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Autore: Emily Alexandre    30/05/2011    8 recensioni
È strano come il destino si diverta a giocare con le nostre vite, mescolando e confondendo le carte di un’eterna partita di cui noi, alla fine, non siamo nè vinti nè vincitori. O forse siamo entrambi.
Un antico castello scozzese, un ritratto ed un diario, una donna dimenticata ed una verità da portare alla luce.
Chi era la donna del quadro? Joséphine non può fare a meno di chiederselo: ha il suo stesso nome, le somiglia in maniera impressionante e, soprattutto, sembra essere scomparsa nel nulla senza lasciare tracce. E così inizia una caccia al tesoro dai risvolti inaspettati che porterà una sola risposta e infinite domande.
Una mini long sospesa tra un passato avvolto dal mistero ed un presente assetato di risposte.
"Mi sedetti sul letto e aprii finalmente il pacchetto: conteneva un ciondolo. Lo riconobbi subito: era quello del quadro, stessa grandezza, stesso colore, stessa forma a goccia. Lo posai con cautela accanto a me e aprii il libro con mani tremanti: era il diario di Joséphine. Con il cuore in gola per l’emozione cominciai a leggere."
Genere: Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È strano come il destino si diverta a giocare con le nostre vite, mescolando e confondendo le carte di un’eterna partita di cui noi, alla fine, non siamo nè vinti nè vincitori.
O forse siamo entrambi.
 
Era una giornata come tante a Roma, ennesimo cerchio di una quotidianità ciclica che non lasciava spazi ad imprevisti.
Almeno fino a quel giorno, appunto.
Avevo sedici anni all’epoca e con difficoltà mi stavo rialzando da un lutto che mi aveva colpita pochi mesi prima: mia nonna materna era morta, portando con sè un pezzo della mia adolescenza e lasciandomi un’eredità che si sarebbe rivelata devastante.
All’estinguersi del mese di maggio i miei genitori, Cristina e Luigi, convocarono me e i miei fratelli per una di quelle che loro chiamavano riunione speciale. Non appena entrai in salone trovai mio fratello Alessandro seduto a terra, mentre la piccola Elena si era accomodata sulla sediolina: guardai appena i loro volti perplessi prima di prendere posto, subito seguita dai miei.
Fu mia madre a spezzare il silenzio. - Ragazzi, voi lo sapete che la nonna, morendo ci ha lasciato un’eredità…-
- Si, uno stupidissimo castello lontanissimo da noi…-
- Alessandro!- mio padre lo fulminò e io mi irrigidii sulla sedia: non sopportavo sentir parlare con disprezzo mio fratello di mia nonna. Tra me e lei era sempre esistito un rapporto bellissimo e la sua morte mi aveva lasciato un vuoto enorme che non avrei mai potuto colmare; avevo spesso l’abitudine di andare da lei dopo scuola, e la ricordo mentre mi aspettava con un lavoro di cucito in mano, o spesso mentre dipingeva piccoli quadri o tazzine.
Lei, non appena facevo il mio ingresso a casa, si alzava a preparare il tè e io mi fermavo estasiata ad ammirare quei piccoli capolavori che raffiguravano sempre i paesaggi scozzesi che riempivano i suoi ricordi d’infanzia. Era una emigrata, mia nonna, fuggita da un’epidemia che aveva devastato il suo paese: si era sposata ed era rimasta in Italia, ma il suo cuore sarebbe sempre appartenuto alla Scozia.
Di solito sedevamo al tavolino circolare a bere il tipico british tea finchè non arrivava Elena da scuola, e in quel tempo trascorso da sole mi raccontava piccole leggende del paese natio o più spesso ricordava i suoi momenti nel castello in cui aveva vissuto.
E io sognavo, immaginavo la nonna bambina che correva e rideva in quelle stanze enormi e col tempo quelle immagini erano diventate il mio rifugio nei momenti più tristi. La nonna mi raccontava sempre di come quel castello fosse per lei il luogo dove amava tornare, di persona o con il pensiero, quando la vita la metteva alla prova facendola soffrire, perché a quei luoghi appartenevano i ricordi più felici.
