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Autore: Kagura92    04/06/2011    2 recensioni
Mi strinsi nella divisa e ci guardammo senza parlare, seduti nella trincea che, solo qualche giorno fa, era ancora inglese.
[Quarta Classificata al contest 'CAUSE THREESOME IS BETTER!]
[AU!World War One - The Great War - Fronte Occidentale]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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0.1 Drang - Secondo Movimento

Secondo movimento

[X] [ ] [X] [X ][X] [X]

George sparì non appena fu abbastanza buio: lo guardammo scavalcare il parapetto, e lo sentimmo allontanarsi. Non dicemmo nulla.
Malchik e lo Svevo mormoravano a bassa voce, mentre Principessa tremava. Feci un gesto vago allo Svevo, poi strisciai fino alla sezione austriaca: erano rimasti in tre in tutto. Dormivano, ma svegliai il mio con il piede: si svegliò di scatto, e vedendomi si morse le labbra, a soffocare un'imprecazione.
Gli agitai una sigaretta sotto il naso: la prese come di contro voglia.
Fece un tiro, espirando profondamente, e gli feci cenno di passarmela.
«Cecchini» dissi soltanto: me la diede.
Feci un tiro anch'io, poi diedi un colpetto alla sigaretta, lasciando cadere la cenere bianca sul fango. Sembrò brillare per qualche istante, poi la spazzai via con un piede.
«Non ricordo il tuo nome» dissi.
«Edelstein. Roderich Edelstein»
Allungai la mano destra «Gilbert Weillschmidt» me la strinse, seppur esitando: sotto i guanti aveva una mano magra e fine, come quella di una donna.
Aspirai ancora, poi gli passai la sigaretta: il fumo grezzo si vedeva debolmente nella notte.
«Austria dove?» chiesi, poi.
«Vienna» rispose. Mi ripassò la sigaretta.
«E cosa facevi?»
«Insegnavo. Musica. Sono un pianista»
«Non ti hanno preso alla filarmonica di Vienna?»
«Avevano» disse, e la sua voce suonò amara «Poi mi hanno arruolato»
Il fruscio dei passi dei ratti e il respiro dei compagni dormienti: Roderich lasciò bruciare la sigaretta.
«Suppongo tu sia di Berlino» disse poi, fumando finalmente «Eh! Allora ti ricordi quando ti parlo!» feci, scrollando le spalle «Puoi giurarci che sono di Berlino. Il cuore della Prussia» era piacevole da dire.
«Facevo l'ingegnere» continuai poi. Nominai la ditta dove lavoravo.
La voce di Roderich era severa «Non possono averti arruolato»
«Non ho mica detto che mi hanno arruolato» dissi io «Mi sono arruolato» gli strappai la sigaretta.
«Dunque è vero che voi prussiani amate combattere» disse, nel tedesco austriaco che suona sempre più dolce e carezzevole.
«E voi austriaci siete buoni a far parate» aspirai «Mio fratello faceva l'architetto. È stato arruolato nel '14» le parole si mischiarono al fumo «È morto il gennaio del '15»
Feci un tiro ancora, assaporando il silenzio della sorpresa.
«Li sono sempre piaciute le case» dissi.
«Immagino fosse molto bravo»
«Cazzo se lo era» stracciai la sigaretta tra le dita. Il mio fratellino aveva sempre amato le case; quando nostra madre era ancora viva, aveva convinto nostro padre a comprargli una casa per le bambole: lui era inorridito, ma poi aveva guardato con soddisfazione Ludwig che gettava via via i mobili e tutte quelle “sciocchezze inutili” e cercava di capire come faceva la casa a star su.
«Mio padre era fiero di lui» cercai un'altra sigaretta, ma Roderich mi aveva preceduto: me ne offrì una, assurdamente fine, o almeno così sembrava. Feci un tiro profondo: oh, com'era stato fiero di lui nostro padre. Ludwig era bello, alto e muscoloso, capelli biondi e occhi azzurri, l'aria severa, un lavoro rispettabile, una moglie bella e solare che cucinava come nessun'altra al mondo. Anch'io ero fiero di lui. E lui era morto.
«Il tuo non doveva esserlo un granché» aggiunsi, scacciando via il fumo.
«No, non lo era» sembrava impassibile.
«Nemmeno il mio, di me» mi sistemai contro il parapetto in silenzio, mentre tendevo la sigaretta a Roderich: la prese con controllata tranquillità, ma lasciò uscire fumo e un sospiro.
Lo guardai: non era come mi sarei aspettato, non sembrava che quei giorni in trincea fossero riusciti davvero a scalfirlo: era sporco di terra, polvere e sangue, aveva l'aria esausta, lo sguardo vuoto, i primi segni di occhiaie.
Nonostante questo, sembrava risplendere, come se nulla fosse - doveva ormai essere preda dei pidocchi, come tutti noi, eppure non scattava per grattarsi nervosamente; nonostante la stanchezza cercava di sembrare sveglio, e nonostante la sporcizia cercava di sembrare composto: doveva avere un'eleganza naturale da cui trarre giovamento per mantenere un po' della sua antica dignità.
Gli strappai la sigaretta, e feci un tiro brusco, prima di ripassargliela: in fondo Roderich mi irritava, più di ogni altra cosa. Era lì, seduto, con le mani fini – come quelle di una donna – appoggiate sul grembo – graziosamente appoggiate – ed era come se ci stessimo sfiorando.
«Sei sposato» dissi poi. Lui annuì «Si chiama Elizveta» la voce divenne dolce, carezzevole «Non c'è donna al mondo che sia al pari di lei» ora, sorrideva, di un sorriso appena accennato «Fa da precettrice alle figlie di certe signore»
«Figli?» chiesi, ancora. Scosse il capo «In futuro, forse. Ci siamo sposati da poco» disse, a mo' di scusa. Lasciò cadere un po' di cenere.
