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Autore: Callie_Stephanides    10/07/2011    10 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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3.
Il primo amore

Non sono sempre stata una Ygeia, com’è vero che nella vita non si recita mai una sola commedia. Dal giorno in cui nasciamo a quello in cui moriamo, indossiamo mille maschere e mille pelli diverse. L’immobilità appartiene ai morti, ai loro ritratti polverosi: i vivi sono un fiume in piena, che si nutre di un’eterna metamorfosi. Eppure, chissà per quale ragione, siamo convinti di sapere chi siamo e cosa, soprattutto, saremo.
Non pensavo di poter diventare un membro del Collegio di Trier: un conto era l’ambizione di mio padre e della bambina che ero, un conto l’adolescente e poi la donna. Pragmatica e spiccia, non mi facevo troppe illusioni sulla mia posizione a Eleutheria: figlia di un aristocratico, mi collocavo al di sopra di Luthien, la cuoca, del fabbro, del fornaio, ma l’essere una femmina m’imponeva una visione realistica dei miei limiti.
Le donne non erano politici, cattedratici, alchimisti: le donne erano guaritrici, levatrici, spose. Io sarei stata una guaritrice, una levatrice, una sposa.
Erano solide certezze, cui mi ancoravo nonostante un carattere ambizioso e volitivo.
Mio padre mi aveva insegnato a confidare nell’ordine naturale, e mi aveva lusingata con il mito di Dendre: ero nata per dare la vita. La donna era quanto di buono e santo la dea avesse lasciato agli eleutheridi, perché la nascita divideva il sangue senza far male.

*

Del mio primo amore ricordo l’ineluttabilità: m’innamorai di Lukas e ne usai la pelle per dipingermi un futuro, poiché mi mancava l’esperienza per immaginare un domani accanto a qualcuno che non ci fosse sempre stato.
La sua famiglia, originaria di Kimali, si trasferì a Trier nell’estate del mio dodicesimo anno. Suo padre era un soldato di alto rango e Lukas sapeva che ne avrebbe seguite le orme.
Aveva due anni più di me, la pelle chiara e gli occhi pallidi dei figli del Nord. Pensai da subito che fosse bellissimo, poi lo vidi tirare sassi a mio fratello Rael e lo picchiai con furia selvaggia.
Il nostro primo contatto non fu morbido e languido, quanto polveroso e crudele. Portavamo nel sangue un destino di guerra, ma lo ignoravamo entrambi – non lo sapeva lui, che sarebbe morto per mano di Vinus. Non lo sapevo io, che sarei salita sulle rocche per guidare un massacro.

*

A sette anni, Rael era tutto occhi e coda. Nessuno l’avrebbe detto ‘grazioso’ e la tenerezza che riservavi ai bambini moriva d’istinto davanti ai segni eloquenti della sua diversità. Con l’istinto degli innocenti, mio fratello lo sapeva e non si allontanava mai da mio padre o dalla cuoca, che lo amava quasi fosse un figlio suo e lo esibiva con un orgoglio davvero materno.
Io stessa, l’ho detto, lo chiamavo ‘ranocchio’ e fingevo insofferenza davanti alle sue richieste d’attenzione. Se qualcuno gli avesse fatto del male, però, ero pronta a mordere senza pietà: e mio fratello lo sapeva.
Com’era la Leya di quegli anni?
Una ragazzina legnosa, dai folti capelli rossi e dal broncio antipatico.
L’infanzia se n’era andata scollandomi di dosso carne e sorrisi; non ero più un putto irresistibile dai boccoli dorati, ma il progetto incompiuto della donna che sarei diventata: bella, forse, ma di una bellezza irregolare e così poco scontata ch’era persino difficile chiamarla tale.
I miei occhi, di uno strano colore tra il castano e il verde, erano tanto distanti tra loro da togliere al viso qualunque morbidezza. La bocca, larga e sottile, acquistava una qualche bellezza solo se l’arricciavo ad arte.
I prolegomeni della mia storia d’amore più bella, d’altra parte, stanno in un soprannome odioso: la donna uccello.
Così mi chiamò Vinus. Così mi costrinse a cercare di nuovo uno specchio per capire chi fossi – chi fossi diventata, soprattutto.
 
