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Autore: _Mary    20/08/2011    4 recensioni
Ted annuì. «Ventuno anni sono importanti. Mi è sempre piaciuto il numero ventuno, sai?»
Andromeda scostò il vassoio, avvicinandoglisi un po’.
«Come mai?»
«Beh, ho diverse buone ragioni: la prima è che ventuno è multiplo di tre, che per i Babbani è il numero della perfezione» cominciò, contando sulla punta delle dita.
Andromeda non disse niente, ma si portò una mano al ventre.
«La seconda è che ventuno è anche multiplo di sette; e, come ben saprai, sette è il numero magico più potente».
Andromeda annuì.
«E l’ultima è che il ventuno è l’ottavo componente della cosiddetta ‘Sequenza di Fibonacci’. Una cosa molto Babbana e molto divertente» concluse Ted in tono pratico.
Ventuno candeline per Silvia!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing | Personaggi: Altro personaggio | Coppie: Bill/Fleur, Draco/Harry, Luna/Rolf, Ted/Andromeda, Teddy/Victorie
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Attenzione: la seguente raccolta è formata da ventuno flash-fiction, tre delle quali con avvertimento slash velatissimo – e OOC. Lo spazio recensioni è fatto proprio per intimarmi di non provarci mai più. Per il resto, se esistesse l’avvertimento ‘Non per denti delicati’, l’avrei inserito molto felicemente: alcune delle seguenti flash-fiction sono fluff da star male. Lettore avvisato...

Ringrazio la fantastica Bellis che ha gentilmente betato le prime tre triplette della raccolta e che si è messa a disposizione per questa impresa ♥
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Taaaanti auguri a teeeee!
♥♥♥♥♥♥♥
 

Ventuno candeline

 
 
 
 
   Appena aveva messo piede sul suolo inglese, Fleur aveva capito che il Regno Unito non faceva per lei.
    Gli inglesi erano incivili come pochi altri popoli con cui la ragazza avesse avuto a che fare: certo, era stato con vaga civetteria che si era resa conto delle prime occhiate che quei ragazzini le avevano lanciato nei corridoi al suo arrivo e anche dopo – sembrava proprio che non potessero trattenersi –, ma quella nebulosa soddisfazione era presto evaporata per cedere il posto a un fastidio indispettito per tutti gli idioti che sembravano popolare quel castello freddo e inospitale.
    C’era quel Weasley, ad esempio, che le aveva urlato dietro in occasione del Ballo del Ceppo. E Cedric Diggory, l’affascinante campione di Hogwarts, che per qualche ragione – probabilmente a causa dell’inopportuna interruzione di Weasley – l’aveva persino rifiutata. Fleur era sicura che la ragazza che, imbarazzato, aveva borbottato di avere già invitato non sarebbe stata un problema, se solo quell’imbranato pel di carota fosse riuscito a trattenere gli ormoni per un altro paio di minuti.
    Ovviamente, Fleur era troppo superiore a certe cose per soffermarvisi a lungo anche soltanto col pensiero. Eppure la indispettiva, questo sì, notare che essere una Veela, in quella regione, sembrava far presa soltanto su chi non le interessava, come quel Roger che l’aveva accompagnata al Ballo del Ceppo: era sicuramente più carino di molti altri, ma tutto sommato non era davvero niente di che.
    Fu quindi con piacevole sorpresa che si rese conto di avere attirato lo sguardo di qualcuno di ben più interessante delle conquiste dell’ultimo anno, durante l’incontro con le famiglie poco prima della Terza Prova del Torneo Tremaghi.
    Gabrielle non si era fatta pregare, e alla richiesta della sorella si era subito messa in cerca di informazioni: quel ragazzo che era venuto a vedere Harry Potter con la signora bassa e ciocciottella altri non era che l’ennesimo fratello di quel Weasley del Ballo. Ma siccome Gabrielle non era certo una che svolgeva il lavoro a metà, aveva provveduto a ottenere ulteriori notizie – le cui fonti erano ignote a Fleur, alla quale bastava sapere che qualsiasi pettegolezzo fornitole dalla sorella era a prova di Veritaserum.
    «Si chiama Bill e lavora alla Gringott» cinguettò quella brevemente, in francese, tra un risolino e l’altro.
   Fleur le resitituì un sorriso. Fece vagare lo sguardo lungo la riva del lago, inaspettatamente baciata da pallidi raggi di sole, fino a posarlo sulla figura in lontananza con capelli rossi troppo lunghi raccolti in una coda.