«La tua fidanzata?» chiese, allora. Scossi la testa «Non sono da sposarmi, io» dissi, e gli presi di nuovo la sigaretta «Non mi piace il matrimonio. La stessa donna per tutta la vita » scrollai le spalle «È già abbastanza doverle subire per cinque minuti» mi guardò «E tuo fratello?»
«Oh, lui sì» dissi io «Si è sposato con un'italiana. Si chiama Maria»
«Dove si sono conosciuti?»
«A Firenze. Mio fratello ci era andato per studiare»
«Ed è insopportabile?»
«No, lei no» risi «Lei è l'unica donna che posso tollerare. Una creatura splendida» Roderich non aggiunse altro,
Ridacchiai in silenzio all'idea che l'austriaco si chiedesse cosa e quanto mia cognata, con la sua pelle bianca e i capelli sottili e rossicci, potesse essere splendida, per me.
«Sono felice di averla come sorella» aggiunsi. Roderich mi passò la sigaretta: la presi senza fretta, sfiorandogli le dita.
La nostra non era una conversazione strana, né speciale: era una conversazione come le tante altre che i soldati tenevano in quelle trincee di fango e sangue, lontani da casa, lontani da tutto. Ce n'erano state di più intime tra noi della compagnia, altre sere, altre notti, altri giorni: più silenziosi, più lievi, momenti in cui ci sembrava di vivere senza pelle.
Ma al momento mi sentivo come un cane, come se io e Roderich fossimo due cani lungo uno dei parchi di Berlino, intenti ad annusarci .
Avevo una gran voglia di mordergli la coda.
«Dev'essere dura per lei» disse, gentile.
Dev'essere dura per lei.
Rividi il suo sorriso tra le lacrime, sentii di nuovo la voce di mio fratello che me l'affidava.
«Beh, non dev'essere facile nemmeno per la tua» risposi «Ma almeno ora ti hanno spedito qui» feci un gesto vago con la mano, indicando il cunicolo.
Gli occhi lampeggiarono, e fece come per andarsene: gli presi il polso, e lui si voltò, furioso: lo guardai negli occhi per un unico, lungo istante. Poi si liberò bruscamente della mia mano, ma sembrava essersi calmato.
Lo osservavo come Principessa avrebbe fatto come uno strano uccello, come il Lucchese faceva con fiore, albero o sprazzo di cielo che per un istante gli ricordasse la vita e il colore: ogni tanto sembrava trattenersi dal delineare con le dita i contorni di qualcuno di quei frammenti di vita, come se non chiedesse che poterlo ritrarre.
«Parlami di Vienna» dissi. E lui lo fece.
La prima cosa che mi descrisse fu la Rathaus Platz, senza troppa convinzione: poi accennò alla Maria Therese Platz, e la sua voce parve infiammarsi: mi parlo del Kunsthistorisches, il cui palazzo era enorme e riccamente decorato, delle sue gallerie dalle volte di marmo scolpito, con angeli e fregi in rilievo, dei quadri appesi nelle loro cornici di legno ed oro, della bellezza dei volti che vi erano impressi; mi disse della statua dell'Imperatrice, scolpita del ferro, del modo in cui sua moglie la guardava tristemente ogni volta, perchè era seduta con i cavalieri ai suoi piedi, mentre il giorno in cui era diventata Regina d'Ungheria cavalcava fiera ed eretta, e la sua Elizveta per questo l'ammirava molto. Con un sorriso mi raccontò di quando erano fidanzati e erano andati al museo per la prima volta: erano dovuti uscire quasi subito perchè il quadro degli Arcimboldi, frutta e verdura, continuava a far ridere la sua futura moglie. Seguendo quei ricordi mi parlò dei parchi di Vienna, delle pasticcerie, delle fragole e la panna che si abbracciavano gentilmente sul pandispagna e del cioccolato che soffocava ogni cosa. Parlò della torta del giorno in cui aveva deciso il suo fidanzamento, dell'orgoglio, per la prima volta, negli occhi di suo padre, della felicità fragile di sua madre verso Elizveta, che ogni tanto era troppo brusca e troppo spavalda, abituata com'era a vivere solo con suo padre e suo fratello. Accennò alla carriera di Prefetto che non aveva mai voluto scegliere, parlò della prima volta che aveva suonato il piano.
Fu solo in quel momento che parve davvero illuminarsi: mi parlò di piani e spartiti, della qualità delle corde dei piani e della forma dei tasti; mi descrisse il Burg in ogni suo squisito dettaglio, dai candelieri di intricato oro agli affreschi, alle poltrone di velluto, parlò dei compositori e dei pianisti, accennò le arie e le melodie, disse ogni nome come se fosse quello di una donna amata: mi parlò della Filarmonica doveva aveva potuto suonare solo una volta, delle altre orchestre in cui aveva suonato, dei musicisti che aveva incontrato – gli italiani dalla bella voce e i russi rigidi, dello svedese taciturno che era sempre inquietante tranne che quando suonava il violoncello, il direttore inglese di cui tutti avevano paura, il nobile francese che una volta aveva assistito a uno dei loro concerti e poi aveva preteso di conoscerli tutti – e a ognuno di loro era arrivato una bottiglia di vino e un mazzo di rose. Mi descrisse cosa si provava nel suonare ; le mani sui tasti che basta accarezzare per sentirne il suono, il modo in cui riusciva a distinguere le note, in cui le sentiva unirsi e susseguirsi, sentire la melodia cambiare a ogni tocco delle sue dita, la musica stessa al suo comando.
Le sue mani l'avevano assecondato, e le dita in aria sembravano suonare un pianoforte invisibile: mormorò qualche nota, poi cominciò a cantarla lentamente.
Finì e le sue mani parvero cadere. Immaginai che avesse gli occhi chiusi, il respiro trattenuto.
«Chopin»
«Sì» rispose. E fu tutto.


