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Autore: DanP    17/08/2011    4 recensioni
Missing moment e AU che fanno parte della serie "Love.Be afraid."
1.La famiglia Stilinski. 2.Hale & Stilinski. 3.Hale e i piccoli 4.Stilinski padre e figlio (in corso...)
"Era Stiles, che comunque, odiava il suo vero nome esattamente come lui aveva previsto." (capitolo 1)
Genere: Commedia, Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love. Be afraid.'
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1. She's happy?

 

Era con un rito quasi solenne e pieno di lacrime non versate, che Stiles accoglieva ogni anno, con quel gesto comune e tradizionale che suo padre faceva, al cimitero, posando un mazzo di fiori freschi sulla tomba della moglie, gli stessi giorni, tutti gli anni.
Per l'anniversario di matrimonio, di morte, di nascita o semplicemente perchè c'erano giorni in cui il cuore di suo padre traboccava di così tanta solitudine che lui non riusciva a riempire, da costringerlo a rimettersi su quel sentiero desolato che portava alla piccola tomba di marmo bianco, immacolato anche dopo le notti di tempesta.
Gigli. Non perché fossero fiori comunemente usati in un luogo simile, da depositare sulle lapidi come a dedicare un minimo gesto d'affetto, come a ricordare che qualcuno c'era a pensare a chi se n'era andato.
I gigli poi, erano i fiori preferiti di sua madre, lei, li coltivava con lo stesso affetto non dissimile che adoperava per ogni cosa, ma mai abbastanza da essere paragonabile all'amore con cui li trattava, ogni giorno della sua vita. Ogni giorno, nel giardino di casa, con le sue mani esili e delicate, soffici come spuma, con quei capelli castani e mai ordinati, con le loro sfumature di un nocciola chiaro, che le ricordavano sempre i momenti in cui coglieva quelle piccole ghiande nei mesi autunnali e li sgusciava per poi imboccare il piccolo Stiles come un canarino, e ne rideva gioiosa, quando il bimbo le mordicchiava le dita sottili, per giocare.
Suo padre non si stancava mai di ricordare il loro primo incontro, avvenuto secoli addietro, quando lui era una sorta di celebrità scolastica e lei, così piccola ma energica, non apparteneva per nulla a quella genealogia di persone che amava pavoneggiarsi in pubblico.
Se ne stava sempre in disparte, spesso in biblioteca o in qualche deserta zona studio, mordicchiando una penna e facendola oscillare in alto e in basso.
Quando lui le si era avvicinato, sua madre l'aveva lasciata cadere, rimanendo a bocca aperta anche quando le aveva chiesto il nome e inarcava un sopracciglio guardandola con curiosa ironia.
L'aveva amata subito. Dal suo incespicare su pavimenti scombri di ostacoli, al suo agitare le braccia quando era allegra, quando rideva, quando si perdeva nei suoi pensieri e lui la richiamava alla realtà, quasi sempre a dire il vero.
Ma sopra ogni cosa, l'aveva amata quando le aveva donato Stiles -Genim- quel bimbetto pestifero che era il suo esatto ritratto e che avrebbe adorato con tutto il suo cuore, fino all'ultimo respiro.

Entrando nell'asettica camera d'ospedale, decorata per l'occasione con nastrini blu e orsacchiotti di pezza, gli aveva stretto la mano, rimanendo incantato a guardare quel visino buffo e tondo, che se ne stava stretto sul petto della madre e sonnecchiava a bocca aperta. Lei gli aveva chiesto come stava -quando in realtà doveva essere il contrario, giusto?- e poi Stiles aveva spalancato le palpebre, quasi realizzando che qualcun altro lo stava infastidendo dal suo primo sonnellino nel mondo esterno, rivelando quello che era l'esatto colore della famiglia materna.
La moglie, provata dal parto ma con un abbagliante sorriso, aveva chiesto se avesse un nome in mente, l'uomo aveva scosso la testa, la faccenda del nome all'epoca era l'ultimo dei suoi pensieri.
“Che ne dici di Genim?”
Padre e figlio, quasi in sincrono avevano agitato la testa, per nulla apprezzando quel nome.
“Quando sarà abbastanza grande da capirlo, lo odierà.” aveva risposto sicuro di sé.
“Oh, suvvia, lo adorerà.” poi aveva guardato di nuovo quella bambola di carne e perla. “Ma alla fine è solo un nome, che importa?” aveva sussurrato più al piccolo che all'altro.
“Godiamoci questo momento.”
Era stato speciale, dalle settimane di permanenza all'ospedale fino all'arrivo a casa, e poi nella cameretta dipinta di un azzurro chiaro, del neonato.
Il Signor Stilinski aveva impresso nella sua mente ogni singolo istante, forgiando a fuoco e scolpendo quei ricordi indelebili che sarebbero stati il glorioso memorandum di una vita spesa pienamente.