    E fu certa di vederla girarsi e rivolgerle un cenno.
 
   Bill non si riteneva certamente uno sciocco. Per questo era stato divertito dalla scoperta della rete in cui, con grazia e perizia, Fleur l’aveva intrappolato.
    Se ne era reso conto soltanto quando ormai era troppo tardi, e quando quella affascinante ragazza francese lo aveva già incastrato col primo appuntamento. Che coincidenza ritrovarla alla Gringott, e che coincidenza che tra tutti i maghi appena usciti da Hogwarts che avrebbe potuto incontrare lì avesse riconosciuto solamente lui.
    «Non è scerto diffiscile ricordarti, Bill» cinguettò Fleur quella sera, spezzando un grissino. «Piutosto, mi ha sorpresa che tu sia rimasto con la tua familia qui in Angleterre, invesce di tornare in Ejitto».
   Il locale era piuttosto piccolo, e intimo. I pochi clienti erano coppiette troppo impegnate a chiacchierare per far caso ad altro, e la musica bassa era un sottofondo di velluto alle loro occhiate al di sopra delle candele dei tavolini. Se Fleur era abituata ad altri standard, non lo diede certo a vedere.
    Bill si sentì arrossire in zona orecchie, ma le rivolse un sorriso.
   «Cambio di programma. Preferisco il clima dell’Inghilterra» si schermì. Chissà come avrebbe reagito Fleur al pensiero che, il giorno dopo a quell’ora, lui si sarebbe trovato a sorvegliare un corridoio che portava nientemeno che al luogo custode di più segreti di tutta l’Inghilterra.
    «Tu invece? Sei qui per loschi traffici da Veela?» replicò, portando alle labbra il bicchiere.
    Fleur ridacchiò.
    «No, non sono molto abile con i traffisci. E neanche con l’anglese».
    Agitò una mano con noncuranza, puntando gli occhi dritti in quelli di Bill.
    Lui sostenne il suo sguardo.
    «Non mi sembrano due grossi problemi da risolvere...» mormorò, senza sapere bene perché avesse abbassato la voce. O forse sapendolo perfettamente.
    Fleur non abbassò gli occhi, in cui ora sembrava brillare una scintilla di malizia. La sua mano si intrecciò a quella di lui, sopra la tovaglia rossa.
    Bill seppe che sarebbe stato più che facile rimediare a entrambe le cose.
 
    «Comme ça».
    Comodamente seduta sul divano, Fleur agitò la bacchetta con grazia, facendo incartare i regali sparsi sul tavolino di fronte a lei con un solo, fluido gesto.
Bill inarcò le sopracciglia.
    «Mi chiedo sempre come facciate, tu e mamma» borbottò a mezza bocca, passandosi una mano sulla guancia sfregiata.
    Fleur alzò gli occhi al cielo.
    «È solo un movimonto di polso, Bill. Nionte di diffiscile» spiegò, pratica. Esitò qualche istante.
    «Dovremmo aver finito, n’est pas? Tuti questi regali...».
    Spostò lo sguardo su ciascuno dei pacchetti, contando sulla punta delle dita. Il giorno seguente sarebbero stati sotto l’albero esageratemente decorato della Tana, e ci sarebbero rimasti fino al giorno di Natale.
    Il crepitio delle fiamme nel camino non coprì i discreti colpi di tosse di Bill.
    «In realtà ne manca uno».
    Fleur alzò lo sguardo di scatto, accigliata. Non era possibile, li aveva contati tutti.
    Bill le porse un pacchetto in carta azzurra, incartato col MagiScotch in un coraggioso tentativo artistico. Fleur sgranò gli occhi.
    «So che fai gli anni domani» si affrettò a spiegare Bill, «ma ormai è mezzanotte, e...»
    Fleur non lo lasciò finire. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò, facendolo quasi ribaltare dal bracciolo su cui si era cautamente appoggiato.
    Il pacchetto cadde silenziosamente dal divano.
 
