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Autore: Rota    09/06/2011    3 recensioni
Quando compii quindici anni, venne in casa nostra un uomo.
Mi ricordai di averlo già visto alla Centrale di papà. Era un ragazzo abbastanza giovane, papà diceva sempre che aveva ventisette anni ma dimostrava il cervello di uno di cinque. Mi accorsi, effettivamente, solo in quell'istante di quanto conoscessi di lui attraverso le parole di mio padre.
Capelli scuri, occhi chiari - un tatuaggio che gli usciva dalla maglietta a maniche corte, sul braccio.
Quando a cena ci riunimmo solo noi, mio padre interruppe il pasto e guardò me e mia sorella a lungo, prima di parlare. Mi ricordo che non ebbi la forza di interromperlo, forse neanche di respirare.
Ci disse che Francesco non era solo un suo collega di lavoro, che non era solo un suo amico e che non l'aveva invitato a casa nostra solo per farlo mangiare in nostra compagnia. Ci disse che Francesco era l'uomo con cui usciva da tempo e con il quale aveva una storia d'amore.
Era, in poche parole, il suo fidanzato.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Autore: Rota
*Titolo: Tutto su mio padre
*Fandom: Originali - Introspettivo
*Personaggi: //
*Avvertimenti: One shot - Slash - Linguaggio!
*Generi: Romantico, Introspettivo
*Rating: Giallo
*Note: Il titolo della mia fan fic è la ripresa spudorata del film "Tutto su mia madre" di Pedro Almodovar. I temi trattati sono molto diversi, avviso subito, ma mi piaceva come suonava in relazione a quanto voglio dire, così ho scritto.
In realtà, non parlo tanto di omosessualità e di slash. Parlo più che altro di un rapporto padre- figlio, di un'omosessualità da parte chi non la vive ma da chi la guarda, la vede negli altri.
*Parole: 5010




La mamma morì quando avevo quattro anni. Mia sorella Luisa ne aveva solo uno, ma fu quella tra noi che la pianse di meno.
Mio padre non riuscì a riprendersi per anni. L'ho visto piangere una sola volta, per caso e quando pensava di essere nascosto a tutto e a tutti. Non gliel'ho mai detto, ma quella volta piansi anche io più forte che tutte le altre volte, rintanandomi sotto le lenzuola del mio letto e stringendo tra le mani un orsetto di pezza.
Non è mai stato un debole, mio padre. Era dipendente dall'amore che mia madre provava per lui - me ne sono reso conto razionalmente solo dopo tanto tempo, quando ebbi la coscienza di pensarci davvero. Per questo, stare solo dopo il matrimonio e dopo due figli fu una prova che lo terrorizzò, all'inizio.
Dopo aver vegetato per tre lunghi anni in un appartamento e in luogo verso il quale non sentiva più niente, aveva deciso di lasciare ogni cosa e tornare al suo luogo natio. Noi con lui.
Perdere un anno di scuola non fu un grave problema, per me. Piuttosto che vivere ancora in quella casa, dove gironzolavano fantasmi e sensazioni opprimenti, avrei fatto qualsiasi cosa. E penso che anche Luisa provasse i miei stessi sentimenti, all'epoca.

Andammo a Nord, a casa dei miei nonni paterni. Era un posto freddo anche d'estate, diverso dal luogo dove avevamo sempre vissuto fino ad allora, e la gente ti guardava male se capiva che non eri del posto.
Ma io trovai un negozietto in fondo alla strada dove una signora mi sorrideva sempre e mi regalava caramelle ogni volta che andavo a comprare qualcosa - e fu semplicemente la prima.
Dopo qualche mese, riuscimmo a comprare una nuova casa tutta per noi, e nostro padre riprese a lavorare come se niente fosse successo.
Lui faceva il poliziotto, e io all'epoca mi eccitavo ogni volta che lui tornava a casa in divisa e ci salutava con un grande sorriso. Vedevamo la nonna tanto spesso, ci faceva da mangiare ogni giorno, quando tornavamo da scuola.
Sorrideva come sorrideva mamma, e noi eravamo tanto felici, anche se la pasta al sugo proprio non le riusciva.
Nessuno di noi aveva dimenticato la vecchia casa, e una foto di mamma era stata appesa in ogni stanza, proprio sopra l'orologio. Mio padre è sempre stato attento all'ora, è una piccola mania che neanche mamma è riuscita a togliergli, in tanti anni. Ma penso di aver perdonato ogni suo difetto, all'epoca come negli anni seguenti, semplicemente perché mi sentivo in colpa.
Non ero lei e mai lo sarei stato, ed era come se questo schiacciasse ogni mia altra intenzione.
Per questo reagii male e tardi quando le cose precipitarono velocemente.