Prima di morire, mentre il tempo scandiva i suoi ultimi rintocchi di vita e lei era così debole e nel contempo così incredibilmente forte, mi aveva detto, fissandomi negli occhi, di non piangere e di ricordarmi, sempre, che l’avrei trovata nel nostro castello ogni qual volta ne avessi avuto bisogno.
Ed era quello che avevo fatto, anche se quel castello non l’avevo mai visto…
- Alessandro, i tuoi commenti sono del tutto superflui. In ogni caso, si, mi riferivo al castello. Io e vostro padre abbiamo deciso che le vacanze quest’anno non le faremo qui, ma in Scozia-
Ecco… mia madre aveva lanciato la bomba e ora aspettava, tirando il fiato, le nostre, reazioni.
- Cosa? NO! Non potete farmi questo! Non ho nessuna intenzione di venire con voi in quel posto fuori dal mondo!-  Quella di mio fratello non aveva tardato ad arrivare.
- Alessandro, vicino al castello c’è un paese, e molto popolato… Non saremo isolati-
- Mamma, io non vengo! Sono quasi maggiorenne!-
- Quasi! Esatto Alessandro, quasi. È per questo che verrai con noi, che tu lo voglia o meno!- mio padre fu lapidario e mio fratello uscì furibondo dalla stanza; dopo averlo guardato mentre si allontanava, abbastanza indifferenti ad essere onesti, i miei genitori si volsero verso noi due.
- Papà?- mia sorella parlava intimorita - ci sono i fantasmi nel castello?-
- No piccolina- sorrise mio padre -ma tu potrai fare la principessa in quel grande castello, proprio come Cenerentola!-
Il faccino di Elena si illuminò felice e pochi istanti dopo fuggì dalla camera per andare a telefonare alla sua migliore amica.
E così rimanemmo solo noi tre.
Non avevo seguito molto le discussioni degli altri, la mia mente si era immediatamente focalizzata su un sogno che si stava imprevedibilmente realizzando.
Avrei visto finalmente quel mondo che popolava i miei sogni sin da piccolina, il castello della nonna; l’edificio aveva più di mille anni, chissà quanti misteri erano racchiusi tra quelle mura, chissà chi vi aveva vissuto.
A dispetto delle menti perfettamente logiche e matematiche di entrambi i miei genitori, la mia era terribilmente sognatrice e non potevo che essere d’accordo con quella ‘vacanza alternativa’.
- E tu Josephine? Cos’hai da dire?-
-Mi sembra una magnifica idea, sono felice di andare in Scozia finalmente!-
 
La sera, mentre a letto immaginavo la futura vacanza, ripensai alla nonna: era piccolina, magra, con i capelli un tempo neri sempre raccolti sulla nuca e gli occhi blu brillanti sino alla fine. Era difficile immaginare come in un corpo così piccolo e all’apparenza debole si potesse celare un carattere così forte che aveva affrontato mille avversità: l’epidemia che l’aveva allontanata dalla patria, la guerra, la lontananza della propria famiglia, la morte dell’uomo con cui aveva diviso praticamente tutta la vita, la malattia. La vita spesso l’aveva fatta cadere, ma si era sempre rialzata, fiera e orgogliosa; era dolce con le sue figlie, con noi tre, i suoi nipoti che aveva sommerso d’amore, ma anche spietata con chi feriva lei e la sua famiglia.
Una vera nobile, nel senso più profondo del termine.
Stavo per addormentarmi, quando un pensiero mi balenò nella mente, facendomi sorridere: ero una duchessa, come il fondatore del castello, mio antenato.
Il padre della nonna era un principe, ma era un secondogenito e non aveva diritti di successione; la nonna mi diceva sempre che sia sua madre, che lei e i suoi fratelli avevano continuato ad usare la carica di duchi.
Era pur vero che certe cariche nobiliari valevano ben poco in tempi moderni, però mi piaceva pensarci.
 
Luglio arrivò presto, e in casa regnava il caos: Alessandro faceva le valigie con la musica ancor più alta del solito, come ripicca verso i miei che l’avevano costretto a partire con loro; Elena e mio padre erano usciti a compare le ultime cose e mia madre vagava da una camera all’altra prendendo ciò che serviva a lei, papà e Elena.
