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Autore: KiaeAlterEgo    20/02/2006    5 recensioni
Scusate per il titolo poco originale... Una principessa vive tranquillamente a palazzo quando la sua vita viene sconvolta dall'annuncio del suo matrimonio...
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO I

Salve a tutti!!! Questa è la mia prima storia, siate clementi! Avviso subito che io e il computer siamo in pessimi rapporti… Ma bando alle ciance! Eccovi il primo capitolo!

CAPITOLO I

In cui viene annunciato un matrimonio

La città era comodamente adagiata in una piccola baia, scintillante al sole del mattino, il mare calmo e blu, con le barche che ondeggiavano tranquille alla lieve brezza. Le case erano bianche e gialle, con tetti rossi e qualche ciuffo d’alberi. Al centro della città un enorme parco verde, pieno di fiori e fontane, racchiudeva un elegante palazzo di due piani, con ampie finestre e la facciata finemente decorata. La città di Faltar, capitale del grande regno, ferveva delle solite attività mattutine mentre nel palazzo i servitori si davano da fare nell’attesa dello svegliarsi della famiglia reale. In un’ala del palazzo, in una sontuosa stanza, una ragazza aprì gli occhi, ansante. Aveva appena avuto un incubo terrificante. Lei era la settima figlia del re, una quindicenne dagli occhi verdi, molto alta, perfino più di alcuni uomini di corte, e snella. Il viso ovale dai lineamenti delicati era incorniciato da una cascata di splendidi capelli castano chiaro, con riflessi biondi, lisci e morbidi. Era felice di essersi svegliata. Aveva appena sognato un enorme e brutto damerino che la invitava a ballare e invece, con l’inganno, la portava all’altare, minacciandola che se non gli avesse giurato fedeltà eterna lui avrebbe fatto cose terribili. La luce della portafinestra illuminava bene la stanza piccola ma lussuosa, con un bel letto a baldacchino di lucida quercia, il soffice materasso e il cuscino di piume ricoperti con lenzuola di seta. Nel suo armadio a muro chiuso l’aspettava un’ampia scelta di vestiti, uno più elaborato dell’altro. Di fronte al letto c’era la sua splendida specchiera, con cassetti pieni di cosmetici. Ma un paio di questi li aveva adibiti a scomparti segreti, dove teneva le cose a lei più preziose. Erano gli unici due con la serratura, e lei aveva preso le due piccole chiavi e ne aveva fatto una collana sottile da cui non si separava mai. Scese dal letto, apprezzando la soffice moquette che rivestiva tutto il pavimento della sua stanza. Subito accorse la sua servitrice, che badava a lei fin da quando era piccola e la aiutò a vestirsi, indossando un vestito rosa pallido pieno di pizzi e merletti. Era strettissimo sulla vita e sul torace ma ormai lei si era abituata alla solita sensazione di mancanza di respiro. Infine si fece acconciare i capelli. Prima di recarsi alle sue solite attività, si affacciò sul suo balcone. Lasciò la mente libera di pensare, rimpiangendo la brevità di quel momento. Aveva quasi una doppia personalità. Di giorno, in compagnia della corte o durante le feste appianava la mente ed evitava di concentrarsi troppo a lungo su di un pensiero, riuscendo così a provare divertimento agli svaghi di palazzo, mentre la notte o quei rari momenti in cui era da sola lasciava correre la fantasia col pensiero, avendo imparato fin da piccola a nascondere la sua personalità. Purtroppo quei momenti erano sempre più brevi e ormai stava assumendo l’atteggiamento da oca che aveva sempre odiato. Mentre si avviava per la prima lezione del giorno pregustava già il pomeriggio, in cui avrebbe passeggiato per il giardino, magari in compagnia di qualche vera amica. Iniziò, come al solito, con la lezione di pianoforte. Lei adorava sentire il suono di quello strumento tuttavia non le piaceva suonarlo, perché le sarebbe piaciuto studiarne un altro, che spesso nelle feste di corte accompagnava il piano. Faceva danzare le dita sulla tastiera in modo quasi meccanico, l’attenzione completamente concentrata nel leggere lo spartito. Finalmente arrivò l’ora di pranzo. La sala era lunga e stretta come il tavolo, abbastanza grande per permettere a tutta la famiglia reale di pranzare unita. Quel giorno con loro, oltre il primo ministro, ormai sempre presente ad ogni pasto, vi era il duca d’Alfan con suo figlio. Il re, prima di sedersi, volle dire qualcosa. Incominciò: «Miei cari figli e miei gentili ospiti, devo comunicarvi una lieta notizia! Riguarda la nostra famiglia: il qui presente duca Pipino d’Alfan e io siamo felici di annunciarvi che suo figlio Carlo e mia figlia Ortensia