Prima di Vinus, nondimeno, devo dire di Lukas, poiché sua fu la carne che nutrì il seme della disperazione e della rabbia che mi fece donna e magistra.
 
 
A dodici anni non avevo ancora cominciato ad affliggermi per il mio aspetto, ma esercitavo una signoria prepotente su quanto chiamavo ‘mio’ – a partire, neppure a dirlo, da Rael.
Mio fratello era un giocattolo, una vittima e un capro espiatorio; lo amavo e lo detestavo a giorni alterni, piccola tiranna di un’enclave maschile. Quando i miei tiri prepotenti oltrepassavano la misura, Luthien lo spediva a giocare con sua figlia nel cortile esterno, o inventava una commissione che potesse tenerlo impegnato per un po’.
 
Il giorno in cui incontrai Lukas, Rael e Melian – la figlia della cuoca – erano assorbiti da uno dei loro surreali passatempi: la corsa delle rane.
Se Melian non fosse diventata di una bellezza oltraggiosa – lei, sì – suppongo che mio fratello l’avrebbe amata anche solo per quanto gli somigliava, selvatica e semplice com’era.
 
Lukas aveva il doppio degli anni di Rael e capeggiava un ridicolo clan di piccoli prepotenti.
 
In quei giorni lo spettro della guerra sembrava ancora lontano, ma già si diceva del pericolo rappresentato da uno dei capitani di Koiros: un giovanissimo e spietato dracomanno dai capelli bianchi.
A trovarsene uno davanti, chissà? Lukas avrà pensato di rendere un servizio alla causa di Eleutheria.
 
Raccolse alcune pietre, altrettanto fecero i suoi sodali, e, prima che Rael potesse rendersene conto, cominciarono a tempestarlo di colpi.
Fu Melian, terrorizzata e in lacrime, a correre in casa e a invocare l’intervento di Luthien. Purtroppo per Lukas, in cucina c’ero anche io.
Uscii come una furia, le trecce rosse a frustarmi la schiena e un’espressione omicida a sfigurare un viso già tutt’altro che rassicurante. Lukas fece appena in tempo a indovinare il mio arrivo, perché un pugno d’istanti più tardi l’avevo già agganciato al collo e rovesciato nella rena battuta del cortile.
Mi afferrò per le trecce, strattonandole con forza nel vano tentativo di liberarsi dallo spaventapasseri bruttino e incattivito che lo tempestava di colpi, ma senza molta fortuna: Leya di Trier sarebbe stata un pessimo affare per chiunque.
Mi diede uno schiaffo, lo ripagai con un morso; mi colpì alla bocca, quasi gli cavai un occhio.
A dividerci, prima che ci infliggessimo mutilazioni permanenti, fu la povera Luthien – e non senza qualche difficoltà.
“Questa me la paghi!” piagnucolò Lukas, mentre sgombrava il campo, seguito dagli attoniti compagni d’avventura.
“Quando ti pare, carino!” gli ringhiai dietro.
Forse ero già pazza di lui.
 
Per due o tre settimane, piena ancora dei graffi e dei lividi che mi aveva lasciato, montai una guardia furibonda, agognando la possibilità di un nuovo scontro, ma non ebbi fortuna. Poi – l’estate era ormai agli sgoccioli – lo incontrai di nuovo.
In compagnia di suo padre, un sanguigno militare di mezza età, passava in rassegna gli ultimi arrivi d’una delle più fornite armerie di Trier.
Lo osservai a distanza, studiandolo con un interesse che molto diceva di un’adolescenza ormai alle porte.
Era alto e i capelli biondissimi parevano oro filato; il naso diritto dava qualcosa di nobile a un profilo dal quale non riuscivo a staccare gli occhi.
Fu quell’accanimento, immagino, a rendermi evidente: sollevò lo sguardo dall’elsa istoriata di un pugnale e mi ricambiò. Fu quasi uno schiaffo.
Arrossii sino alle orecchie, gli diedi le spalle e battei in ritirata, pervasa dalla sensazione d’aver appena fatto una figuraccia.
In cucina, Luthien impastava il pane, aiutata da Melian e Rael.
“Che ti è successo, Leya? Hai incontrato una viverna?” mi apostrofò la cuoca.
Mi schiantai su una sedia, liquefacendomi poi sul tavolo con un ridicolo languore. “Secondo te… Sono tanto brutta?”
“No. Sei solo diventata grande.”
Era la mia prima cotta. Il mio primo amore.
 