Io mi ero chiusa in camera e stavo scegliendo i vestiti da portare, un po’ estivi e un po’ invernali, visto il clima comunque freddo della Scozia; dopo aver fatto entrare tutto miracolosamente in valigia, presi orecchini, collane e bigiotteria varia e una piccola sacca da viaggio per i libri.
Soprattutto i libri.
Due mesi erano tanti e non riuscivo a farne a meno: il giorno prima avevo trascinato una mia amica in libreria e avevo speso tantissimo tempo e tantissimi soldi. Leggere era sempre stata una delle cose che amavo più fare, un piacere trasmessomi sempre da lei, la mia formidabile nonna. Per farmi addormentare da piccola era solita leggermi i miti greci e latini, alternandoli alle sue leggende, quelle celtiche: quando tre anni prima avevo dovuto scegliere la scuola dove andare non avevo avuto dubbi… sarebbe stato il liceo classico.
Per quel viaggio, però, avevo scelto alcuni libri della letteratura inglese che adoravo; nel giro di pochi minuti avevo riempito l’intera sacca, ma prima di chiuderla vi misi dentro anche la foto mia e della nonna che tenevo sul comodino.
Ne ammirai un istante i contorni leggermente sfocati- Sto venendo da te nonna, sei contenta?- sussurrai alla foto con un nodo in gola.
E quella donna meravigliosa che mi mancava da morire mi sorrise.
La mattina dopo ci svegliammo di buon’ora e, dopo una bella colazione e dopo aver finalmente chiuso le valigie, salimmo sul taxi che ci avrebbe condotto all’aereoporto; poco prima di pranzo ci imbarcarono sul primo aereo, fino a Milano e da lì poi, dopo un paio d’ore, salimmo sul secondo, diretto finalmente in Scozia.
Il viaggio fu molto piacevole e quasi all’ora del tramonto il pilota ci avvisò che eravamo arrivati in Scozia.
Solo allora alzai gli occhi dall’Amleto per guardare fuori dal finestrino: un’incredibile sfumatura d’arancione regnava su quelle interminabili pianure verdi, sovrastate da imponenti montagne, e il sole si specchiava nei laghi cristallini che ornavano lo scenario di tanto in tanto.
Quello che soprattutto catturò la mia attenzione, però, fu un numero considerevole di castelli che, anche se ridotti in macerie per la maggior parte, erano incredibilmente suggestivi.
Lo scenario toglieva il fiato.
Eravamo tutti a bocca aperta, anche Alessandro che fino a quel momento non aveva staccato gli occhi dal suo giornale irritato con i miei genitori.
Scesi dall’aereo fummo subito accolti da quello che era stato l’autista personale dei nonni che ci portò al castello.
Se dall’alto quelle costruzioni erano splendide, viste da vicino erano sconcertanti.
Circondato da alberi secolari si ergeva il castello della nonna, possente, con la cima frastagliata e tantissime finestre alte e strette; lungo le mura era cresciuta l’edera che spezzava il colore grigio del castello, tutt’attorno un enorme prato curatissimo era interrotto in un paio di punti da laghetti bellissimi.
Era tutto così diverso da Roma.
Rimanemmo ad ammirare la bellezza e la grandiosità del maniero per un tempo indefinito prima di deciderci ad entrare: ci trovammo in una sala enorme piena di statue e quadri bellissimi, imponente quanto l’esterno, e non sapevamo come muoverci.
Per fortuna venne ad accoglierci il maggiordomo, un uomo dall’aria simpatica, il quale, prima di farci visitare l’interno, c’informò della presenza dei cuochi, delle domestiche e del giardiniere, che conoscemmo poco a poco.  Si erano presi cura del castello in attesa del ritorno dei proprietari, e infatti era tenuto in maniera splendida: sembrava che i precedenti abitanti se ne fossero andati solo il giorno prima.
Nonostante le mura imponenti e fredde, le stanze pulsavano vita in ogni angolo e la brezza leggera che filtrava sembrava il respiro della casa.
Avevo l’impressione di trovarmi in uno di quei film che amavo guardare nelle sere di pioggia, quando l’oscurità copre tutto ciò che si trova all’esterno e io mi perdevo in quel mondo meraviglioso fatto di feste, intrighi, amore.
