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Autore: TwinStar    20/03/2006    21 recensioni
Contrariamente a quanto sembra, non è bello essere perfetti. In verità, è una cosa che non auguro a nessuno.
Ci si sente un po’ soli sul piedistallo splendente.
Ci si sente tristi, ed in trappola.
Perfetto è sinonimo di schiavitù.
Se si è perfetti non si riesce a comportarsi altrimenti neanche se ci si sforza.
Perfetto è sinonimo di noioso.
Se si è perfetti nessuno è davvero interessato a fare conoscenza con te.
Perfetto è sinonimo di paura.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Weasley, Fleur Delacour
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ringraziamenti di inizio fic delle quali ormai non potete più fare a meno: In generale ai lettori di questa storia; a chi commenta, a chi ha commentato, a chi commenterà (con un particolare avviso di sollecito a chi DOVREBBE commentare! XD Dal canto mio prima o poi risponderò a tutte le recensioni delle one-shot, lo giuro!!! ^^); a chi non boccia le mie idee sul nascere bollandole come emerite cacchiate ma dà loro fiducia, probabilmente a torto (a parte elucubrazioni su Remus amante degli ombrellini a fiori che era una figheria e Miki non capisce niente! XD); a chi mi ama (quindi un grazie a me stessa); a chi mi odia (perché mi dona allegrezza); a chi mi si vorrebbe fare (Gary non fare il timido). Un grazie speciale al furbacchione che m’ha intasato la casella e-mail di immagini zozze di donne. Si può sapere cosa dovrei farmene secondo te, brutto puzzone?

A chi ama i nostri difetti, piccoli o grandi che siano.

Perché non abbiamo tutti una nonna Veela. E perché non possono essere tutte le gemelle perdute di Nicole Kidman come la sottoscritta! XD

Buona lettura dalla vostra

Twinstar

 

 

PRATICAMENTE IMPERFETTA

 

Sono perfetta.

Me lo ripetono da sempre.

Fin da piccola mi hanno inculcato nella testa la certezza che in me non ci sia nulla che non vada. Che da qualsiasi aspetto mi si giudichi, da qualsiasi lato mi si guardi, in me non c’è un difetto o una mancanza. Che sono una persona speciale, che non c’è modo di diventare migliore di quanto già non sia per cui non c’è bisogno che mi sforzi, e che non troverò mai nessuno che mi superi.

 

Bella.

Ecco come sono.

Come altro definirmi, del resto?

In me non ho mai notato niente che non andasse. Grandi occhi dolci e vivaci, iridi trasparenti dietro bionde ciglia ricurve; sopracciglia sottili e arcuate che addolciscono lo sguardo conferendo al mio viso quella naturale pudicizia tendente all’infantile che tanto piace agli uomini.

Lunghi capelli biondi, lucidi e serici come fili sottili di ragno, che mi accarezzano le spalle, la vita, i fianchi e non sono mai fuori posto, neppure quando mi sveglio la mattina. Qualsiasi pettinatura scelga questa risalta sempre il mio incarnato e i miei lineamenti morbidi e sottili, le guance rosa, il grazioso nasino all’insù, le labbra carnose e rosse, la vita sottile, i fianchi rotondi. La pelle del colore delle magnolie che crescono tutto l’anno nel giardino di casa mia, grazie ad un piccolo incantesimo della mamma, sembra quasi brillare come la neve, che sia illuminata dai raggi del sole estivo, carezzata dal tiepido vento primaverile o sferzata dalle gocce di pioggia gentile dell’autunno.

Tutto in me trasuda grazia, eleganza e femminilità.

Ovvio che sia così. E’ il sangue di Veela che mi scorre nelle vene.

Le ragazze comuni non sono come me. Io sono speciale.

Sono bella. E la bellezza è la cosa più importante.