Mio padre non è mai stato un uomo eccessivamente avvenente.
Non rifiutava la compagnia, ma non la cercava a proposito. Mi sono chiesto spesso come avesse fatto mamma a farlo innamorare a tal punto da rendersi indispensabile.
Forse, perché il suo è un carattere serio, di quelli che quando si impegnano lo fanno senza scherzare e con il chiaro intento di andare fino in fondo. Anche Luisa è sempre stata così, non sono mai riuscito a giocare a lungo con lei perché era troppo riservata e silenziosa. Mi dava una sensazione di inquietudine, a lungo andare. Ma forse, e questo lo capii dopo, era perché era cresciuta quando papà non sapeva dare il giusto amore a nessuno, e per questo forse pensava di non poter pretendere niente da alcuno. Neppure da noi, neppure da me o da nostro padre.
Mio padre non è uno a cui interessa l'etichetta. Si è sempre mostrato formale, ma solo perché nella sua mentalità dimostrarsi serio significa dimostrare di valere qualcosa. Come la laboriosità, il talento, lo zelo: tutte cose che fanno di un uomo un perfetto lavoratore. Lui ha sempre voluto essere un perfetto lavoratore, per nutrire il proprio ego senza dover provare rimorsi inutili.
Avrebbe voluto essere anche un perfetto padre e un perfetto marito.
Come marito, lui stesso non si è mai rimproverato nulla. Sempre fedele alla mamma, sempre morigerato, sempre attento e premuroso - quando ero piccolo, a casa c'era sempre sul tavolo un mazzo di fiori freschi, che papà non si dimenticava mai di comprare.
Come padre, cercò di tenere stretta la propria intimità nella paura che potesse metterci a disagio.

Solo una volta vidi una delle donne con cui usciva. Era una signora elegante, ed era venuta a casa prima del suo rientro. Le offrii un bicchiere di limonata fresca, e lei mi sorrise gentile. Papà arrivò qualche minuto dopo e la portò via quasi imbarazzato.
Non feci alcuna domanda a riguardo, né lui mi spiegò mai nulla.
Non ho mai provato una gelosia tale da volerlo solo e solamente mio, nei suoi confronti.
Soffrivo quando mi accorgevo di non essere abbastanza - che neanche i miei buoni voti e il mio impegno potevano, davvero, renderlo più felice e orgoglioso di me di quanto già non fosse. Stupidamente, nutrivo per lui l'amore materiale che nutrono gli insicuri e gli inesperti. Non mi curavo di quanto potesse sentire dentro, non riuscivo a capire che un'ora con lui valeva ben più che un voto ottimo in una materia in cui arrancavo. Era per me molto difficile comprendere quello strano modo di amare. E per lui valeva lo stesso.
Veniva a casa la sera, in tempo per fare la cena. Ci domandava con poche parole come fosse andata la giornata, compiti e valutazioni, scaramucce e problemi.
Ogni tanto, certo, andavamo fuori assieme - momenti di festa non mancarono mai, in realtà, ma ogni volta che ricevevo da lui regali mi sentivo disgustato.
Pensavo, chiaramente, che quello era il frutto del lavoro che mi toglieva mio padre.
Siamo sempre stati simili, per questo. Ci siamo odiati tanto e tanto ci siamo amati, vicendevolmente.
In maniera decisamente stupida e artificiosa. Eravamo molto bugiardi, a quel tempo. L'uno dei confronti dell'altro.
Ma il nostro equilibrio precario non è mai stato alterato.
Da quando ho compreso che, nonostante tutto, mio padre aveva una vita sentimentale propria, ebbi una strana reazione.
Pensai, con chiarezza allucinante, che nessuna di loro avrebbe potuto sostituire mia madre. Allora, la gelosia non andava neanche sprecata.
Mio padre non avrebbe mai amato nessuna di loro tanto da tradire me e mia sorella Luisa.
Con quelle donne sarei stato gentile come papà mi aveva insegnato, se solo mi si fosse presentata l'occasione. Non l'avrei fatto sfigurare, mai e poi mai.
Ma papà non portò mai una donna a casa volontariamente e io non dovetti preoccuparmi di nulla.
Crescevo, e in casa continuava a esserci tanto silenzio.

