strana, folle speranza: se era nato maschio e il rigore dell'inverno non l'aveva già strappato alla madre, doveva esserci almeno un altro bambino, di non più di cinque o sei anni, ricordava bene che la Strega era incinta l'ultima volta che l'aveva vista, quando, con quel maledetto cane, aveva salvato il suo uomo dal boia. E chissà, magari ne aveva altri ancora. Da quando il cappellano gli aveva assicurato che i bambini maschi, al contrario delle femmine, erano offerti al demonio non alla nascita ma al compimento dei dieci anni, l’idea di scontrarsi con la Strega l’aveva riempito d’inquietudine, odio, esaltazione ma anche di un desiderio che aveva vergogna ad ammettere persino con se stesso. Áed cercava di ricordare che si trattava pur sempre del figlio di una Strega, ma il suo pensiero tornava sempre lì: se la fattucchiera avesse avuto dei figli maschi di non più di dieci anni… se fossero stati ancora dei bambini normali… se, una volta battezzati e opportunamente riconsacrati, fossero davvero stati liberi dal Male… Bambini maschi, uguali a tutti gli altri, probabilmente più forti e robusti di tutti gli altri… Áed aveva paura a formulare razionalmente quel pensiero, ma dentro di sé la smania e l’eccitazione si fondevano e si libravano superando timore e superstizione: potevano essere cresciuti come dei figli? Dei figli perfetti? Se avesse trovato quel bambino, quei bambini, se fossero davvero stati dei maschi, avrebbe potuto prenderli e allevarli come propri? Se col battesimo il cappellano poteva davvero farne dei buoni Cristiani, per quale motivo non avrebbe dovuto prenderli con sé? Quella donna maledetta gli aveva promesso un figlio maschio e lui... Le aveva persino offerto, anni prima, ben venti monete d'argento per averlo e invece, ora, di nuovo, si ritrovava senza niente... Sì, quei figli gli spettavano di diritto e lui non intendeva né poteva aspettare oltre! Áed avrebbe ottenuto il maschio, anzi i maschi, che il destino gli doveva. Un uomo aveva il diritto di perpetuare il proprio nome... E se sua moglie non era stata capace di... allora lui aveva il diritto persino…
Ricordò di colpo la fierezza dello sguardo di mercurio dell’Adoratrice di Satana, l'altezzoso rifiuto che gli aveva opposto, la voluttà di quel corpo pieno, quella Strega gli turbava i sogni e il corpo ormai da anni, e di colpo l'ira, il dolore, la sete di vendetta si fusero al desiderio fisico di possederla e lo travolsero. Áed temette di diventare pazzo, respirò a fondo: perché prendere il figlio di un altro uomo, un bastardo, quando poteva averne uno proprio? Se avesse trovato dei maschi, glieli avrebbe strappati e li avrebbe cresciuti per farne dei buoni soldati, certo, ma si sarebbe tenuto anche lei, voleva tenersi anche lei, demonio o non demonio, la voleva, prigioniera, nelle segrete, come l’animale che era, la voleva per prenderla ogni volta che ne avrebbe avuto voglia, finché lei, così feconda, gli avrebbe dato il maschio, anzi tutti i maschi che il destino finora non gli aveva concesso. Solo alla fine, quando si fosse stancato, quando avesse ottenuto tutto ciò che desiderava, si sarebbe sbarazzato anche di lei. Sì, avrebbe fatto così... Quanto alle figlie della Strega... quelle non si potevano salvare nemmeno con il battesimo, pertanto non aveva senso tenere in vita altre bocche da sfamare, nemmeno per trarne, un giorno, soddisfazione... Non le avrebbe tenute nemmeno come serve, le avrebbe fatte bruciare tutte, subito, si sarebbe vendicato così della Strega, l'avrebbe costretta ad assistere all'orrore che avrebbe scatenato contro i suoi figli, proprio come a lui era toccato vedere la morte di Mael. Sapeva di essere dalla parte del giusto, lo dimostrava l'esser riusciti già ad ammazzare quel maledetto cane... Nemmeno per un istante Áed pensò che quella minima vittoria era stata ottenuta a costo di tante, troppe vite, che stava mandando a morire la sua gente, per quella che era solo un’ossessione, una follia, non riusciva a comprendere che qualsiasi vendetta, nemmeno la più turpe, gli avrebbe reso suo figlio.
All’improvviso le urla di Kenneth dal fitto della foresta, là tra quei rovi in cui gli aveva ordinato di entrare, lo ridestarono dal suo delirio personale: Áed mise mano alla spada, diede una rapida occhiata al cappellano perché lo seguisse e lo proteggesse con la Croce, ritornò sui suoi passi, il cuore in tumulto, l'ira affamata a governargli il corpo e la mente. Aveva sentito bene? Kenneth aveva proprio detto di aver trovato anche la Strega? O forse il suo scudiero era già impazzito?
Tutti sapevano che su An Monadh era stata gettata una potente maledizione, ma Áed non se ne curava, avanzava sicuro, ora che la vendetta stava per essere consumata, non aveva alcun timore, nulla sarebbe riuscito a fermarlo, nemmeno la più oscura delle creature uscite dall’inferno. Quando vide i rovi schiacciarsi al passaggio del suo scudiero e l’uomo, apparentemente incolume, avvicinarsi, i suoi occhi fissarono carichi di attesa l'oscurità alle sue spalle e il dolore cupo per Mael spazzò via, di nuovo, qualsiasi altro sentimento.