Accendemmo una nuova sigaretta, quando mi chiese di parlarmi di Berlino; gliela passai e mi accorsi che non l'avevo mai visto, senza guanti.
Gli descrissi Postdam e ogni suo albero, il palazzo di Souns-souci in ogni sua intarsiatura, la sua storia come l'aveva dipinta mio padre, che da bambino mi aveva portato portato nella cattedrale di Postdam, sulla tomba del Grande per dirmi “Ecco chi è davvero tuo padre”. Gli parlai della croce prussiana di ferro che io ora portavo al collo e che lui aveva meritato, mio padre che era uno degli uomini che avevano fatto la Germania. Ripescai il ricordo di Bismarck, a cui mio padre aveva stretto la mano, accennai ridendo alla nostra cintura, su cui ogni soldato tedesco aveva scritto Dio è con noi.
Gli raccontai di mia madre, che accompagnava me e mio fratello al parco, scortati dai due grossi pastori tedeschi di mio padre e di mio zio, morto da eroe al fianco degli austriaci. Disegnai nell'aria uno dei piatti che mia cognata aveva portato dall'Italia, cosparsi di pomodoro e origano. Scaccia con le dita il ricordo delle donne che avevo frequentato solo nei salotti e parlai a lungo dei cani che avevo addestrato. Gli raccontai del modo in cui i francesi si spaventavano nel vedermi correre verso di loro con gli occhi rossi e i capelli bianchi, terrorizzati quasi quanto i bambini con cui cercavo di giocare da bambino, e notai che non rideva. Parlai dei lavori che avevo fatto, dei libri che avevo letto, le cose che per me erano parte di Berlino forse più dei suoi mattoni.
Sentii che capiva, e sapevo che lo sentiva.
Gli parlai del giorno in cui mio fratello era arrivato a casa, aveva baciato sua moglie, salutato nostro padre, abbracciato suo fratello e appoggiato l'ultima busta paga sul tavolo, perchè l'architetto Ludwig Weillschmidt era stato arruolato. Del sorriso di mia cognata tra le lacrime, mentre cercava solo di pensare a quello che a suo marito doveva servire durante una guerra. Di come aveva sussurrato che sapeva che lui sarebbe tornato presto, perchè avrebbe avuto una figlia e l'avrebbe chiamata Maria. Di come lei e le altre donne del vicinato si erano strette tra loro, in silenzio. Dell'abbraccio con cui Ludwig mi aveva salutato, affidandomi sua moglie e la sua futura figlia.
Di come invece era nato un maschio che aveva chiamato Otto, qualche giorno prima che arrivasse una lettera annunciare la morte di Ludwig, e un suo commilitone a consegnarcela.
Un colpo al cuore e via.
Il maggiore era sopravvissuto al minore.