Stiles -Genim- era cresciuto in un batter d'occhio, parlando quasi il doppio dei suoi coetanei d'asilo e mangiando tre volte tanto. Lui si preoccupava, delle volte, ma la moglie ridacchiava, con la stessa identica parlantina del piccino, e lo rimproverava di essere troppo ossessivo.
Annuiva sempre, poco convinto, ma poi non poteva far altro che tornare a preoccuparsi, mentre Stiles sperimentava giochi pericolosi sin dalla più tenera età, tornando a casa con foglie e rametti incastrati tra i capelli e i vestiti sporchi di terra.
Stilinski lo faceva sedere sulle sue gambe, mentre si adoperava a rimuovere i rimasugli di un pomeriggio passato tra le fronte degli alberi -niente più Tarzan o Il libro della giungla, per te, lo ammoniva, pensando alle letture delle favole serali.- e il bimbetto se ne stava placidamente attento a non muoversi troppo, anche se, sgambettando come un ossesso qualche volta colpiva le ginocchia del padre e lui mormorava uno “scusa” con la sua vocetta di cristallo, tornando però a muovere i piedini su e giù qualche secondo dopo.
“Oggi Scott ha detto che sono operativo.” raccontò Stiles, scandendo bene le parole.
“Operativo?”
“Sì, l'hanno detto anche le maestre e lui me l'ha detto, sai siamo due spie e ci diciamo tuuuutto!”
Il padre si passò una mano tra i capelli, capendo il significato delle sue parole.
“Forse voleva dire iperattivo.”
“Quello che è, non so cosa vuol dire...”
Poi si girava sulle sua gambe e lo fissava ad occhi spalancati.
“Che vuol dire?”
Stilinski pensò che non sarebbe mai riuscito a spiegare per bene nulla, a quella mente spugnosa e furbetta che era suo figlio, come sua madre faceva delle volte, passava gran parte del suo tempo a leggere e ripetere a memoria ogni frase o parola su cui i suoi occhi si posavano, assimilando e creando.
“Diciamo che vuol dire...quando qualcuno non riesce a rimanere immobile per più di due minuti.”
“Scott ce la fa, ma è perchè dorme tantissimo, dorme anche durante i giochi che facciamo.”
rispose Stiles ostentando un intelligenza fuori dal comune, quel genere di cipiglio che faceva rabbrividire le maestre e lo etichettava come bambino “fuori dal comune”.
Era Stiles, che comunque, odiava il suo vero nome esattamente come lui aveva previsto.
E non seppe nemmeno come si fosse giunti a chiamarlo in quel modo, poi.
Non era passato tanto tempo, da quando aveva imparato che Genim non era un appellativo per lui, e Stiles aveva adottato un suo personalissimo carattere, fatto di allegria e spensieratezza ma di una certa dose di passione per il lavoro del padre, ligio al dovere e alla giustizia.
Quando rientrava tardi la sera, dopo il servizio, e si sdraiava spossato e svuotato d'ogni forza sul divano, il bambino correva al suo fianco, sedendosi – o meglio dire gettandosi- al suo fianco e chiedendogli come fosse andata la giornata, se aveva catturato cattivi e come, e se poteva portarlo con sé la prossima volta.
Il padre sbuffava e chiudeva gli occhi fingendo di dormire e lui, stando al gioco, correva da sua madre e gli diceva di fare piano, altrimenti papino si sarebbe svegliato e li avrebbe sgridati, lei, sapendo di essere sentita, gli bisbigliava che era d'accordo e che nel frattempo avrebbe preparato la cena.
Il suo ometto cresceva e lui invecchiava, in un processo del tutto logico ed inattaccabile, ma la tenerezza che rimaneva nei gesti di Stiles, nei suoi confronti, non cambiava di una virgola e sua moglie rimaneva la stessa brillante dolcezza di sempre.