 
*
 
 
   Divano blu, divano verde, divano rosa.
    Lily continuava divertita a cambiare il colore della tappezzeria di tutta la casa, indifferente al cipiglio di Petunia. Lo faceva da giorni, proprio sotto il naso della sorella.
     «Guarda! Se mi concentro, scommetto che posso cambiare anche i disegni!»
    Lily strizzò gli occhi, ma non accadde nulla. Sembrò afflosciarsi sulla sedia, delusa, ma tornò a provare con più determinazione di prima dopo qualche secondo. In effetti, aveva la faccia talmente paonazza che sembrava potesse emettere fumo da un momento all’altro.
     Petunia, dal suo angolo, non trattenne un sorrisetto di superiorità. Dopotutto, Lily non era così brava. Non ancora.
    Da quando però aveva saputo che sarebbe andata , in quella scuola, ‘Hogwarts’, non faceva che esercitarsi, migliorare. Mandava in estasi i genitori ogni volta che si presentava con qualche stupido fiore cangiante o qualche inutile insetto parlante, e Petunia aveva capito che sarebbe diventata molto brava.
    «Tunia, guarda! Sembra un po’ diverso...»
    Lily si avvicinò saltellante al divano e corrugò la fronte mentre lo esaminava con attenzione. Petunia si chiese quanto sarebbe stato divertente poterla aiutare, poterle mostrare come far apparire disegni o macchie o strisce o colori o qualunque altra cosa su quella stupida tappezzeria. Ma non le si avvicinò.
    «Non è cambiato un bel niente» ribatté invece.
    Se anche Lily aveva notato il suo tono astioso, non lo diede certo a vedere. La guardò un istante prima di uscire in giardino, e poco dopo Petunia non sentì più il frinire delle cicale.
    Rimase sola a guardare il divano, sul quale erano apparsi dei vaghissimi contorni di fiori.
 
   Era quasi ora di pranzo quando Petunia si decise a entrare in sala, pallida ma determinata, la bocca ridotta a una piega sottile.
    Il bambino era lì, adagiato su una poltrona in quella ridicola coperta di plaid in cui lo aveva trovato, con quell’enorme ferita scarlatta sulla fronte, e dormiva. Non aveva fatto altro da quando era arrivato, in effetti – al contrario del suo Didino, che era un bambino tanto vivace.
    Le fremettero le narici a guardarlo. Anche se così piccolo, era la copia esatta di quel Potter che aveva incontrato tanto tempo prima. I pochi capelli del bambino – di Harry, si sforzò di pensare – erano neri, spettinati e sparati in tutte le direzioni.
    Nonostante la lettera che teneva ancora stretta in mano, Petunia non trovava in quella specie di fagotto umano una sola ragione per tenerlo con sé. Non riusciva quasi a credere che fosse davvero il figlio di sua sorella, morta poche ore prima per mano di un mago di cui lei, una persona per bene, non aveva mai sentito parlare. La cosa la faceva inorridire e sentire al sicuro al tempo stesso, nella sua confortante normalità.
    Fu proprio in quel momento che Harry si svegliò e si decise ad aprire gli occhi.
    La pendola della cucina batteva mezzogiorno quando Petunia lo adagiò in una culla improvvisata in fondo alla sua camera.
 