Ricordo che quand’ero piccola la mamma non faceva che ripetermelo. Tutti i giorni, quando era ora di dormire, dopo avermi accompagnata in camera da letto mi rimboccava le coperte, mi sfiorava appena le labbra con le sue in un bacio materno, mi carezzava amorevolmente la fronte e sussurrava con quella voce dolce come il profumo delle rose: “Resta sempre così bella, bimba mia, perché la gente continui ad amarti ed ammirarti.”

“Quindi se non fossi bellissima non mi vorrebbe bene nessuno?”, osai chiedere una volta. Era una domanda che mi premeva da sempre sulla lingua, che non le avevo mai rivolto perché avevo paura della risposta che avrei ricevuto. Invece ricordo che sulle prime mi guardò stupita e piena d’orrore, come se le avessi scagliato contro una Maledizione senza Perdono, ma durò solo un istante: sorrise teneramente della mia ingenuità, coi capelli biondo  argento che brillavano alla luce bianca della luna, e si alzò in piedi.

“Sei la più graziosa di tutte le bimbe, Fleur, e diventerai la più affascinante delle donne. Perché angustiarsi con queste domande prive d’importanza?”, disse e uscì dalla stanza, lasciandomi alle fredde carezze della notte assieme alla mia bellezza e a quella mia domanda inutile.

E’ vero, sono bella…

 

 

E sono intelligente.

Un strega brillante, dotata.

Un genio. E’ una verità innegabile.

Che ci crediate o no sono una delle studentesse più brillanti che abbia mai varcato la soglia dell’accademia di Beauxbatons: la scuola più selettiva e severa del mondo magico, per la cronaca, checché ne dicano in Inghilterra. Non c’è arte magica in cui non eccella, nozione che non sia in mio possesso o incantesimo che non padroneggi pienamente. Del resto lo si poteva facilmente intuire: il Torneo TreMaghi non è un concorso di bellezza e di conseguenza non si viene scelti solo in base all’avvenenza fisica. Questo mi sembra evidente.

Anche solo a giudicare dall’aspetto degli altri Campioni.

Io rappresento fieramente la mia scuola al Torneo perché sono la migliore, non perché sono la più bella. Di oche dalle gambe lunghe e dal cervello grande quanto una gelatina Tuttigusti è pieno l’universo: basterebbe una qualsiasi sciocca Metamorfomaga per eguagliarmi nel fisico.

Ma non sarebbe altro che apparenza.

Qui però io sono solo una delle concorrenti che si ritrova a sfidare i loro idoli; sono “la bellissima francese” per i ragazzi, “quella carina e con lo sguardo vacuo che fa la stupida coi ragazzi e che durante la prima prova sbatterà il suo bel sederino francese sul duro selciato tempo due minuti e tornerà a casa con la coda tra le gambe svergognando la preside, i miei compagni e l’intera scuola.” per le ragazze. L’ho sentito bisbigliare una volta da due ragazzine di Scarlattoro.

Non ho detto loro niente, però: molto semplicemente, ho continuato a camminare finché il freddo non è diventato intollerabile e non sono stata costretta a tornare dentro. Perché non nutro un particolare rancore verso di loro. A dire il vero, mi sono completamente indifferenti: in fondo bisogna conoscere a fondo una persona per andare oltre l’aspetto fisico e giudicarla in interezza. Per apprezzarmi bisognerebbe passare del tempo assieme a me.

I ragazzi lo fanno e infatti a loro piaccio molto.

Se ne avessi il tempo probabilmente farei io il primo passo per conoscerle.

 

 

Sono dolce.

Simpatica, gentile.

Con una sensibilità e una pazienza difficili da trovare, al giorno d’oggi: qualità non certo dovute all’educazione impartitami, anzi. Si può dire che l’atteggiamento di mio padre nei confronti miei e di mia sorella è sempre stato all’insegna della più totale venerazione; eravamo le sue principesse, ci adorava. Sorrido al suo ricordo; se fosse ancora vivo casa nostra sarebbe gremita di nostre foto e di statue celebrative.