converranno a nozze, il sette luglio, giorno del sedicesimo compleanno di lei». Le parole del re furono seguite da un applauso e le sorelle della ragazza iniziarono a complimentarsi con lei della sua fortuna. Lei, al suono del suo nome, era trasalita e ora teneva la testa bassa in un finto imbarazzo e falsa modestia per nascondere il suo turbamento. Odiava il suo nome, Ortensia. Così, in privato si faceva chiamare Jandel, un nome dal suono molto più dolce e musicale. In più, la notizia l’aveva sorpresa e turbata, nessuno le aveva minimamente chiesto il consenso. Non che avesse scelta. Lanciò un’occhiata veloce al giovane che si era seduto vicino a lei e che non aveva minimamente considerato. Era lui Carlo, detto il Bello d’Alfan, un giovane avvenente di vent’anni, con un paio di baffi e un pizzetto biondi, capelli mossi e corti dello stesso colore. Aveva spalle ampie e braccia muscolose sotto gli eleganti vestiti da signore. Era di poco più basso di lei, una cosa molto imbarazzante per entrambi. Di lui non sapeva altro che era così corteggiato per la sua bellezza da essere chiamato il Bello d’Alfan. Il primo ministro osservava le reazioni di tutti coi suoi occhi scuri e saettanti, che sembravano valutare ogni azione e prevedere ogni singola risposta. Sua madre la guardava con un sorriso felice. Lei invece era sull’orlo delle lacrime ma non lo diede a vedere. Rimandò a dopo lo sfogo e appianò la mente, facendo finta di essere felice per la notizia. Quel pomeriggio le fu difficile rimanere sola. Le sue sorelle maggiori erano tutte intorno a lei e le davano un sacco di consigli, molti per loro esperienza personale. Quando riuscì ad allontanarsi e fu sicura che nessuno la vedesse, si mise a piangere, dirigendosi il più velocemente possibile in una zona boscosa del parco, dove si trovavano dei ruderi di una casa che lei aveva adibito a rifugio. Lì si abbandonò alla disperazione. Quel luogo la rassicurava, ma le mancava Gianna, la sua più cara amica. Non voleva sposare quella sottospecie di pinguino tutto impettito e infarcito di buone maniere. Nonostante molte signorine lottassero per conquistare il suo cuore, lei lo trovava brutto e antipatico, avendo constatato che durante il pranzo i suoi atteggiamenti erano tronfi ed egocentrici, inoltre sembrava una persona che si sopravvalutava facilmente. Le lacrime le rigavano le guance e scendevano silenziose. Osservava gli alti pini verdi e sentiva gli uccellini cantare dai nidi. Ormai era quasi giunta l’estate. Fra tre giorni, il sette giugno, avrebbe dovuto festeggiare la sua festa di fidanzamento. Improvvisamente sentì uno scricchiolio e alzò la testa per guardarsi attorno. Non vide nessuno. «Chi è là?» Il suo grido era strozzato per via delle lacrime. Alzò lo sguardo. Su di un albero c’era un ragazzo, che la osservava nell’ombra. Lei recuperò i suoi modi altezzosi: «Va’ via – ordinò in tono imperioso – non sai che questo luogo è vietato ai non autorizzati? Smettila di poltrire e va’ a lavorare!» Il ragazzo sparì con un guizzo. Jandel non l’aveva nemmeno visto bene ma non gliene importava, dal suo punto di vista, i servitori erano tutti uguali. Sentì in lontananza un campanile che batteva quattro rintocchi. Si asciugò le lacrime e si diresse nella sua stanza. Lì si chiuse a chiave. Aspettò un paio di minuti, poi con calma, iniziò a sciogliersi i capelli e a pettinarli. Si liberò, con grandi difficoltà, del vestito e indossò un altro abito, più comodo. Si trattava di un paio di pantaloni larghi tanto che da lontano sembravano un gonna e di un camicione che le arrivava fin sopra al ginocchio, legato in vita da una cintura di stoffa. Così vestita aprì la finestra e si affacciò sul balcone. Sorrise. Nessuno sospettava di niente. Aveva predisposto che avrebbe cenato nella sua stanza, quando lo avrebbe richiesto lei. Questo da diversi anni, in cui usava questa scusa per evitare di cenare con tutta la famiglia e di dover comportarsi continuamente da ipocrita. Salì sulla balaustra e afferrò un ramo nodoso di un vecchio albero che si era sempre trovato davanti alla finestra. Scese dall’albero lentamente ma con sicurezza e si diresse nuovamente tra i ruderi in mezzo al boschetto. Lì trovò ad attenderla una ragazza più bassa di lei, il viso tondo e degli allegri occhi scuri, i folti capelli ricci e rossi. Teneva due cavalli per la cavezza: uno bianco e l’altro pezzato. «Finalmente! Non ci speravo più! Ciao, Jandel, come va?». Jandel rispose, con le lacrime agli occhi: «Malissimo!» Le gettò le braccia al collo e singhiozzò: «Gianna, che piacere vederti! Non sai quanto mi sei mancata…»