    «Fa freddo».
    Si sentì adagiare un altro scialle sulle spalle con dolcezza. Capiva benissimo che non faceva freddo, non in piena estate, eppure negli ultimi anni il gelo sembrava essersi impadronito di ogni parte del suo corpo, dalle punta delle dita dei piedi fino a quelle dei capelli. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa sarebbe successo quando avesse raggiunto anche il cuore.
    I capelli bianchi riflettevano gli ultimi raggi di un sole pallido e lontano, perso dietro le nuvole dell’orizzonte rosato. Le bambine che giocavano davanti a lei, in giardino, si muovevano già tra le ombre del crepuscolo.
    «Tunia! Tunia guarda, guarda cosa so fare!»
    La più piccola indicò eccitata un fiore che aveva fatto cominciare a danzare; la maggiore squittì emozionata, mettendosi carponi – Petunia, poco distante, arricciò il naso al pensiero delle macchie di terra ed erba sui suoi pantaloni – per osservarlo meglio.
    «Ma è bellissimo! Lo porto alla nonna!»
    La bambina lo face salire con poche spinte premurose sul palmo aperto della sua mano, bene attenta a non schiacciarlo. Corse in un turbinio di capelli rossi davanti a Petunia, e quando si fermò esitò qualche secondo. Poi strizzò gli occhi.
    Nel giardino si levò una lenta, fioca canzoncina di buon compleanno che sembrava venire da ogni dove. La piccola Petunia sorrise soddisfatta, mostrando così una finestrella nei denti superiori, quando vide la nonna guardarsi intorno con aria confusa e fermarsi con gli occhi sgranati sulle aiuole del giardino, i cui fiori stavano cantando.
    Quello nel palmo della mano della bambina sembrava impegnarsi più di tutti. Alla fine, stremato, si afflosciò agitando debolmente una foglia.
Petunia si era portata una mano tremante alla bocca, e aveva fissato a occhi spalancati lo strano spettacolo fin quando l’ultima nota vibrante non era svanita nell’aria bluastra.
    Poi aveva portato lo sguardo sulla nipote, che aspettava in silenzio, paziente, la mano ancora tesa verso di lei.
    La strinse a sé all’ultima luce del giorno.
 
 
*
 
 
   Giorno dopo giorno, Luna continuava ad aspettare.
   Sedeva sul tappeto della sua stanza a gambe incrociate, senza neanche togliersi il pigiama; si teneva la testa tra le mani guardando qua e là a volte canticchiando tra sé, a volte in silenzio. Ascoltava la pressa di suo padre stampare le nuove copie del Cavillo, lo sentiva affaccendarsi e borbottare, e lo vedeva attraversare il suo campo visivo e guardare in alto, verso di lei.
    Ogni tanto aveva l’impressione che volesse dirle qualcosa. Poi però cambiava sempre idea, e tornava a tenersi occupato con più foga di prima. Anche lui, a modo suo, aspettava.
    Luna aspettava il profumo delle mele e dei fiori appena raccolti, il calore di una mano che le sfiorava la guancia e quello di un bacio sulla fronte prima di andare a dormire; aspettava la luce del primo mattino che le colpiva il volto quando sua madre si dimenticava di tirare le tende della sua finestra, aspettava la pioggia che la faceva tornare trafelata e bagnata dal laboratorio prima del previsto; aspettava l’odore di cucina che veniva su la sera – anche se non sempre sembrava provenire da sostanze commestibili; aspettava i suoi occhi che la salutavano e il suo passo sicuro che la guidava nel boschetto vicino casa; aspettava che suo padre tornasse a rivolgerle un sorriso che non fosse tirato, e che la smettesse di passare tutto il giorno chiuso di sotto, chino su fogli che rimanevano bianchi.
    Luna aspettava, e intanto non si decideva a scendere.
 
   « Ho incontrato Rolf, oggi».
    La pioggia scrosciava contro le finestre filtrando la luce di un precoce tramonto autunnale. Xenophilius sembrava perso nei propri pensieri, tanto che alle parole della figlia trasalì vistosamente.
    «Rolf? Rolf Scamandro?»
    Luna annuì con tranquillità, agitando vagamente la bacchetta e mettendo così in ordine una pila di fogli sporchi d’inchiostro.
   «Oh sì, proprio lui. Era da parecchio tempo che non lo vedevo, da quella volta in cui mi ha detto che non credeva ai Nargilli» proseguì. Strizzò con cura la bustina del tè al mandarino nella sua tazza e poi cominciò a passarla contro lo stipite della porta d’ingresso: era sicura di aver visto almeno due Pomboli Fluttuanti entrare da lì, quella mattina, e aveva tutta l’intenzione di evitare che la cosa si ripetesse.
    Alzò le spalle. «Da prima di Hogwarts, in effetti» concluse, ammirando il proprio operato e facendo Evanescere la bustina. Xenophilius annuì distrattamente.
    «Mi piacerebbe rivederlo. Ma...» si corresse Luna, spostando lo sguardo su una delle finestre, «sembra che ci abbia già pensato lui».
    Aprì la porta nello stesso momento in cui Rolf, completamente bagnato, stava alzando la mano per bussare. Il ragazzo rimase in quella posizione per qualche istante, prima di rendersi conto delle due paia di occhi sorpresi che lo fissavano.
    «… Oh» esordì intelligentemente. «Luna! Emh...».
    La ragazza continuò a guardarlo con educata perplessità. Rolf si passò una mano tra i capelli – fradici – a disagio, chiedendosi cosa accidenti potesse dire per giustificare quella immotivata passeggiata sotto la pioggia. Fu solo a quel punto che Luna parlò.
    «Se non ti asciughi subito, rischi che qualche Pombolo ti attacchi. Oggi sono particolarmente agguerriti» sussurrò in aggiunta, gli occhi sgranati.
    Rolf storse la bocca, ma Luna non gli diede il tempo di ribattere che, se fosse stato solo per l’ennesima delle sue strampalate creature, sarebbe potuto rimanere lì sulla soglia anche per tutta la serata, perché gli afferrò delicatamente il braccio e lo trasse dentro, al caldo.
    Fortuna volle che avessero tè al mandarino a sufficienza per evitare un’invasione di Pomboli.
 
