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Autore: Guido    29/03/2006    4 recensioni
Uno sfogo, un flusso di coscienza buttato giù a cuore aperto. Un rapporto minato da una sciagurata negligenza con parole, significati e sentimenti; ferite, rancori, rimpianti e, al di sopra di tutto, la struggente speranza di recuperare.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Habla con Ella

A qualcuno che ricorderà

E comprenderà.

 

Lei c’è. C’è stata sempre, ogni volta che ho avuto bisogno di aiuto, di conforto, o semplicemente di una parola buona. Di qualcuno che mi facesse sentire di nuovo un essere umano, e non un rifiuto che gli ingranaggi del Destino hanno misteriosamente sottratto ad ogni discarica… a meno che l’intera mia esistenza non sia un’unica, sconfinata discarica a cielo aperto.

Ma lei mi impedisce di crederlo; basterebbe la sua presenza muta a riscattare questo cumulo di pattume e macerie emotive, a trasformarlo – posso osare il paragone? – in un tempio. Un tempio alla Bellezza e alla Bontà. Kalokagathía.

I miei occhi non si sono mai posati sul suo viso e sono certo che le fotografie non le rendano giustizia, ma non sento affatto il bisogno di verificare ciò il cuore mi ha detto molto tempo prima che potessi farmi una qualsiasi idea del suo aspetto fisico: ho percepito – fin dal primo momento, o quasi – la Bellezza della sua anima, e nient’altro conta.

Nient’altro? Be’, non esageriamo… Ho sognato spesso di fare l’amore con lei, sempre più spesso, a mano a mano che le nubi si infittivano sul nostro rapporto; nubi evocate dalla mia insipienza, dalle mie paure e da tante altre cose che lei riassume sotto l’etichetta “immaturità”. Con ragione, credo, anche se mi sembra un termine riduttivo. Almeno, non sono così ingenuo da credere che il sesso possa curare questo genere di ferite emotive e sono lieto di affermare che neppure nelle mie fantasie ho mai immaginato niente del genere; al contrario, l’unione dei corpi è sempre stata conseguenza ed espressione della concordia ritrovata tra gli spiriti, di quella concordia così naturale e spontanea - sbocciata inattesa come un fiore fuori stagione - che a volte mi domando se non ci sia del vero nelle leggende sulle anime gemelle. Mi sembra di conoscerla da sempre, di capirla da sempre… o forse è solo perché siamo talmente simili, in molte cose, che non di rado, discorrendo con lei, ho l’impressione di guardarmi allo specchio?

Ma io non possiedo, non ho mai posseduto la sua Bontà. La sola qualità di cui mi senta privo è anche la più importante e una simile carenza mi rende, oggettivamente, indegno di affetto.

Suppongo che il mio difetto si chiami “Egoismo”. La sua lingua, tagliente come il diamante, saprebbe certo incidere a fuoco nel mio cervello un termine dieci volte più adatto, ma mi accontenterò di questo. Non possiedo quel genere di bontà altruistica che spinge qualcuno a porre il prossimo – non necessariamente una persona determinata, badate, ma “il prossimo” in senso cristiano – al centro dei propri pensieri o azioni, o almeno a tradurre costantemente in pratica il precetto neminem laedere. Al contrario, la mia soddisfazione personale ha la precedenza su tutto e – per quanto io ritenga di aver sempre rispettato gli altri due precetti, honeste vivere e suum cuique tribuere – posso calpestare il prossimo senza battere ciglio, pur di raggiungere lo scopo del momento. Dei sentimenti altrui mi importa meno di zero. D’altra parte, a ben pochi è importato qualcosa dei miei… ma questa non è una giustificazione, solo una causa del mio comportamento.

Ma la regola soffre alcune eccezioni: poche, pochissime eccezioni, o meglio, pochissime persone, ciascuna delle quali, per me, è unica, splendida, inimitabile… tanto da avere un posto nel mio cuore, un posto vivo, in mezzo a tante croci.

Ciascuno di questi pochissimi, a suo modo, mi ha salvato la ragione, forse la vita e certamente la possibilità di sentirmi un essere umano, uomo in mezzo ad altri uomini. Ciascuno di loro è mio, anzi, è me.

Il resto dell’umanità potrebbe finire all’Inferno in questo stesso istante e mi limiterei a scrollare le spalle, ma per salvare uno solo di loro sarei pronto ad andarci io; un pensiero blasfemo, lo so, ma, del resto, c’è ben poco di cristiano in tutto il mio atteggiamento, non è così? Io chiedo agli amici un rapporto totale, ma offro altrettanto. Non mi interessano conoscenze superficiali, bensì le pieghe – e a volte le piaghe – più riposte di un’anima, ma sono altrettanto disposto a schiudere le mie. Troppo disposto, probabilmente; troppo rapido, troppo avventato.

E così, ho fatto qualcosa che non volevo e mai avrei voluto fare: l’ho ferita. Immagino di aver ferito molte altre persone, nel corso della mia vita, e spesso volontariamente, ma mai una di loro. Per me sono sacri. Lei è sacra. L’unica donna, tra loro. Un miracolo che non credevo possibile. E adesso…

Osservo i periodi andare in frantumi, disarticolati in schegge impazzite, come se volessi frantumare lo specchio narrativo del mio fallimento.