Da bambinetta pigra e indolente, mi trasformai in una staffetta docile e servizievole: ogni occasione era buona per frequentare il mercato, piena com’ero della speranza di rivederlo.
La dea, ammirata – o forse solo divertita – dalla mia costanza, decise allora di darmi una mano.

*

Andavo per i tredici anni, avevo un amore segreto – non corrisposto – e pregavo ogni giorno la dea di rendermi tanto graziosa da catturare lo sguardo di Lukas. In luogo del seno che non possedevo, tuttavia, un mattino mi raggiunse una terribile nuova.
 
“Devo parlare con magister Leonar. È urgente.”
 
Il mandato di mio padre come Ygeo si era concluso da qualche mese, ma restava un personaggio eminente della città e un’autorità in fatto di meccanica militare.
A chiedere di lui, una staffetta esausta.
 
“Kimali è caduta. Tutta la regione dell’Eisenthar è stata messa a ferro e fuoco.”
Mio padre ascoltò il racconto in silenzio, senza muovere un muscolo.
“Non conosciamo le insegne che esibiscono, ma alla testa dell’armata ci sono senz’altro alcuni ophelidi.”
 
Tra gli altri, Gordon, il Drago Nero, e il suo pupillo, l’erede al trono di Venusya.
 
A sedici anni, Vinus di Lephtys era ancora troppo giovane perché Koiros gli affidasse un’armata, ma ne rappresentava già uno dei cunei di sfondamento.
A differenza dei coetanei eleutheridi, persino di quelli iniziati all’esercizio delle armi, il suo corpo non aveva più nulla di adolescenziale: doveva la vita a una spada che pesava quasi più di lui, quando l’aveva impugnata per la prima volta; attorno a quella lama era cresciuto come un fascio di nervi e muscoli e rabbia.
Gli avevano insegnato a conquistare e a distruggere, senza interrogarsi su quel che avrebbe lasciato indietro. La sua intelligenza profonda nicchiava, divorata dal risentimento e dalla paura. Koiros era troppo forte persino per lui: doveva rassegnarsi a vivere da cane, perché aveva sedici anni e non gli interessava morire come suo padre o come Freil. Crepare da drago.
Fu col suo implacabile braccio, dunque, che cominciò la riconquista dei territori meridionali.
 
 
All’epoca non conoscevo il nome dei miei nemici, né credevo che farlo avesse una qualche importanza. La mia era una vita ordinata, in bianco e nero: qui c’era Eleutheria, il Bene, la Pace; là, il Male.
L’inizio della guerra coincise allora con le due parole che pronunciò Leonar davanti al Collegio riunito nella sessione plenaria – aperta, dunque, anche ai decani decaduti dall’incarico.
 
“Sono arrivati.”
 
Già: erano arrivati.
 
 
Il padre di Lukas fu spedito a combattere sull’altopiano dell’Eisenthar, un’ampia plaga rocciosa e inospitale sita a nord-ovest di Trier. Prima di partire, si presentò alla nostra porta con il figlio e Leonar, che non sapeva nulla della cotta rovinosa di sua figlia, accettò.
 
“Magister, so che siete un uomo di scienza e di cuore. Se mai dovesse capitarmi qualcosa, vorrei che assicuraste al mio ragazzo la preparazione che si conviene a un vero soldato.”
 
Ironia della sorte, il primo a morire sarebbe stato proprio chi tentava allora di proteggere.
 