   Il mare calmo era uno spettacolo che aveva sempre affascinato Luna.
    Le sembrava un’assurdità che pittori e poeti si fossero soffermati tanto sulla tempesta e sulla spuma dell’inverno e così poco sullo spettacolo che si trovava di fronte: non era meravigliosamente più bella la quiete che seguiva ogni temporale, con l’appagamento silenzioso dell’alba e il respiro delle onde contro la spiaggia?
    Doveva tenere gli occhi socchiusi per evitare che il riflesso del sole glieli ferisse. I capelli le frustavano la faccia, agitati dal vento, e il libro che aveva portato con sé giaceva abbandonato sulla sabbia bianca.
    Sentì i suoi passi prima della sua voce.
    «Un giorno o l’altro mi spiegherai cosa trovi in questo posto per venirci anche all’alba» brontolò Rolf, sedendole accanto.
    Luna non rispose subito. Abbassò gli occhi, stringendo le ginocchia al petto. Poi voltò la testa fino a incrociare lo sguardo dell’altro.
    Era bello il suo Rolf, si disse. Non della bellezza che avrebbe attirato gli sguardi di tutti. In effetti, si disse che qualcuno in lui non avrebbe visto proprio nulla, anzi, avrebbe potuto trovare il suo naso troppo lungo e la sua espressione troppo accigliata per essere interessante. Ma nei suoi occhi azzurri e nei suoi gesti gentili, e nel suo tono spesso brusco ma sempre goffamente affettuoso, Luna vedeva qualcosa che gli altri non potevano cogliere. Ed era per questo che lui era bello.
    «Si può disegnare la pace, Rolf?» chiese a mezza voce, spostando di nuovo lo sguardo sul mare. «Si può intrappolare la felicità e portarla sempre con sé?».
    Rolf non rispose; Luna, dal canto suo, sapeva che non lo avrebbe fatto. Si sentì cingere con un braccio e stringere, mentre guardava il sole levarsi sempre più in alto sul mare, sempre più su nell’azzurro che sbiadiva pian piano.
    Si disse che, se anche non fosse stato possibile, lei in quel momento ci era più vicina che mai.
    Le mani di Rolf e il suo sorriso, i suoi silenzi pensierosi e i suoi capelli arruffati: quella era la felicità.
    «Pensavo che ti saresti accontentata di qualcosa di più semplice da trovare per il tuo regalo di compleanno…» mormorò Rolf. Luna sorrise.
    «Ma ho già fatto: ho te».
    La camicia di Rolf sapeva di mare, e di lui, di quell’odore particolare che per Luna era ormai odore di casa. La barba ancora non rasata sulla sua faccia le piccava la pelle, e le faceva venir voglia di ridere il pensiero che Rolf sembrasse arrossire ogni volta che lei glielo faceva notare.
    Lui la guardò, e dopo qualche istante di sbigottimento si aprì in uno di quei sorrisi imbarazzati che rivolgeva solamente a lei.
    Luna sapeva che, comunque sarebbero andate le cose, avrebbe potuto trovare la serenità soltanto lì.
 