Gli dissi di come avevo dato il mio lavoro a mio padre, la mia promessa a lui, e mi ero arruolato facendo il mio dovere. Di quel debole orgoglio che nonostante tutto l'aveva colto mentre consegnava la croce al suo primogenito, sempre così magro e solitario. Della prima volta che avevo messo piede in caserma e avevo capito che quello era il posto a cui ero sempre appartenuto. E lui parlò dell'orgoglio del suo, di padre, nel vedere il suo unico figlio partire per diventare uomo, difendere la patria, affrontare la vita, lontano per una volta dal suo pianoforte e i suoi completi eleganti.
Eravamo seduti vicini in una trincea piena di fango, la Terra di Nessuno alle spalle, il suo ricordo e le sue ombre soppiantate da altre, più cupe, più grandi, curiosamente meno ostili mentre si fondevano tra loro ad ogni parola.
Sentimmo il rumore di qualcuno che saliva sul parapetto nella sezione accanto: dovevo andare.
Ci stringemmo brevemente la mano in cenno di saluto.

George era tornato: lo Svevo aveva procurato un po' di luce, fioca, e era chino su di lui; Principessa si era trascinato verso di lui - sentii Malchik sfiorarmi mentre in silenzio lasciava la sezione.
Era ricoperto di fango e sangue, per aver strisciato, fradicio per l'acqua che si era raccolta nei crateri; puzzava di esplosivo e carne morta, e quell'odore non veniva mai via.
Ci vedeva ma non sembrava riconoscerci davvero: aveva un portafoglio di pelle spessa, cascante, le dita serrate intorno, sangue sotto le unghie. Si accorse di me solo quando gli gettai in faccia un po' di grappa: non lo ripulì, ma cancellò il segno del pianto.
«L'ho riportato.» disse soltanto «È qui.»
Non guardammo oltre il parapetto – sapevamo che non mentiva: lo Svevo tese le dita verso il portafoglio. George glielo porse, ma fui io a strapparlo.
Dentro c'erano un paio di vecchie banconote, piegate e ben nascoste, come conservate per qualcosa: c'era un penny d'argento, che fece sussultare George, un fazzoletto con una macchia di vernice rossa e un vago odore di colonia, una foto ingiallita non da prima della guerra, ma da prima ancora: il Lucchese nella foto aveva a malapena trent'anni, e capelli biondi che ricadevano sulle spalle in curve morbide e intricate. Aveva già la barbetta, e un pennello in mano, accanto a una donna dai capelli corti che sorrideva.
Dietro c'era scritto: Paris, 1904. Seguiva un indirizzo schizzato a matita.
Ora capivamo perchè il Lucchese aveva odiato meno di tutti noi.
Dentro c'era anche qualche petalo di rosa, e una medaglietta di San Cristoforo.
Lo Svevo rimise tutto nel portafoglio, e lo ridiede a George: lui lo prese, tremando, poi lo svuotò con un gesto secco. Lo tese allo Svevo con mano ferma: lui esitò, poi lo prese. Diede la medaglietta a Principessa, che la mise subito al collo, e mi mise in mano il penny. Il resto finì nel suo portafoglio, da cui spuntava il lembo di un altro fazzoletto, macchiato di un rosso che non era vernice.
Lasciò a terra solo le due banconote: le presi, ancora piegate – c'era di sicuro qualcosa per cui conservarle.
Poi, George si accucciò contro la parete di fango e legno: lo Svevo gli si avvicinò, e Principessa si sistemò tra loro. Alla fine, mi avvicinai anch'io, alla sinistra di George. Dormimmo.