Il palazzo era meraviglioso, al piano terra c’era la sala d’ingresso, la cucina e quattro sale di diverso colore: la blu per i balli, con un’enorme pista e un palco per i musicisti nel lato opposto all’entrata; la verde, che accoglieva le riunioni di carattere politico, e aveva nel centro un enorme tavolo a forma di L; la bianca per ricevere gli ospiti e per le assemblee di famiglia, aveva un accogliente caminetto e sette tavoli circolari di diverse misure; infine la gialla per i banchetti, dove il colore dell’oro accostato al bianco creava un effetto maestoso, con due tavoli immensi, uniti in un lato da uno più piccolo, deve presumevo si sedevano il signore e la signora del castello.
Ogni passo era un colpo al cuore.
Accedemmo al primo piano tramite una scala enorme, anche se nei giorni seguenti ne scoprì altre, più piccole, a chiocciola, in ogni angolo del castello e lì trovai ciò che più di tutto avevo sognato: la biblioteca con più di cinquecento libri divisi per anno, autore, argomento.
Non saprei dire come mi sentii in quel momento, tutto era così perfetto ed irreale da farmi dubitare più di una volta dell veridicità di ciò che mi stava accadendo.
Adiacenti alla biblioteca vi erano una sala con i ritratti dei proprietari del castello e una con i giochi dei bambini.
Al secondo piano c’erano invece una sauna, che un tempo era stata prettamente ad uso maschile, e due sale comunicanti: la prima, a causa dell’innumerevole quantità d’abachi e libri di botanica, letteratura e matematica supposi fosse adibita ad aula studio per i figli del duca; la seconda invece era usata per studiare la musica e i lavori femminili.
Fu soprattutto una cosa a stupirmi: tutto, in quelle stanze, sembrava in attesa.
Non avevano un’aria abbandonata, e non solo per la pulizia; sembrava come se da un momento all’altro potessero prendere vita.
Se avessi detto una cosa del genere ai miei genitori probabilmente mi avrebbero preso per pazza e non li avrei biasimati: solo se si prova si può capire, e io provavo un amore innato verso quella casa.
Le stanze da letto, ventisette per la precisione, con i rispettivi bagni, erano al terzo piano; mantenevano la struttura iniziale anche se vi erano state aggiunte delle comodità moderne, che però non contrastavano affatto con la mobilia.
E poi ancora sotterranei, granai e scuderie ormai vuoti.
Ed infine lei, la torre.
*C’è una torre, piccolina mia, che sovrasta tutto. Mi chiedo ancora a chi fosse appartenuta, se a una ragazza o a un cavaliere solitario… mi rifugiavo sempre lì quando volevo stare un po’ sola*
La nonna me lo ripeteva spesso; quando era giovane non l’avevano fatta dormire lì, le dicevano sempre che era una stanza proibita, ma lei vi entrava di nascosto.
Quando si trattò di scegliere le stanze non ebbi dubbi: i miei genitori volevano che dormissimo vicini, ma io volevo stare nella torre e per fortuna alla fine acconsentirono; andammo tutti nelle nostre camere a sistemare i bagagli e a rinfrescarci, ci saremmo visti dopo due ore per la cena.
 
Il cuore mi batteva forte mentre percorrevo le scale, e vidi la mia mano tremare mentre si posava sulla maniglia della porta; non sapevo cosa avrei trovato lì dentro, ma qualunque cosa fosse, sentivo che mi avrebbe travolta.
Mi decisi ad entrare finalmente e cercai l’interruttore; la mia mano trovò nell’oscurità un bottone, e la torre fu sommersa di luce…  rimasi sulla soglia, senza fiato, ad ammirare le stanze: erano splendide. All’ingresso, dove ero io, vi era un salottino con due divani, un tavolino che immaginai servisse da scrittoio, e un camino; la stanza invece aveva un letto enorme con lenzuola di broccato, un tavolino per la toletta, una cassapanca e una poltrona, mentre nel bagno si trovavanola vasca, il lavabo e un W.C. aggiunto in seguito.
Tutto era un delizioso accostamento di tonalità rosse.