 
*
 
 
  Lì dove nessuno la conosceva era più facile. Più facile muoversi per le strade, più facile stringere la mano di chi le si parava davanti, più facile fingere di essere nata di nuovo pulita e innocente, senza un passato a morderle costantemente le spalle e senza insulti sputati malamente tra i denti a ricordarle chi fosse.
    Pansy odiava vivere tra i Babbani, ma l’aveva trovato conveniente. Sopravvivenza innanzitutto, questo era ciò che aveva sempre pensato; ed era quello che le aveva insegnato anche la sua vita a Hogwarts. Aveva bisogno che le acque si calmassero, prima di poter tornare.
    Perché, ovviamente, sarebbe tornata: non le importava niente di chi avesse vinto o perso, non sarebbe stato certo a causa di Potter che avrebbe lasciato il paese.
    Ma non si era resa conto di quanto fosse malvoluta, persino ritirata in una gabbia che aveva disperatamente cercato di dorare, fino a quando Draco non aveva troncato con lei.
    «Le cose ora sono... difficili» aveva detto senza guardarla, senza nemmeno slacciarsi il mantello da viaggio, fermo nell’atrio di una casa ancora bianca e spoglia. «E possiamo continuare solo separati, per il momento» aveva concluso, voltandosi e facendo per aprire la porta.
    Pansy era rimasta congelata sul posto fino a quel punto. Sentendo la porta aprirsi, però, ritrovò la parola. E con quella, la capacità di ferire.
    «Chi è lei
    Draco si immobilizzò. Non accostò neanche la porta, che rimase aperta sulle scale.
    «Lei chi?» chiese in tono indifferente, senza voltarsi.
    Pansy sentì accelerare i battiti del proprio cuore, furiosa. Pulsava fin nelle sue orecchie.
    «Quella per cui mi stai mollando» sibilò, stringendo forte il bicchiere che teneva in mano – quello pieno d’acqua che Draco le aveva chiesto, probabilmente per avere qualche altro istante per prepararsi il suo discorsetto.
    Solo a quel punto Draco si voltò, chiudendo cautamente la porta.
    «Prego?»
    «Non saresti venuto fin qui se non avessi già un’altra!» sbottò Pansy, «non saresti qui a dirmi che non mi vuoi più se tu fossi disposto ad aspettare! Mi faresti parlare se pensassi che questa sia solo una – com’è che l’hai chiamata? Pausa? Chi è lei?» urlò, agitando le braccia con tanta violenza che il bicchiere le cadde di mano e si infranse per terra.
    Pansy non riusciva quasi più a respirare, sentendosi esplodere il petto. Il cuore faceva bum-bum contro la cassa toracica, il petto si alzava e abbassava rapidamente, le mani strette a pugno lungo i fianchi. Persino Draco sembrava impressionato, ma Pansy non abbassò lo sguardo.
     «Greengrass» mormorò lui all’improvviso. «Astoria Greengrass».
    Persino il pianto del bambino perennamente urlante dei vicini in quell’occasione taceva. Così la risata di Pansy risuonò meglio nella casa.
    «Astoria? L’idiota che si vestiva di piume a tutte le feste in cui le facevano la carità di invitarla? Quella Astoria?» chiese istericamente, portandosi le mani tra i capelli e voltandogli le spalle.
    «Spero che a letto sia più brava che nel vestirsi, altrimenti sarà meglio che tu impari a fare da solo!» continuò, sentendosi ridere sempre più forte.
    «Smettila» si limitò a sussurrare Draco. «Smettila subito».
    «E cos’è che ti piace di lei? Le sue manine da principessina viziata? O il fatto che sia così disgustosamente leziosa, una bambolina da strapazzare? Ma no, deve avere qualcosa che io non so, deve essere...»
    «Ti ho detto di smetterla» sibilò Draco. «Non mi hai sentito? Smettila».
    Pansy si voltò di nuovo a guardarlo, e lo vide... sgonfiato. Non vide nulla, in lui, che le ricordasse il suo Draco. Persino lo sguardo non gli apparteneva.
    Non l’aveva mai guardata così. Non lei.
    Senza un’altra parola, Draco si voltò di nuovo. Aprì la porta e se ne andò silenziosamente com’era venuto; un ultimo scatto della serratura e non c’era più.
    Pansy sentì i suoi passi giù per le scale. Il cuore faceva bum-bum, il petto si alzava e abbassava veloce.
    Poi raccolse i pezzi di bicchiere per terra e li scagliò con tutta la forza che aveva contro la porta; e urlò.
 