Quando compii quindici anni, venne in casa nostra un uomo.
Mi ricordai di averlo già visto alla Centrale di papà. Era un ragazzo abbastanza giovane, papà diceva sempre che aveva ventisette anni ma dimostrava il cervello di uno di cinque. Mi accorsi, effettivamente, solo in quell'istante di quanto conoscessi di lui attraverso le parole di mio padre.
Capelli scuri, occhi chiari - un tatuaggio che gli usciva dalla maglietta a maniche corte, sul braccio.
Mi portò in regalo il modellino di una moto da corsa. Aveva impacchettato la confezione lui stesso, e si vedeva perché era una confezione davvero brutta. Tuttavia, il regalo mi fece davvero felice. Eravamo in pochi amici, a casa, e il suo fu il regalo più bello.
Si chiamava Francesco e mi stava davvero simpatico.
Quando a cena ci riunimmo solo noi, mio padre interruppe il pasto e guardò me e mia sorella a lungo, prima di parlare. Mi ricordo che non ebbi la forza di interromperlo, forse neanche di respirare.
Ci disse che Francesco non era solo un suo collega di lavoro, che non era solo un suo amico e che non l'aveva invitato a casa nostra solo per farlo mangiare in nostra compagnia. Ci disse che Francesco era l'uomo con cui usciva da tempo e con il quale aveva una storia d'amore.
Era, in poche parole, il suo fidanzato.

Non mi ricordo cosa feci, esattamente, quando mio padre tornò in silenzio.
Francesco era indeciso se essere imbarazzato oppure orgoglioso di lui, e infatti si nascose tra le foglie d'insalata che brulicavano nel suo piatto.
Luisa restò muta quanto me per diverso tempo, poi guardò mio padre e gli confessò che due giorni prima aveva anche lei baciato un bambino che si chiamava Paolo e che era il suo fidanzatino.
Scoppiò a piangere, piena di imbarazzo, e mio padre corse da lei a consolarla come se si fosse appena sbucciata un intero ginocchio.
Non mi ricordo cosa feci, esattamente, mentre fissavo Francesco che in quel momento avrebbe semplicemente voluto sparire da tanto lo guardavo male. Non fu un bel gesto, da parte mia, ma ero confuso e arrabbiato, ero imbarazzato, felice forse, e non sapevo davvero cosa dire e cosa fare.
Papà aveva sempre amato una sola persona, mia madre, e sentirlo parlare così di qualcuno di diverso che non fosse lei mi spiazzò davvero molto.
Ero confuso, e nessuno si prendeva la briga di spiegarmi cosa stesse succedendo in quella casa.
Ad un certo punto, lasciai forchetta e coltello nel piatto e me ne andai in camera senza dire nulla a nessuno. Solo mio padre ad un certo punto mi chiamò - una sola volta, e neppure con troppa convinzione.
Mi rinchiusi lì dentro e mi buttai sul letto, a guardare il soffitto fino a che non fui preso brutalmente dal sonno e mi addormentai.