 
Figlio di un militare, Lukas si addestrava nel Gymnasium di Trier.
Se in Accademia insegnavano le Arti della Natura, la Matematica e l’Alchimia, là s’imparava a maneggiare ogni tipo di arma nota, la strategia e l’arte della negoziazione.
Lukas informava con cadenza settimanale Leonar dei suoi progressi, costringendomi a millantare i miei per rendermi evidente.
Crescere smussava ogni spigolo, dentro e fuori: cominciava a spuntarmi il seno, non portavo più le trecce e avevo imparato a tacere. Di rado.
Lukas mi rivolgeva la parola soprattutto per prendermi in giro; mi trattava come una sorella minore, senza realizzare quanto la sua condiscendenza mi umiliasse. Ero abituata a comandare e a esercitare la mia autorità: innamorata, scoprivo di essere vulnerabile e inconsistente.
I suoi occhi mi mangiavano le parole, la lingua si annodava e le battute velenose con cui speravo di stupirlo suonavano stucchevoli come le traducevo in motteggio.
Mio padre sognava per me un futuro da accademica, e cos’ero, invece? Una ragazzina come mille altre.
 
A sedici anni, cominciai a prestare servizio da guaritrice – ero un’alchimista di comprovato talento e avevo memoria per le erbe medicinali. L’infermeria del Gymnasium fu il primo ufficio destinatomi: ennesimo segnale che ero in grazia di Dendre.
Se credete, tuttavia, che Lukas mi abbia scoperto come donna in virtù dei miei servigi, avete poca fantasia: la vita è molto più contorta, e, soprattutto, ha un gran senso dell’umorismo.
Il mio primo amore avrebbe continuato a ignorarmi o a motteggiarmi, se a trovarmi bella non fosse stato il suo migliore amico.
Jail era un ragazzone dai penetranti occhi neri.
Non so cos’abbia trovato in me, ma cominciò a farmi una corte serrata.
 
Sui capelli foco vivo,
l’avorio sulla pelle,
un’ode io ti scrivo,
oh bella tra le belle
 
… questa terrificante strofa è solo un assaggio dei fiumi di liriche che inondarono da un giorno all’altro la mia vita, precipitandomi nell’imbarazzo di evadere un sentimento che ero la prima a sperimentare.
E Lukas, nei cui occhi viveva ancora il rissoso demonio dei suoi incubi infantili, si accorse che quella Leya non esisteva più: ero diventata un’altra. Ero una donna.
Avevo ancora occhi da uccello e un naso troppo sottile e un carattere impetuoso ed egoista, ma le mie ciglia erano folte e lunghe, i miei capelli ricordavano il tramonto e due colline pallide ammorbidivano il petto.
 
“Sei bruttina e troppo intelligente, ma…” sussurrò una sera al mio orecchio. Impacciati, nella cucina deserta, guardavamo le braci morire e altre, invece, accendersi di un fuoco vivo.
“Ma?”
Usò la lingua e non per parlare. Una musata maldestra, più che un bacio, eppure pregai allora di morire. Non sarei mai stata altrettanto felice, ne ero certa.
La dea non volle deludermi nemmeno in quell’occasione.

*

Dei pochi anni che avemmo, ricordo tutto: il colore del cielo e il biondo del grano; la consistenza pastosa dell’aria e l’umidore della sua bocca. L’Eumene era in guerra, ma il mio cuore conosceva la pace, perché tra le cosce stringevo un uomo che era anche tutto il mio futuro.
Un domani lungo un attimo.
 
 
“Mi mandano al confine,” disse con gli occhi bassi.
Avevo ventidue anni e il velluto del suo sguardo mi aveva insegnato a sentirmi bellissima.
“Questa me la paghi,” sussurrai con il cuore sulle labbra.
“Quando vuoi, carina,” rise, poi mi diede un bacio troppo dolce e amaro insieme perché non sapesse di un inevitabile addio.
Al suo fianco partiva anche Rael: del mondo che amavo, mio fratello fu tutto quel che si salvò.

*

Lukas si spense sull’Eisenthar, un giorno così uggioso e triste che morire pareva inevitabile. Il bramito dei liocorni saturava l’aria e il clangore delle armi era tanto forte d’assordarti. L’ultima cosa che vide, prima d’incontrare Dendre e lasciarsi condurre nelle Terre del Ricordo, fu un fantasma dal teschio nero: aveva respirato l’amore nella polvere e alla polvere tornava, colpito a morte da chi avrebbe preso il suo posto.
Forse sorrise, Lukas, perché sapeva che l’avrei vendicato.
A modo mio.

   
 
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