    “Dov'è?”

Non aspettò nemmeno che lo scudiero formulasse una risposta, lo superò e si fece largo tra il fogliame, mentre Kenneth farfugliava qualcosa su un cane, che non era un cane ma un uomo, lo implorava di non andare, di aspettare di essere raggiunti anche da altri, di non far conto solo sulla Croce di Gregorius, che lo seguiva a capo chino, muto, particolarmente pensieroso. Áed non gli prestò ascolto, non gli interessava più niente, solo stringere le sue dita attorno al collo della Strega. Rapido raggiunse il luogo in cui giaceva il corpo seminudo del condannato alla forca, lo riconobbe subito dal naso curvo in una piega strana, si compiacque quando vide la freccia mortale conficcata nel petto, proprio all'altezza del cuore, sentì quasi un piacere fisico pensando che la Strega avesse visto il dardo penetrare nella carne amata, lacerarla, danneggiarla, togliere per sempre la vita al suo uomo. Si avvicinò ancora di più, sempre con Gregorius al seguito, sollevò la spada che reggeva nella destra, l’aveva tenuta sempre sguainata da quando era entrato nei territori di An Monadh, ammirò il luccichio metallico della lama, poi di colpo la calò sul corpo dell'uomo, rapida per tre volte, per sfregio, dritta in pieno petto, allargando ancora di più la ferita provocata dalla freccia. Con un sorriso di soddisfazione sulle labbra, proseguì nell'oscurità della vegetazione, nella direzione che gli aveva indicato lo scudiero appena l’aveva raggiunto: la Strega era lì, oltre quelle foglie, che lo aspettava. Ordinò al cappellano di seguirlo e a Kenneth di trascinare l'uomo-cane fino al fiume.