La mattina dopo non lo vidi né mi parve che, in casa, ci fosse qualcosa di diverso dal solito di sempre.
Aiutai mia sorella a prepararsi per la scuola, come ogni volta, ma quando uscii di casa e stavo per incamminarmi per la strada, qualcuno mi suonò e si avvicinò a me, con un largo sorriso sulle labbra.
Francesco ci propose un passaggio - e prima che potessi dire qualcosa Luisa aveva già detto di sì, vinta dalla sua promessa di caramelle e cioccolata.
Quantomeno, ebbe il buon senso di non parlare di papà di fronte a noi.
In realtà, fu molto gentile. Ora penso che fosse sincero quando disse di essere molto curioso di conoscerci. Ci fece un sacco di domande, a proposito della scuola e dei nostri gusti, delle nostre amicizie e altro. Fu forse invadente, ma a Luisa piaceva rispondergli, era visibilmente eccitata dalla sua presenza.
Lei non si è mai posta alcun problema, e anzi era contenta che un piccolo pezzo del mondo di papà si fosse finalmente palesato di fronte a noi. Lei vedeva tutto positivo.
Io no, io fui infastidito dalla persona di Francesco. Lo ritenni invadente, soffocante, insulso.
Ora come ora penso che il primo sentimento che provai nei suoi confronti fu semplice e puro odio. Era la prima minaccia che si era presentata tra me e mio padre, e ne ero più che geloso. Non risposi molto bene alla sua curiosità, ma lui o non se ne accorse o non se ne curò - e lo odiai ancora di più per questo.
Alla fine, fui contento di uscire da quella macchina. Sperai solamente di non vederlo mai più e che papà tornasse a essere l'uomo riservato e discreto, in tutto, come era sempre stato.
Ma non avevo compreso e lo compresi davvero troppo tardi di quanto potesse essere intensa quella forza magica che aveva investito mio padre e l'aveva legato a quell'uomo in maniera tale da modificare le sue abitudini e i suoi comportamenti.
Francesco non era una delle solite donne di passaggio.

Nei giorni e nelle settimane seguenti, papà gli permise di avvicinarsi a noi in maniera anche più marcata. Francesco doveva aver aspettato a lungo quel momento, e come un ragazzino piccolo non faceva altro che assecondare i suoi desideri.
Ci portò spesso fuori, assieme a nostro padre. Ci veniva a prendere a scuola, quando tecnicamente doveva lavorare. Ci offriva piccoli regali strambi, per lo più dolcetti e piccole cose.
Era un bambino troppo cresciuto, ai miei occhi. E io non capivo come un uomo simile potesse piacere a mio padre. Era totalmente diverso da lui, quasi l'opposto. Non aveva provato alcun dolore come poteva esserlo la perdita di una persona amata, non aveva una famiglia a cui badare, non era serio, non era capace, non era niente che papà potesse davvero apprezzare.
Eppure, dalle sue parole, sembrava essere un uomo sì pieno di difetto ma con il cuore più grande del mondo e con quella umanità che, quando la vedi, non puoi che amare profondamente e intensamente.
Io mi rifiutai di accettare l'idea che mio padre potesse amare qualcuno al di fuori di me.
Divenni omofobo, per qualche tempo. Lo divenni perchè intimamente mi sembrava l'unica soluzione, l'unica via per accettare i miei sentimenti.
Ogni volta che iniziava un discorso sugli omosessuali, o facevo finta di non ascoltarlo o lo cambiavo radicalmente, di punto in bianco. Rifiutai caparbiamente, e forse anche con parecchio sgarbo, gli inviti che mi faceva per manifestazioni, congressi, cortei contro l'omofobia. Inventavo scuse, oppure semplicemente gli dicevo che non mi interessava nulla di tutto quello.
E stavo male, perché comprendevo dentro di me quanto fosse egoista e brutto il mio comportamento. Stavo male, perché avevo paura di essere lasciato solo da quell'unica persona rimasta a proteggere me e mia sorella, eppure sapevo che non poteva essere sempre così e che prima o poi sarebbe successo - anche solo il fatto che stavo crescendo e che presto o tardi avrei lasciato quella casa a mia volta per costruirmi una mia famiglia e una mia vita. Stavo male, perché avrei dovuto essere felice per lui ma non ci riuscivo, e avrei voluto che le sue mani stringessero sempre le mie e che le sue parole fossero sempre per me, e a costo di sembrare infantile e a fare i capricci come un bambino piccolo glielo dicevo in faccia e lui, paziente, mi accontentava in tutto.
Non smise neanche un secondo di amarmi con tutto sé stesso, ma ero troppo accecato dai miei sentimenti per accorgermene.