Poi, in una notte quieta e per nulla differente dalle altre, qualcuno gliel'aveva portata via.
Strappata senza un lamento di troppo, nel silenzio di un luogo lontano.
E lui, alla veglia funebre, davanti al corpo freddo e pallido, vestito di velluto scuro, senza farsi vedere da nessuno, aveva pianto fin quasi a sciogliersi gli occhi.
Stiles però, dietro una porta della casa, aveva assistito alla scena, con la morte nel cuore, mentre comprendeva per la prima volta davvero, che era tutto finito, che da quel momento sarebbe cambiato tutto e al posto della madre ci sarebbe stato solo un vuoto insostituibile e profondo, denso di tristezza e sogni infranti.
Era crollato in ginocchio, con un tonfo sordo, sorprendendo il padre e gli invitati che facevano a turno per vedere sua madre, come fosse un qualche glorioso trofeo da esibire, e non aveva più aperto bocca, tentando di prendere il respiro ma non riuscendoci più.
Era quello morire?
Perché poi, si moriva?E perché non era toccato a lui, prima di sua madre?
Non lo sapeva e non l'avrebbe mai scoperto davvero.

Il dottore gli aveva detto che aveva subito una crisi di panico. Non sapeva cos'era una crisi, ma il panico gli ricordava brutte cose e alla fine aveva capito, crisi dopo crisi, che le due parole assieme erano anche peggio.
Passando ogni giorno senza uscire dalla stanza, tenendo stretto a sé, ogni ora, una foto di sua madre da viva, circondata dai gigli che amava tanto, non l'aveva aiutato a superare il trauma del lutto.
E forse, l'unico sviluppo che aveva trattenuto era quello di aver amato doppiamente suo padre, riempiendolo di quel sentimento che prima provava per entrambi, equamente distribuito.
Non era una sorta di ripicca, semplicemente sentiva che erano così che dovevano andare le cose, ora che lei non c'era più, ora che persino la sua voce cominciava a sbiadire dalla memoria e il suo profumo di cannella e menta spariva dalle stanze, portando con sé il rumore allegro della sua risata.
Era cresciuto Stiles, e viveva continuamente nel rimorso di non aver dato tutto se stesso per poter proteggere quella donna che amava sopra la sua stessa vita.
Perché era troppo piccolo da capire che cosa volesse dire amare.
Ma stringendosi al padre, abbracciandolo e facendolo sobbalzare sempre di sorpresa, mentre lo circondava in un goffo sbuffo di braccia, finendo poi per versare inavvertitamente qualche lacrima che si asciugavano sul collo del figlio, alla fine aveva compreso.

Era andata meglio, forse, quando suo padre, la notte prima di una giornata di scuola, mentre gli preparava la cartella, si era fermato con i pugni stretti al tavolo.
E lui l'aveva osservato, spegnendo la televisione e sedendosi davanti al padre, che continuava a tenere la testa bassa sui libri e l'astuccio.
“Mi manca la mamma.” aveva detto, triste, meditabondo, sconsolato.
Stiles non aveva risposto, alzandosi e stringendogli un braccio, che lui poi aveva scostato per permettergli di farsi largo sul suo petto.
“Papà.”
“Dimmi.”
“Pensi che lei sia felice?”
Lo sceriffo Stilinski aveva alzato il mento al figlio, perdendosi nel profondo di quegli occhi castani.
“Tu sei felice?”
Era una domanda strana a cui pensò a lungo, mentre lo guardava.
Suo padre, era davvero bello, pensò, di una bellezza da principe delle favole, che lo salvava sempre, da qualsiasi pericolo. Una bellezza valorosa e autentica, non romanzata da qualche descrizione idilliaca, era un uomo perfetto in carne ed ossa.
“Penso di esserlo, sì.” alla fine esclamò, deciso.
“Allora anche lei lo è, davvero tanto.”
Aveva risposto il padre, arruffandogli i capelli e premendo le labbra sulla sua fronte, respirando a pieni polmoni il profumo di cannella e menta. Il ricordo di vecchi tempi.


Fine primo capitolo.

NdA: Chissà, è un esperimento piacevole e io che vivo attorniata da bimbi pestiferi ho l'ispirazione sotto mano, se vi è piaciuta lasciate un commentino! Grazie mille a chi leggerà e apprezzerà! Dan

   
 
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