Nostra madre invece si è sempre votata ad una dolcezza più lungimirante con noi, e non ricordo una sola volta in cui abbia dovuto punirci, o alzare la voce, o sculacciarci, mentre con gli estranei è sempre stata un tipo molto intransigente: in genere le basta uno sguardo per ridurre il malcapitato ad un silenzio pieno di vergogna.

A differenza di quanto possa sembrare non abbiamo avuto genitori indulgenti e non siamo cresciute viziate: semplicemente, non c’è mai stato un motivo per il quale mamma o papà dovessero comportarsi altrimenti. La nostra condotta è sempre stata più che irreprensibile, anche nel mondo delle grandi dame in cui abbiamo trascorso l’infanzia, ma non abbiamo mai avuto bisogno d’imparare le sue mille regole né di assoggettarci ad esse. Nostra madre non ce le ha mai insegnate, non avrebbe potuto.

Perché non le conosce neanche lei.

Non ci occorrono.

Nelle nostre vene scorre il sangue di quelle magiche creature dei boschi: la loro non è una bellezza che si esprime solo grazie al loro fisico, o ad una malia, o alle conoscenze segrete che posseggono per controllare le tempeste, gli oceani e i cuori degli uomini: è un qualcosa che, molto semplicemente, ci appartiene. Nasce con noi.

Non abbiamo bisogno di renderci più belle, perché lo siamo.

Non dobbiamo imparare le arti dell’astuzia femminile, perché ci appartengono.

Non ci occorre apprendere la vernice delle buone maniere, perché possediamo quella profonda grazia interiore dalla quale sgorga l’essenza più pura della gentilezza, dell’altruismo, della generosità, quella leggerezza disinteressata dello spirito che la maggior parte della gente non riuscirà mai ad afferrare pienamente, neanche sforzandosi per una vita intera, e che ci permette di esercitare sul prossimo un fascino ammaliante.

 

 

Contrariamente a quanto sembra, non è bello essere così perfetti.

Essere una sorta di emblema di virtù, un oggetto d’invidia e ammirazione, un esempio da seguire, una continua fonte d’aspettative… In verità, è una cosa che fa piuttosto sgomento, come gli occhi di mia madre quella sera fresca illuminata dalla luna di maggio in cui osai farle la famosa domanda, come il suo sorriso bianco e freddo al pari delle perle della sua collana prediletta.

Ci si sente un po’ soli sul piedistallo splendente.

Ci si sente tristi, ed in trappola.

Perfetto è sinonimo di schiavitù.

Se si è perfetti non si riesce a comportarsi altrimenti neanche se ci si sforza

Perfetto è sinonimo di noioso.

Se si è perfetti nessuno è davvero interessato a fare conoscenza con te.

Perfetto è sinonimo di paura.

 

 

Siedo nell’erba alta sulla riva del lago, carezzata dal tiepido vento di fine giugno: chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal placido sciabordio delle piccole onde che increspano la superficie azzurra dell’acqua. Era proprio ora che il clima qui cominciasse a volgere al caldo. Che razza di tempo insulso, a Beauxbatons sarebbe già estate inoltrata da mesi.

Inspiro a fondo l’aria profumata, godendomi quei placidi istanti di pace. E’ stata proprio una trovata geniale chiedere a Gabrielle di portare la mamma a fare un giro turistico della carrozza della nostra scuola, di modo tale che potessi passare un po’ di tempo da sola. In questo modo ho fatto tutte contente.

Mia sorella sarà felice di sentirsi utile.

A mia madre farà piacere fare un tuffo nei ricordi.

E io apprezzerò immensamente l’avere un po’ di tempo per permettere al mio cuore di tornare a battere ad un ritmo normale. Stasera io e gli altri Campioni affronteremo la terza e ultima prova. E’ mortale, dicono, e non ci assicurano di tornare a casa tutti d’un pezzo. Del resto hanno detto la stessa cosa di tutte le prove che abbiamo dovuto affrontare, ma stavolta, a differenza delle volte precedenti, non mi sento affatto tranquilla.