Fu mio nonno a farmi capire molte cose, il pomeriggio di un giorno vicino a Natale.
-Io non ho cresciuto un frocio!-
Fu quasi un fulmine a ciel sereno. Eravamo tutti riuniti a casa, papà aveva deciso di presentare Francesco anche ai suoi genitori, perché capissero che finalmente aveva superato la crisi dovuta alla morte della mamma e che aveva riconquistato un pezzo di felicità.
Mi ricorderò per sempre l'espressione di pura freddezza che si dipinse sopra il volto di Francesco, ma ancora di più quella di mero terrore sul volto di mio padre.
Qualcosa, in lui, si era spezzato. Non aveva fatto rumore, non si era visto, ma lo percepii ugualmente.
Non dissi niente, in quel silenzio teso, e lasciai che i nonni prendessero i loro cappotti e uscissero di casa, lanciando sguardi di fuoco a tutti noi.
Se non ci fosse stato Francesco e la sua risata forte e la sua proposta quasi assordante di metterci a tavola che altrimenti si raffreddava, saremmo rimasti lì fino ad addormentarci.
Facemmo tutti fatica a riprendere a parlare, ma Luisa aiutò nel processo, e cominciò a parlare con papà e con Francesco. Aveva percepito il disagio nell'aria, anche se non aveva compreso cosa mai il nonno avesse detto, e stava rimediando come sapeva fare lei.
Parlai davvero poco, quella sera. Per la vergogna e per il dolore che avevo provato, l'umiliazione di non aver saputo dire proprio niente di fronte a tutto quello. Anche papà parlò poco, non riuscì a sorridere a Francesco come sempre aveva fatto.
Quella notte andai da lui, nel suo letto. Dormiva da solo, in un matrimoniale, comprato forse nella prospettiva di riempirlo proprio con qualcuno di amato. Realizzai in quel momento come mio padre avesse sempre avuto la tendenza a fare progetti a lunga scadenza. Salii sul materasso - lui non disse nulla ne si mosse - mi avvicinai a lui, che teneva gli occhi chiusi ma si sentiva che era sveglio, e mi misi vicino a lui, a dormire. La mattina mi ritrovai tra le sue braccia, mentre mi svegliava con un bacio dicendomi che era ora di andare a scuola.
Sentivo di essere stato perdonato di una colpa che mai mi era stata imputata e io ero semplicemente felicissimo.
Non smisi di essere geloso, neanche un secondo della mia vita. Non smisi davvero, ma non fu il senso di colpa, a quel punto, il solo a fermarmi dal dire qualcosa. Mi accorsi che papà aveva ricominciato a parlare con Francesco. Mi accorsi che papà aveva ricominciato a ridere con Francesco. A uscire, a fare cose, a ridere con noi, a vivere in una sola parola. E se magari la sua felicità doveva essere divisa tra tre e non tra due, mi andava bene lo stesso, a quel punto.
Non avrei mai più voluto vedere quell'espressione sul suo viso - mi avrebbe ucciso, letteralmente.

Fui io a chiedergli se fosse l'ideale avere Francesco nella nostra casa, come una sorta di quarto elemento. Forse fu solo per compensazione, forse perché così credevo di potermi redimere da una colpa soffocante, forse perché credevo davvero che quella fosse una buona soluzione pratica alla faccenda. Se quella era la via per la felicità, l'avremmo percorsa tutti assieme. Più tardi mi resi conto di quanta follia ci fosse nelle mie parole, ma in quel momento ero troppo pieno di me per accorgermene.
Avrebbe potuto organizzarci meglio con gli orari, persino Luisa sarebbe stata maggiormente seguita nelle sue cose. Magari anche io, che non ero propriamente grande.
Lo dissi a mio padre, e lui ci pensò seriamente per diverso tempo. E sembrò quasi che fosse stato Francesco a decidere per lui, dal momento che irruppe in casa nostra, un giorno e all'improvviso, portandosi dietro scatoloni e zaini sulle spalle.
Eravamo tutti eccitati dalla cosa. Persino papà, anche se non si vedeva tanto. Capii dopo il perché, quando era troppo tardi e quando sarebbe stato disonorevole tornare indietro o ritrattare. All'epoca ero semplicemente pieno d'amore, e mi sforzavo io medesimo nel farlo vedere a ogni costo.
Ma Francesco si rivelò un pessimo coinquilino, all'inizio: era davvero come avere un coetaneo in casa, con tutti gli annessi e connessi. Non aveva uno stile di vita sregolato, bastava nostro padre a impedirgli ogni qualcosa che non rientrasse nelle nostre regole. Fu molto ferreo, me lo ricordo, su questo punto. Ci tenne davvero tanto perché Francesco capisse l'esigenza di una sorta di continuità, all'interno della nostra casa. La novità era ben accetta, ma doveva integrarsi e non fare troppo rumore.
Ovviamente, Francesco si ribellò al sistema.
Litigai con lui in maniera violenta davvero poche volte. Non sono una persona che porta rancore, ma attendo che la mia ira vegeti e accresca dentro di me, fino ad arrivare a una tale dimensione da non poter più essere trattenuta.
Non sapeva fare le lavatrici. Cucinava male e troppo grasso. Non comprava mai le cose giuste. Era rumoroso e poco rispettoso della nostra intimità - ho sempre avuto paura che mia sorella fosse vista in situazioni a cui era meglio non assistere.
Probabilmente, la mia pignoleria era anche dettata dal fastidio che provavo per la sua presenza, ma non me rendevo conto e agivo semplicemente seguendo il mio impulso.
Una volta, mentre rientravo da un dopo scuola che mi aveva tenuto impegnato quasi tutto il pomeriggio, li vidi baciarsi appoggiati a un muro di casa. Scoppiai, e cominciai a urlare contro mio padre. Dopo aver urlato per vari minuti, scoppiai a piangere e gli chiesi scusa, ma da quel momento in poi mio padre si guardò bene dallo stringersi in effusioni con Francesco quando io o mia sorella eravamo in casa.
E questo mi fece soffrire, alla lunga.