***

Kenneth si chinò di nuovo sul corpo del Mago, lo prese per le gambe e si mosse a ritroso per alcuni passi, rassicurato dal fatto che presto sarebbe uscito dal folto della vegetazione e avrebbe raggiunto una radura scoperta, in riva al fiume, dove avrebbe atteso al sicuro i portatori dei cani. Aveva persino sentito alcuni fruscii dietro di sé, probabilmente stava già arrivando uno dei segugi. All'improvviso, però, mentre con fatica trascinava il corpo del Mago, si ritrovò a cadere a terra, all'indietro, perdendo la presa sul morto: forse era inciampato su un ramo, o su un sasso, o addirittura sui suoi stessi piedi, corse a guardarsi i calzari per capire cosa l'avesse fermato. Con orrore vide che due serpenti gli si stavano annodando stretti alle caviglie.
Cercò di sollevarsi a sedere, di estrarre la spada dal fodero per assestare un colpo preciso che uccidesse i rettili e lo liberasse, ma anche sul suo polso si stavano già annodando un paio di serpi dalla testa verde, apparsi dal nulla. Provò a urlare per chiedere aiuto, ma la voce non gli uscì dalla gola: sinuoso, un altro rettile gli si stava stringendo al collo, serrandolo via via sempre con più forza, togliendogli il fiato poco alla volta, annebbiandogli sempre più la vista e la mente. Kenneth era sicuro che a quell’ora, quasi prossima all’alba, i serpenti dormissero ancora, nascosti nelle loro tane o sotto le pietre, e rabbrividì ancora di più al pensiero che quelle bestie non si stessero comportando secondo natura, che una forza demoniaca avesse preso il controllo delle loro azioni. Non fu capace, però, di connettere a lungo i suoi pensieri, la serpe sul collo strinse ancora di più, trasformando il suo difficoltoso respiro in una specie di rantolo, mentre alle caviglie e ai polsi, affilati, i dentini delle serpi gli penetravano ripetutamente la carne, iniettandogli più e più volte, nel sangue, il loro fluido venefico. Lo scudiero voleva implorare pietà, urlando tutto il suo dolore e la sua paura, mentre le serpi colpivano e colpivano ancora, ma ormai, anche se la serpe non stringeva abbastanza il suo collo da farlo morire soffocato, non riusciva quasi più a respirare. L’uomo si sentì girare la testa, il freddo e il fuoco si alternavano nelle sue membra, l'oscurità prendeva a poco a poco il suo sguardo rendendolo semicieco, mentre si dibatteva per la febbre e il dolore, senza tregua, percorso dalla più atroce delle torture, in attesa che il veleno giungesse al cuore e il suo corpo cedesse all’oblio.
L'ultima cosa che vide, mentre il suo corpo era devastato dalle convulsioni, fu un'ombra: ne vide distintamente solo una gamba, ma la sua mente alterata riconobbe la gamba di un uomo. L’ombra si muoveva a pochi passi da lui, al limitare di ciò che restava del suo campo visivo, si chinò a raccogliere la sua spada, a pochi centimetri dalle sue mani, lo sentì, chiaramente, la sua voce era simile al sibilare del serpente, e si levava appena in un canto sconosciuto. Kenneth ne era convinto, le serpi facevano scempio della sua vita aizzate proprio da quello strano canto. L’ombra avanzò fino a inginocchiarsi sul corpo dell’uomo che era stato un cane, non si curò in alcun modo di Kenneth, non gli alleviò le sofferenze togliendogli la vita, si sollevò invece poco dopo, la spada stretta nel pugno, e penetrò tra la vegetazione, lasciando lo scudiero lì, a morire nelle più atroci sofferenze, come un animale.



*continua*



NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o commentato. Abbiamo ritrovato due personaggi che avevamo conosciuto nel primo capitolo, Aed e il suo scudiero, e conosciuto Banrigh (= in gaelico questa parola significa "signora", "regina"). Per il nome di uno dei suoi figli ho usato il nome del capo dei  Centauri al tempo di Harry Potter, Magorian. Per Sheira era quasi scontato un certo tipo di finale (fatto di violenza sessuale, sangue e dolore), data la situazione, ma appunto sarebbe stato il finale più scontato, ecco quindi che, se proprio si doveva parlare di morte,  ho voluto caratterizzare i suoi ultimi istanti non con l'odio ma con l'amore, ricollegandomi al filone della Rowling di madri che muoiono salvando i propri figli. Il momento "horror" arriva alla fine, e in questo modo ho anche fatto fuori tre personaggi in due capitoli. Un bacione.

Valeria



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