«Piano, non esagerare, ci siamo viste ieri, come al solito…»

Jandel sorrise timidamente: «Lo so, ma per me sta diventando un inferno vivere là dentro».

«Racconta, cosa è successo? Vi hanno parlato del Giglio Nero?»

«Il Giglio Nero? Cosa centra lui?» Il Giglio Nero era un ladro famoso, che da anni rubava indisturbato qualsiasi cosa lui volesse. Nessuno era mai riuscito a vederlo, figurarsi a catturarlo. Egli annunciava con giorni d’anticipo l’oggetto che voleva rubare, creando scompiglio, paure e superstizioni. Poi, nessuno sapeva che aveva rubato fino alla mattina dopo il furto, che avveniva di notte. Al posto dell’oggetto rubato lasciava un vaso nero con un unico giglio bianco su di un biglietto che recitava sempre in tono beffardo i ringraziamenti del ladro. Gianna rispose: «Non ve ne hanno parlato? Il Giglio Nero ha annunciato la sua visita, uno di questi giorni! Per che cosa saresti sconvolta, altrimenti?»

Jandel era rimasta paralizzata alla notizia del ladro tanto che subito non rispose. Ma chi si credeva di essere quel ladro? Come osava venire a rubare nella casa reale? Decise di pensarci dopo, così rispose alla domanda: «Sono stata promessa sposa…»

«Congratulazioni! Non capisco cosa ci sia di male…»

«Il mio futuro sposo è odioso! Troppo sicuro di sé, si crede di essere chissà chi solo perché tutte le altre lo corteggiano, stupide galline col cervello leggero come una piuma…»

«Evvai! Jandel che perde il linguaggio di corte e si sfoga! Chi è il “fortunato” da meritarsi tutto il tuo odio?»

«Quel brutto damerino impettito del Bello d’Alfan»

Gianna s’indignò. Passò quasi cinque minuti a chiederle come faceva a considerarlo brutto, a sentirsi sfortunata e infelice. Concluse dicendo che se non le piaceva nemmeno lui, non avrebbe mai trovato un uomo che l’amasse. Jandel aveva ribattuto che i gusti erano gusti, così incominciarono a litigare per poi smettere con una risata gioiosa, prima di salire a cavallo ed iniziare la loro passeggiata abituale. Jandel tornò nella sua stanza risalendo l’albero, si mise in fretta la camicia da notte e ordinò la cena. Poi si fermò a riflettere sui fatti del giorno.

 

 

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