Ci fu un periodo della mia vita che ricordo come il più difficile per il mio rapporto con la scuola. Fu quando si venne a sapere che mio padre era un omosessuale e teneva in casa il proprio amante.
Io non ho mai avuto tanti amici, pur essendo una persona cordiale e socievole non sono mai riuscito a legarmi tanto alle persone - forse, per timore di perderle all'improvviso, come era successo con mamma. Eppure, ero fiero delle poche amicizie che avevo, incredibilmente fiero.
Fu un ragazzo di nome Marco a chiedermi conferma sulle dicerie che c'erano a scuola. Io provavo irritazione per i pettegolezzi e mai ci avevo fatto caso: mio padre aveva sempre detto che bisogna sempre affrontare le cose e mai bisogna sfuggire di fronte alla realtà, altrimenti ci si ritroverà sul letto di morte pieni di rimorsi e con l'incapacità di risolvere questioni importanti. Per questo, quella volta, non sfuggii, e con tutta l'innocenza del mondo dissi che sì, mio padre amava un uomo e questo uomo viveva a casa nostra, assieme a noi.
Marco rise, dopo qualche secondo di silenzio. Rise di quella risata che sa di cattivo e perfido, di quella risata che non tenta neanche di nascondere lo scherno e che te lo sbatte in faccia con tutta la malagrazia del mondo. Marco rise, e io ancora una volta non riuscii a dire nulla.
Il giorno dopo, tutta la scuola parlava di me, di mio padre e del suo amante. Non di altro, non di sport, non di moda, non di telenovelas, non di inciucci, neanche di politica o cose affini. Non altro se non di Massimiliano Cordis, del fatto che amasse prenderlo nel culo da un ragazzino e che a lungo andare avrebbe fatto dei suoi figli altri due omosessuali irrecuperabili.
Picchiai Marco, con una ferocia che non credevo possibile. Lo aspettai dopo la scuola, e non ebbi neanche la premura di attirarlo in un posto isolato dove nessuno ci avrebbe potuto vedere. Al primo pugno non rispose, troppo sorpreso; dal secondo in poi, ricevetti anche io.
La nostra preside chiamò i nostri genitori, spingendoci a raccontare quanto era accaduto. Marco disse che l'avevo attaccato senza motivo, io non dissi proprio nulla.
Così, fummo obbligati a frequentare il dopo scuola fino alla fine dell'anno scolastico.