Quel giorno non ci fu nessun alzabandiera: era ora di tornare. Malchik venne a aiutarci a trasportare Principessa, e poi anche Roderich e gli altri due austriaci chiesero se avevamo bisogno di aiuto: probabilmente immaginavano cosa doveva esserci oltre il parapetto. Vidi Roderich cercare di non respirare, mentre aiutava Malchik e lo Svevo per fare il più in fretta possibile: per lui, il cadavere del Lucchese, probabilmente puzzava e basta. Si sporse con me e George dal parapetto, tendemmo le braccia e tirammo.
Non appena cadde nella trincea lo coprimmo con una coperta: Roderich e l'altro austriaco si voltarono, e sentimmo uno di loro vomitare.
Non era il peso di un uomo, e Principessa era leggero: la terza squadra della quinta compagnia non ostacolò in nessun modo il rientro del quarto reggimento.
In effetti, avrebbe potuto anche non esserci.
Spezzai a metà la tavoletta di cioccolata, e mi misi in tasca quella di George, che continuava a scavare. Il capitano ci aveva dato il permesso di metterci subito al lavoro, e avevano già preparato la croce, bianca con le lettere incise nel legno.

Frederick Wagner
1873 – 1915.

E basta.
Era un buon camerata» disse Willemburg, accendendosi una sigaretta «Mi diede un paio di mutande nuove, dopo la prima volta. Era gentile» fece un tiro e me la passò. La tenni tra i denti e ripresi in mano la pala. L'odore copriva un po' quello degli altri cadaveri.
George scavava spalando via la terra, gettandola dappertutto come un cane, Era già abbastanza profonda, ma scavammo ancora.
«Volete seppellirci anche un cavallo?» Landa ci raggiunse, una corona di fiori in mano. Guardò la tomba e fischiò «Ora nemmeno una bomba lo tirerà su» Erano fiori di ciliegio. Fottutissimi fiori di ciliegio che crescevano ancora.
George gettò via la pala solo quando arrivò anche il capellano Von Heidenberg
seguito da un paio di sassoni.
Il Lucchese era stato un buon camerata.
Il suo corpo cadde nella tomba con un tonfo, mentre George, pallido, incrociava le braccia, guardandolo in fondo alla buca. Sfilai dalla tasca il fazzoletto dello Svevo e la croce di legno di Principessa, che era ancora all'ospedale.
Landa portò all'altezza del petto la corona di fiori, Willemburg si mise rigido.
«Cari fratelli e sorelle, siamo qui riuniti...»
Si interruppe mentre anche lo Svevo arrivava ansante e mi strappava il fazzoletto di mano.
«...per ricordare...» da lontano si udiva di nuovo l'eco degli spari. Ma il capellano si interruppe di nuovo, perchè anche qualcun altro potesse raggiungerlo.

Notizie di Principessa ci arrivarono solo verso sera a cena, quando Landa ci affiancò e spinse via una recluta dalla pentola dei fagioli.
«Ho sentito mio fratello» cominciò «Ci ha rimesso il piede, ma sarà a casa molto prima di tutti noi»
Sorridemmo; lo Svevo gli offrì una sigaretta e George gracchiò piano.
«A quanto pare saranno solo i tedeschi a rimanere qui, A quanto dice mio cugino» continuò – il nonno di Landa aveva avuto dodici figli e tutti i nipoti in età arruolabile « anche gli austriaci se ne vanno. Contro gli ivan, beati loro!» addentò un pezzo di carne « Basta sedersi e sparare!» spezzai a metà il pane.
«Quando partono?» chiesi, passandone metà alla recluta.
«Domani mattina» deglutì « un ordine improvviso. Strano, no?»
Lo Svevo si accigliò, George vuotò un bicchiere d'acqua. A me non importava. Mi scrollai le briciole di pane dai pantaloni e presi un altro pane che non si spezzasse se chiudevo il pugno.