Proprio non capisco cosa accada.

Fino ad un istante fa ero così tranquilla.

Invece più s’avvicina il tramonto più ho fifa.

Manca poco, ormai, e ho paura, e non c’è niente che renda questi istanti più facili. C’è un sacco di gente che mi grida e schiamazza attorno e a me sta venendo il mal di testa; gli steli d’erba sono secchi e giallastri, mi pungono le dita, la gonna è già tutta macchiata di fango perché Gabrielle mi ha buttato addosso dell’acqua per errore, prima; ho lo stomaco sottosopra per via di quel cibo disgustoso che ci fanno mangiare qui e fa caldo, troppo caldo, adesso. Possibile che non ci sia modo di avere un po’ di tempo decente, qui? Tento di pensare a qualsiasi altra cosa ma immancabile spunta dai meandri della coscienza quella paura sottile e gelida che mi coglie quando ho l’impressione di stare per fallire.

Sono terrorizzata. Potrei dare i numeri...

“Ehi, ciao!”

E’ una voce mai sentita prima quella che mi urta i timpani come un’unghia sulla lavagna. Di un ragazzo. Un uomo a giudicare dalla profondità del timbro: in genere mi diverte civettare, trovo piacevole testare il potere che ho sugli uomini, ma qualsiasi povero infelice capirebbe che questo è un momento decisamente sbagliato per attaccar bottone con la sottoscritta.

Lui no.

Che indelicatezza.

“T’ho già vista da qualche parte…”

Impossibile, non sono solita frequentare cafoni.

Per sicurezza gli lancio comunque un’occhiata curiosa, per poi restare subito delusa: è abbastanza carino ma ha l’aria poco raccomandabile; ha degli occhi azzurri molto belli ma quei lunghi capelli rossicci lo fanno somigliare in maniera inquietante ad una mia compagna di classe che non sopporto; è alto e magro, il che è un vero sollievo per la vista in mezzo a tanti nanetti tarchiati, ma si veste come un Babbano dai dubbi natali. Gli occhi mi si posano sugli stivali di drago dall’aria costosa, scuri e lucidi come il dorso di un insetto, che porta ai piedi.

Non ha la divisa.

Non è un alunno di questa scuola.

E ha un pessimo gusto in fatto di calzature.

Chiunque altro si premurerebbe perlomeno di inventare una scusa meno ridicola per attaccar bottone con me.

Lui no.

Che faccia tosta.

“Sì, ne sono convinto.”, insiste sicuro.

Non ho mai visto questo individuo in vita mia.

E’ un pazzo, ignorarlo è la cosa migliore da fare.

Ma lui non se ne va, non si arrende: al contrario, mi tira una ciocca di capelli e mi fa scappare un gridolino a metà tra il dolore e la sorpresa. Mi volto verso di lui e il mio sguardo incredulo si specchia in quel sorriso sicuro di sé e un po’ ebete tipico dei beceri. Divarica leggermente le gambe e, chinatosi amorevolmente su di me, protende il viso finché non dista che pochi centimetri dal mio e si mette a fissarmi con insistenza. Aggrotta persino le sopracciglia, con un’aria tutta concentrata, mentre io sto cominciando a perdere il mio proverbiale autocontrollo. Sono abituata ad essere trattata col riguardo che si deve a una cosa preziosa. Al Ballo del Ceppo quel Roger Daviet ha aspettato fino al giorno del Ceppo per chiamarmi Fleur invece di ‘signorina Delacour’.

Lui no.

Nemmeno rispetta gli spazi personali.

“Ma certo, sei la campionessa di Beauxbatons!”, esclama all’improvviso puntandomi contro l’indice tutto eccitato, neanche fossi una bestia da esposizione. “Però non ricordo il tuo nome, scusa…”, aggiunge stringendosi nelle spalle, come si trattasse di una piccola cosa. Sembra fiero di questa sua improvvisa, geniale realizzazione, e magari si aspetta che lo sia pure io. Ho passato l’ultimo anno a sentirmi additare per i corridoi di Hogworts da ragazzi adoranti, a sentire bisbigliare il mio nome con un misto di reverenza e ammirazione, lui ci ha dovuto anche pensare.