Una nocetta intima, anche adesso, si compiace per il bello stile.

Merde pour la poésie.

Quanto hai pianto, piccola mia ? Quanto ti ho fatto piangere? Quante volte ti sei data della stupida e anche peggio, per esserti fidata di me?

E come posso, adesso, dirti che di me potrai sempre fidarti? Che sono un idiota patentato, è vero, ma che ci sarò sempre, quando avrai bisogno di me, proprio come tu ci sei per me? Perché a questo e non ad altro servono gli amici; e se poi potessimo essere qualcosa di più… cosa aggiungerebbe ad un rapporto già tanto speciale?

No, basta. Non posso piangere ancora. Anche volendo, non avrei abbastanza lacrime; e poi, sembra che io pianga con i polmoni, come se una mano invisibile me li strizzasse per spremerne qualche goccia di pianto. Sono proprio un limone inacidito, secco.

Ma allora perché questa “ferita profonda, che stride nel petto”?

Perché “un popolo potente ha rivolto la destra vittoriosa contro le sue stesse viscere”…

Non importa quanta letteratura possa affastellare; questo dolore è crudo, non si lascia mascherare né lenire.

Siamo troppo legati perché potessi ferirti senza ferire anche me stesso.

Forse soprattutto me stesso. Dimmi, chi dei due ha più bisogno dell’altro?

Vorrei riuscire a dirti il tormento rovente della tua voce gelida, il rancore che vibra attraverso l’etere, saetta dritto al cuore. Al mio cuore.

Non hai bisogno di vendetta: le Eumenidi mi sovrasterebbero anche se non udissi più la tua cara voce, o se un Nume pietoso ne allontanasse quei toni di acciaio affilato. Chissà se ti rendi conto di quanto la tua voce possa assomigliare ad una lama di Toledo.

Getto lo sguardo fuori della finestra, verso l’orizzonte ceruleo, la distesa d’acqua che un tramonto estenuato acquerella appena con una sfumatura rosea. Cieli e sere di Riviera, già presaghi di un’Estate imminente; invogliano a uscire, magari a sorseggiare un aperitivo sul balcone, o a perdersi nelle infinite sfumature dell’azzurro marino.

Ma tanta bellezza, per me, è sempre stata sprecata, non hai raggiunto il mio cuore. Mai.

Tu, tu sola ci sei riuscita, mia preziosa Aurora dalla dita di croco; tu sei il tocco della Speranza in quest’esistenza insulsa, ma una Speranza ferita, che forse agonizza e forse sopravvive…

E i tuoi occhi, la sola parte di te che la mia mente sia incapace di immaginare, assumono, nei miei incubi, le sembianze della Sfinge.

La falsa serenità di questo paesaggio fiabesco mi colpisce, certo, ma che non comprendo. Forse dovrei cantarti trasfigurata in alcione, capace di cogliere i fiori di spuma sulla cresta delle tempeste; e volare accanto a te, io cerilo ormai vecchio nell’anima, sostenuto da un tocco premuroso. Ma, al momento, sembra impossibile che le libecciate, i cavalloni che martellano gli scogli con furia cieca, siano qualcosa di più che un pallido sogno d’Inverno; al momento, non si vedono tempeste, se non dentro di me.

Chissà se ti darò modo di leggere queste righe?

Correrò il rischio di essere frainteso, deriso, respinto una volta di più?

La domanda, in fin dei conti, è retorica: che cos’ho da perdere?

Un’ultima occhiata al cielo che inizia all’imbrunire; ultima, come ultimo dev’essere questo paragrafo, se voglio evitare di ripetermi. Ma, a ben vedere, tutto quello che ho scritto non è forse una colossale, inutile ripetizione? Cosa non sono riuscito a dirti, quali corde non ho tentate? Detesto gli interrogativi senza risposta; dopotutto, vorrei essere io a “sciogliere il famoso enigma”… e, invece, in questo momento mi sento piuttosto la Sfinge. Cos’è questo, un indovinello o un guanto di sfida letterario? Entrambe le cose, forse. Calaf e Turandot. All’alba vincerò? Vedremo.

 

Sul manoscritto l'inchiostro sarò

e mi avrai nero su bianco,

saranno gli occhi o i tarocchi, però

saprò quello che ancora non so;

mi dirai di sì o mi dirai di no,

mi dirai di sì o mi dirai di no.



Note:
Per il titolo, sono debitore al grande Pedro Almodòvar.
Merde pour la poésie non è una frase mia, ma di Arthur Rimbaud; non ricordo, però, a che proposito l’abbia pronunziata.
I brani tra virgolette sono reminiscenze: del suicidio di Didone in Virgilio; dell’
incipit di Lucano, forse il mio poeta latino preferito; e dell’Edipo Re di Sofocle.
“Eumenidi” è il nome greco delle Furie.
Cerili e alcioni sono i maschi e le femmine di martin pescatore, che, secondo una leggenda molto diffusa nell’antichità, nidificano in pieno inverno, dunque in tempo di tempeste, ma in un breve periodo di sereno, i cosiddetti
“giorni alcionii”. L’intero passo è una reminiscenza del lirico Alcmane.
I versi in chiusura sono tratti da Angelo Branduardi,
L’Apprendista Stregone.

  
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