«Gilbert» Era poco più di un sussurro: mi misi a sedere, scostando la coperta.
«Roderich?» riuscivo a distinguerne a malapena la sagoma nel buio, ma la voce, con quell'accento di seta, era inconfondibile,
Scossi la testa per svegliarmi «Che diavolo...»
Mi prese per il colletto e mi baciò.
Non doveva essere la prima volta che mi succedeva, ma non ne ricordavo altre. Gli passai una mano tra i capelli, arruffandoli, e sentii che si appoggiava a me, mentre cedevo sotto il suo peso.
Poi si staccò. 
Sentivo solo il respiro dei miei compagni.
Capii.
«Sigaretta»
Gli presi la mano e lo tirai su a forza. Non disse nulla, nemmeno una flebile protesta mentre me lo portavo dietro per l'accampamento, evitando le sentinelle- una di loro mi salutò, così domani sarei rimasto senza sigarette. Stringevo più forte che potevo e sentivo le sue dita stringere a loro volta.
Arrivammo davanti alla baracca di Landa, che fumava: mi limitai a ficcargli in mano il mio portafoglio. Non c'era niente che – ma in trincea non esiste niente di più caro; ci spinse dentro. Sul pavimento c'erano un paio di brande, e qualche coperta. Era il meglio che potessimo avere. Non appena la porta si chiuse, tirai a me Roderich.
Fece solo una smorfia quando cademmo sul pavimento che pochi centimetri di branda non ammorbidivano – e tanto meno rendevano più pulito. Poi esitò, e mi baciò di nuovo.
Si sdraiò mentre gli sbottonavo la divisa, e sentii anche la mia che si allentava.

Cominciava a albeggiare: ci eravamo già rivestiti e io avevo recuperato il mio portafoglio da Landa, che mi avrebbe aspettato a colazione per discutere il prezzo. Io e Roderich tornavamo dalla sua compagnia, che doveva partire non appena fosse sorto il sole.
Non avevamo più detto molto: le baracche del reggimento austriaco erano già visibili. Suonò la sveglia, e il rullo di tamburi continuò nei passi crescenti dei soldati che correvano per il campo.
Avevo la fede di Roderich in tasca – un anello d'oro liscio e perfetto, come se nulla l'avesse mai sfiorato. Solo, c'era un po' di fango secco. Gliel'avevo rubato dal dito e quando i suoi occhi avevano cominciato a lampeggiare avevo riso.
«Te la ridarò dopo. Quando avrai suonato per me»
Aveva socchiuso appena le labbra, incapace di dire alcunché: poi aveva detto «Va bene», gli occhi limpidi dietro le lenti.
Eravamo a pochi passi dai suoi compagni, in uno dei vicoli tra le baracche dove i bavaresi si giocavano ai dadi le puttane del villaggio. A terra c'erano ancora mozziconi e un paio di dadi.
Si voltò.
«Arrivederci» la luce debole del sole illuminava ogni dettaglio del suo profilo.
«Addio, semmai, damerino» incrociai le braccia «Senza il Magnifico Me non durerai una settimana!»
«Sopravviverò» sorrideva: per l'ultima volta.

Di che reggimento siete, fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata.

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

[G. Ungaretti]

[ ] [ ] [X] [X][x] [ ]

L'unica cosa che posso segnalare, è che c'è stata una variazione dell'originale inviata al concorso, per quanro riguarda la scena dell'anello, che inizialmente era Roderich a dare a Gilbert; rendendomi poi conto dell'assurdità della cosa, ho trasformato l'iniziale sicurezza di Roderich in qualcosa di diverso - per quanto egli sia deciso, sul momento, non lo è fino in fondo. Spero che i prossimi capitoli aiuteranno a fare chiarezza.
Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto alle preferite, a tutti coloro che apprezzano questa storia.
Sto pregando in aramaico di aver mantenuto una caratterizzazione decente.

La parte di Gilbert termina qui,.

  
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