La verità è che mi vergognavo. Mi vergognavo di mio padre.
Dopo quella volta, non dissi più con leggerezza cosa lui fosse - in realtà, non ci volle una seconda volta, perché bastò la prima perché ogni persona legata a me lo sapesse da sé e me lo rinfacciasse in maniera più o meno evidente.
Mi vergognavo di mio padre perché sembrava che fosse un mostro, che non fosse capace di amarmi davvero, che con il suo amore sporcasse anche me. Non era tanto rispondere a un insulto, quanto dover far fronte a tutte quelle insinuazioni non dette e a quegli sguardi che la gente ci rivolgeva di nascosto, quando uscivamo assieme.
Non so come papà facesse, ma mi sentivo fin troppo spesso sotto giudizio, quasi commiserato.
Papà litigò con il suo datore di lavoro, un poliziotto con più stellette di lui sul petto. Neanche alla Stazione di Polizia sembrava che alla gente piacesse quella relazione così diversa dal normale. Eppure, Francesco mi diceva sempre che non erano gli unici, che era normale che fossero innamorati, che non c'era niente di sbagliato in tutto quello. Lo diceva a me, a Luisa e a nostro padre, sempre. Specialmente quando tornava a casa da lavoro così sfatto che non riusciva neanche a sorriderci, venendoci incontro.
Pensai, in quei momenti, che Francesco era più forte di me. Perché riusciva a calmare mio padre semplicemente baciandolo sulla bocca e ripetendogli, tantissime volte, che sarebbe andato tutto bene.
Compresi poco a poco perché proprio Francesco era stato scelto da mio padre e non un altro uomo. O quantomeno, ne vidi chiaramente gli effetti.
Anche Luisa soffrì, di quei tempi. Tornava spesso a casa piangendo, dicendo che le sue amichette non volevano più giocare con lei e che le avevano detto un sacco di brutte cose. A mio padre ci volle un pomeriggio intero per farle dire che cosa le sue amichette le avevano detto, e poi era andato alla sua scuola e aveva parlato con le maestre, a lungo.
Abbracciavo mia sorella più spesso, cercando di non farla sentire mai sola. Lei apprezzò, perché cominciò a essere più espansiva con me proprio in quel periodo. Mi veniva a cercare, quando semplicemente era triste, o si infilava nel letto la mattina dieci minuti prima di doversi preparare per la scuola.
A trovare la forza per andare avanti, nonostante tutto, dovemmo trovarci in due.

Mi legai a Francesco quasi senza accorgermene.
Era una delle poche presenze costanti, nella mia vita, e avevo imparato quanto questo volesse dire, in termini di affetto.
Mi ritrovai a parlare con lui di molte cose, riguardanti proprio tutto. Io avevo una passione smodata per gli insetti, passione che avevo preso da mio padre e che nutrivo grazie ai suoi libri di Entomologia dell'Università - li aveva messi da parte quando aveva visto che anche a me piacevano, e mai li aveva buttati via. Francesco no, non apprezzava molto gli insetti. Diciamo pure che gli facevano abbastanza schifo. Tuttavia, amava i cani e i gatti, li trovava adorabili anche se non aveva un cane per poter entrare nella squadra cinofila del nostro distretto. Gli chiesi come mai non se ne comprava uno, e rispose che papà non sarebbe stato tanto contento di dover badare anche ad un'altra bestia che gironzolava per casa, oltre a lui. Rise tanto, e gli diedi ragione su tutto.
Parlammo oltre, di tante altre cose. Di sport, in specie: basket piaceva ad entrambi, e scoprii con entusiasmo che potevo finalmente discutere con un appassionato delle ultime partite di campionato che si erano disputate da poco. Fui felice, quella volta.
Dopo quel pomeriggio, mi sentii un poco più libero nel parlare.
Non trascorse troppo tempo, in realtà, che Francesco mi propose di parlare di omosessuali e omosessualità. Me lo chiese con gentilezza, e si vedeva che era imbarazzato e provava disagio. Aveva paura che scappassi, che urlassi e che dicessi cose indicibili. Non lo feci, non quella volta. Un uomo alla volta lo sapevo gestire, e magari senza mio padre attorno mi sentivo abbastanza libero da riuscire a dire tutto.
Dissi tutta quella che era la mia verità di allora. Che amavo mio padre, che amavo Luisa, che non lo disprezzavo e che ero contento se mio padre era contento. Gli omosessuali mi interessavano solo nella misura in cui toccavano me e mio padre. In realtà, ero indifferente al loro mondo, e forse non sarei mai riuscito ad avvicinarmici abbastanza.
Altro non seppi cosa dire, ma sembrò che il mio sforzo fosse gradito appieno. Dopo quella chiacchierata, mi offrì un gelato con la panna e il cioccolato fuso sopra.