E nemmeno sa come mi chiamo!

Inaudito…

“Ti ho vista prima assieme a tua madre e a tua sorella.”, aggiunge con un gran sorriso indicandomi la scuola. Come se non fossi in grado di riconoscerla. “Io ero là con mia madre e Harry.”

Harry… Faccio rapidamente mente locale.

Sì, adesso ricordo, lui era con Harry.

Potter. Il campione di Hogworts.

Quello infiltrato illegalmente.

Ha salvato mia sorella.

Al solo pensare a quell’episodio, a quei lunghi istanti di terrore in cui ho creduto di perdere la mia adorata Gabrielle, il cuore mi si riempie di sgomento e nemmeno mi passa per la testa di rispondergli a tono: in fondo il fatto che conosca una persona a cui sono tanto grata non gli dà il diritto di prendersi tanta confidenza con la sottoscritta. Invasa dal terrore a quel ricordo, vengo attraversata da un brivido gelido che mi scuote tutta e scivola lungo nervi e capillari. Dura un attimo. Subito lo scruto di sottecchi, ansiosa. Non voglio che pensi che sia lui a turbarmi così, perché non sarebbe vero.

Tipi simili mi sono completamente indifferenti.

Mi fissa con aria cupa.

Mi sa che se n’è accorto, accidenti.

“Quando una persona ti parla in genere le si risponde, o per lo meno le si presta un po’ d’attenzione.”, dichiara con aria arrogante storcendo il naso con un’aria che mi sembra disgustata. “Sei un po’ maleducata, mi sembra. Forse i tuoi ti hanno viziata troppo…”

Lo squadro con aria incredula, quasi inorridita, mentre per la prima volta in vita mia lotto con tutta me stessa per non diventare violenta o esplodere in improperi: stringo le labbra e aggrotto le sopracciglia, mi pizzicano gli occhi e a giudicare dal calore che mi è salito alle guance è certo che sono diventata livida. Non riesco a capacitarmi di tanta faccia tosta: lui mi offende, mi infastidisce, mi manca di rispetto, e la maleducata sono io? Mi ha persino dato della viziata.

Non lo sono affatto, questo lo sanno tutti!

Lui no!

Non devo rispondere.

Non merita soddisfazione.

Però mi sta fissando con quell’aria affranta da cucciolo pentito, adesso, non posso tenergli il broncio… Forse se mi chiede scusa con convinzione gli perdonerò tutto e potrei persino prendere in considerazione l’idea di fargli un sorriso o di conversare un po’ insieme per dargli un contentino. Sono certa che il suo è stato solo un modo un po’ strano che hanno gli inglesi per corteggiare le ragazze e sotto sotto è simpatico, oppure è semplicemente timido. In fondo non è così male. E non è certo colpa sua se sono così bella da mettere a disagio gli uomini.

“Forse non capisci la mia lingua?”

Come se stesse parlando ad una demente.

Ed è in quello il momento in cui sento scattare qualcosa dentro di me.

Mi alzo in piedi di botto, al punto che lui fa appena in tempo a farsi indietro prima che le nostre teste si incontrino a metà strada e lo fisso dall’alto in basso con gli occhi fiammeggianti d’ira e sdegno.

“La capisco alla perfezione la tua lingua, non sono stupida. Io ti stavo sempliscemonte ignorando, e non perché sia visiata o maleducata, ma solo perché non avevo voglia di parlare con te! Ma sorciére, non riesci proprio a capire quando una ragazza vuole restare sola coi propri pensieri? O sei uno di quei tipi convinti che una ragazza bella che se ne sta per gli affari suoi non abbia pensieri ma voglia soltanto essere presa di mira e trattata come una coppa da vinscere, sensa il minimo rispetto? Voglio che te ne vada subito da qua, perché sei irritante, stupido e non sei per nionte il mio tipo!”