Aprii le finestre respirando a pieni polmoni l’aria serale e lasciando che il mio sguardo si perdesse lungo l’orizzonte: sembrava di dominare il mondo.
Rimasi per un po’ a guardare fuori, estasiata dal paradiso che avevo davanti, poi iniziai a girare per le stanze: i mobili erano pulitissimi e perfettamente conservati.
 Mi sedetti su ogni divano, mi specchiai allo specchio del tavolino, toccai le sottilissime tende, andai in bagno, mi spogliai e mi feci un bagno. Non volevo più uscire tanto stavo bene, ma l’orologio con il suo ticchettio mi avvisava dello scorrere del tempo e presto fu quasi ora di cena, così uscii, mi asciugai e indossai vestiti puliti; alla fine avevo ancora un po’ di tempo e decisi di disfare le valigie.
Per prima cosa posai la foto sul comodino e misi i trucchi e la gioielliera sul tavolino, infine aprii la cassapanca per posare i vestiti, ma si rivelò un’impresa più difficile del previsto per il coperchio pesante e arrugginito; quando infine vi riuscii, la decisamente impolverata così la pulii con un panno, ma mi accorsi che la fine interna della cassapanca era più alta rispetto a quella esterna, dal momento che toccava per terra.
Insospettita bussai all’interno e sentii vuoto, così iniziai a tastare ovunque: dopo qualche momento trovai una piccola foratura e, dopo che vi ebbi infilato il dito, tirai su il ripiano. La cassapanca aveva il doppio fondo e all’interno vi era qualcosa avvolto in un panno nero. Lo presi con il cuore che batteva velocemente, lo scoprii e mi trovai tra le mani un quadro: raffigurava una ragazza più o meno della mia età, indossava uno splendido vestito rosso, aveva al collo uno zaffiro a forma di goccia nel mezzo, i capelli neri le ricadevano sulle spalle e incorniciavano uno splendido viso; mi accorsi che mi somigliava molto.
Lo girai e vidi una dedica:
-A Joséphine, con amore, Jack. 19 Marzo 1896-
Mi sedetti perplessa sul letto fissando il quadro: la ragazza si chiamava come me e quel quadro era stato fatto lo stesso giorno in cui io ero nata, il 19 marzo.
Lo guardai ancora per un po’, finché mi accorsi che era veramente tardi, così appesi il quadro in un chiodo trovato davanti al letto e scesi nella magnifica sala gialla. Era strano stare solo noi cinque in quelle tavolate che avevano ospitato centinaia di ospiti; i miei genitori si erano seduti nel piccolo tavolo orizzontale, io ed Elena alla loro destra e Alessandro di fronte a noi due. La cena era ottima, e mise tutti di buonumore ma nonostante mia sorella non la smettesse di parlare, così come i miei genitori, io non ascoltavo; la mia mente viaggiava tra quelle stanze… le immaginavo come erano state una volta, molto tempo prima, piene di persone. Chissà, forse la ragazza del quadro sedeva proprio dove mi trovavo io in quel momento. Era lei ad occupare la maggior parte dei miei pensieri: non capivo esattamente perché, ma volevo saperne di più sul suo conto.
Alla fine della cena andammo nelle nostre stanze, ma la stanchezza accumulata durante la giornata sembrò svanire perché non riuscii a prendere sonno.
Ero distesa sul letto e fissavo il quadro davanti a me, senza riuscire a staccare gli occhi da quella misteriosa ragazza. Mi affascinava. Mi trovavo nella sua stessa stanza e non sapevo nulla di lei.




Note: Salve a tutti! Bentrovati, a chi già mi conosce, benvenuti a chi non ha mai -giustamente- sentito parlare di me! Non dovrei essere qui, con altre due long in corso, ma alla fine mi sono lasciata convincere... Questa storia è stata la prima in assoluto che ho scritto, quando avevo quindici anni; non è lunghissima e, nonostante la stia rivedendo e correggendo, non me la sento di stravolgerla per cui si tratta in realtà di una mini-long.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e magari avrete voglia di farmi sapere cosa ne pensate!
Per qualsiasi info, vi lascio il link del mio gruppo su facebook!
Emily
   
 
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