Compresi di essermi sbagliato quella stessa estate, tra la prima e la seconda superiore.
Alcuni fatti di cronaca riportarono la notizia di pestaggi, di umiliazioni pubbliche, di stupri e violenze ai danni di persone omosessuali. Omosessuali come mio padre.
Mi colpì, me lo ricordo bene, soprattutto la frequenza con cui queste notizie uscivano, di settimana in settimana. Non so se fu per una mia diversa sensibilità o per una vera e propria ondata di omofobia, però ognuna di quelle notizie mi si stampò in testa in maniera quasi indelebile.
Cominciai ad avere paura, tanta paura.
Continuavo a non rispondere alle provocazioni, o a rispondere male. Dopo Marco, non presi a pugni più nessuno, ma fu difficile in molti casi resistere alla tentazione: semplicemente, non volevo più deludere mio padre come quella volta.
Vinsi così la mia pigrizia, e cominciai a documentarmi.
Mi ci volle qualche tempo per accettare di chiedere aiuto a qualcuno. Non mi rivolsi né a mio padre né a Francesco, troppo imbarazzante e umiliante dal mio punto di vista. Chiesi a una mia amica, una di quelle che non mi aveva tradito quando aveva saputo di mio padre e del suo nuovo compagno. Ero legato a lei da sincero affetto.
Mi parlò a proposito dell'ArciGay, di molte cose storiche riguardanti una cosa chiamata movimento di liberazione omosessuale, mi fece leggere alcune cose su internet in modo tale che sapessi più cose possibile. Lei non era specificatamente interessata ad argomenti del genere, ma sapeva dove andare a cercare e cosa fare per sapere. Divenne interessata quando lo divenni io, e quando capì che per me era una cosa importante.
Non dovrei stupirmi nel constatare che, ora, quella stessa ragazza è diventata la mia fidanzata.

Partecipai a Ottobre alla mia prima manifestazione.
Avevo paura, avevo davvero tanta paura. Era come se mi aspettassi che comparisse all'improvviso da qualunque parte un esercito di uomini vestiti di nero armati di manganelli e urlanti in maniera folle.
Mio padre mi accompagnò e portammo con noi anche Luisa - lei mi tenne la mano per tutto il tempo, mentre con l'altra teneva un palloncino di color viola.
Rideva tanto ed era felice, perché pur non essendo più una bambina sapeva perfettamente cogliere l'atmosfera che le aleggiava attorno, e si adattava a questa e ne assumeva le caratteristiche. Quella era, ai suoi occhi, una bella festa, con tanti colori e tanti suoni diversi.
Dopo un po', cominciai a sorridere anche io, assieme a tutti quanti.
Camminammo quasi tutta la mattina, e arrivammo in una grande Piazza solamente verso mezzo giorno. Era la prima volta che andavo in quella città e non riuscivo a credere quanto fosse grande e immensa. Tutto un mondo mi vorticava attorno: ne ero quasi frastornato.
Ad un certo punto, su un palco che a malapena vedevo, cominciò a parlare un uomo al di sopra della folla esultante.
Parlava di uguaglianza, di diritti inviolabili, di Chiesa e di Stato, di libertà e di tante altre cose.
Non compresi tutto quello che disse, ma mi sforzai di ricordare sempre ogni sua parola. Era importante, per me.
E nel mio immaginario, dopo, ci furono tante immagini di seguito. Come io, che tra tutti, salivo sul palco e finalmente - finalmente! - dicevo la mia. Lo urlavo, perché era da troppo tempo che non lo facevo, e tenersi tutto dentro faceva troppo male.
Qualche ragazzo, qualche uomo ci salì, su quel palco. Io no, troppo lontano e troppo distante. Ma nella mia testa le parole erano davvero quelle, e fu come se le avessi pronunciate sempre, se le avessi sentite col cuore e con l'anima, e mio padre con me.
Presi in mano il microfono e dissi, chiaramente e con orgoglio:
-Sono Rino Cordis, mio padre è omosessuale e io sono felice che sia riuscito a trovare finalmente qualcuno che lo ami così tanto come il suo compagno Francesco!-

Questo, alla fine, è tutto ciò che ho da dire su mio padre.
Il mio buon padre, che non ha mai smesso di amarmi un solo secondo e che ha avuto la forza di amare con tutto sé stesso anche un'altra persona oltre mia madre. Mio padre che ha scelto di vivere, nonostante non dimenticasse il dolore atroce della perdita. Mio padre, che è stato un uomo straordinario e un uomo incredibile.
   
 
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