Resto ad ascoltare basita l’eco delle mie parole che si perde lungo la superficie del lago e poi tra le montagne: non riesco a credere di aver detto quelle cose, eppure quella voce acuta tendente all’isterico sembrava proprio la mia. Già altre volte avevo adoperato parole ed espressioni un po’ crude per togliermi dai piedi qualche ragazzo insistente, ma solo per non dargli false speranze, per non farlo soffrire, e tutte le volte ho sempre un tono di distaccato contegno, di cordiale freddezza.

Ma stavolta no.

Lui mi ha davvero irritata.

Io gli ho snocciolato addosso tutto d’un fiato quello che avevo nella testa. E’ stata una reazione così infantile, sciocca… Così normale. Un po’ meno normale è la sua reazione alla mia scenata, invece. Comincio davvero a pensare che questo tipo non ci sia tutto con la testa, che forse abbia fatto il pieno di Burrobirra corretta. Chiunque altro dopo un simile scatto di nervi esasperato batterebbe in ritirata con la coda tra le gambe non osando nemmeno profondersi in scuse sentite; una ragazza al massimo si alzerebbe offesa e mi manderebbe al diavolo.

Lui no.

Non fa una piega. Ficca le mani a fondo nelle tasche dei pantaloni e mi fissa con uno sguardo sprezzante e sicuro di sé, ma non irritato. Sembra proprio che non aspettasse altro che una reazione del genere. “Sono felice di non essere il tuo tipo, neanche tu sei il mio.”

“Ma…”, balbetto incredula. “Allora perché sei qui da me?”

Mi sento ridicola, e la sensazione si fa più forte quando lo sento ridacchiare.

“Hai l’aria troppo da perfettina, sembri mio fratello.”, replica stringendosi nelle spalle con un’aria indifferente che mi irrita non poco. ”Mi sono sentito in dovere di stuzzicarti.”

 

 

Una ragazza perfetta non si innamorerà mai di un uomo che non si curi del suo aspetto perché non saprebbe che farsene di qualcuno talmente sciatto da indossare un orrendo orecchino a forma di zanna di drago persino il giorno in cui si presenterà ufficialmente a casa di lei come fidanzato, anche se il ricordo della faccia dei suoi parenti a quella vista “indecorosa” la farà ghignare per settimane.

Una ragazza perfetta non si innamorerà mai di un uomo che dimostri di non avere un carattere gentile ed affabile, perché non vorrà mai trovarsi nell’imbarazzante situazione di impedire al suo ragazzo di maledire un povero Babbano ignaro, reo di averle chiesto l’ora “in maniera equivoca”, anche se in fondo le farà piacere che lui abbia difeso la sua virtù in maniera tanto accalorata.

Una ragazza perfetta non si innamorerà mai di un uomo che non sia in possesso di un umorismo sobrio e garbato, perché non apprezzerà mai triviali battute da pub malfamato che invece fanno piegare in due dalle risate lui, i suoi fratelli e i loro amici al punto da far lacrimare loro gli occhi, anche se a volte sarà costretta a soffocare di nascosto una risatina, perché “non sta bene”.

Una ragazza perfetta non si innamorerà mai di un uomo che non baci la terra su cui poggia i piedi, perché lei, bambina adorata da tutti, non si accontenterebbe di quella ruvida gentilezza un po’ impacciata che saprà offrirle, anche se quando la prenderà tra le braccia e la bacerà sembrerà promettere molto più di quanto non farà mai nessun altro.

Una ragazza perfetta non si innamorerà mai perchè non esistono uomini perfetti.

Fortunatamente io non sono perfetta e amo un ragazzo ancora meno perfetto di me.

 

Perché le donne perfette non esistono.

Perché non esiste nemmeno la perfezione.

Perché sono praticamente imperfetta.

 

E felice.

  
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