     Mancavano pochi giorni all’anno nuovo, e Pansy non si era mai sentita meno in vena di festeggiamenti.
    Storse la bocca alla vista della folla che riempiva Diagon Alley; qualcuno ancora la riconosceva, ma i due anni passati isolata da qualsiasi cosa pertinente al mondo magico aveva dato i suoi frutti. O forse era soltanto la falda del cappello che indossava, che, ricoprendole gran parte del volto, la rendeva quasi immune ai bisbigli.
   Quella pozione, però, le serviva: non aveva nessuna intenzione di cominciare l’anno nuovo malaticcia come era stata per tutto l’autunno, e andare in un ospedale Babbano era assolutamente fuori discussione. Avrebbe comprato gli ingredienti e si sarebbe curata da sola.
    Eppure, vedere tutta quella gente felice, avvolta nei propri mantelli e con tutti quei pacchetti sottobraccio le dava la nausea. Sapeva benissimo che non era perché, dopo due anni di reclusione o quasi, non ci era più abituata.
    «Attenzione, signorina!»
    Pansy andò a sbattere contro un uomo, con tanta violenza che quasi cadde all’indietro. Alzò gli occhi ridotti a fessure per vedere chi avesse osato capitare sulla sua strada mentre era persa nelle sue elucubrazioni, e spalancò la bocca alla vista di una zazzera di capelli di un rosso fiamma che conosceva fin troppo bene.
    «Guardi dove va!» gli sibilò contro, distogliendo in fretta lo sguardo e abbassando il capo, facendo per rimettersi a camminare.
    «Io ero perfettamente fermo. È stata lei a venirmi addosso» ribatté prontamente l’altro, quasi gridandole dietro.
    Pansy non si fermò per controbattere. Forse a quello non era più abituata.
    «Ehi, Parkinson!»
    Quella volta aveva gridato. Parecchie teste si girarono incuriosite nella loro direzione, mentre Pansy, più per stupore che per altro, si bloccava sul posto.
    Si voltò lentamente, drizzando le spalle, pronta a sputare veleno su quel seccatore inaspettato, e fece scorrere lo sguardo sulla sua figura: i capelli, forse un po’ troppo lunghi, non riuscivano a coprire la mancanza di un orecchio; ma quello che la colpì davvero fu il suo sguardo.
    Era semplicemente compassionevole. E Pansy, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentì umiliata.
    George Weasley si strinse nel mantello, accennando un sorriso quasi triste.
    «Buon anno nuovo».
 
    Non c’era stato nessun biglietto d’auguri per lei, quella volta. Immaginava che entro la giornata sarebbe arrivato un gufo con una lunga lettera di sua madre – più piena di preoccupazione per lei che di felicitazioni per il suo compleanno – ma fino ad allora Pansy non avrebbe potuto distinguere quel giorno da uno qualsiasi tra quelli che lo avevano preceduto. Probabilmente, neanche tra quelli che lo avrebbero seguito.
    Abbassò lo sguardo sulla fetta di torta che aveva comprato in un solitario e coraggioso tentativo di festeggiamenti. Vedere Diagon Alley alla luce della mattina, chiara e fresca, era un piacere di cui si era da tempo privata, e anche se qualcuno l’aveva riconosciuta... beh, non l’aveva dato a vedere.
    La torta, però, sembrava stoppacciosa e troppo dolce. Pansy scostò il piattino con noia, facendo vagare lo sguardo sugli altri mattinieri visitatori.
    Il boccone le andò quasi di traverso quando vide Ron Weasley ed Hermione Granger a poca distanza da lei.
    Erano immersi in un’animata discussione: la gente intorno a loro si fermava a metà di un discorso per indicarli, dando gomitate a chi si trovava accanto, mentre un lieve mormorio di eccitazione si allargava lentamente di bocca in bocca.
    I due, comunque, non parvero far caso all’agitazione che avevano creato. La Granger ad un certo punto alzò gli occhi al cielo, sorridendo divertita, mentre Weasley arrossiva furiosamente per qualcosa che lei aveva detto e cominciava a protestare veementemente.
    Passarono oltre senza vederla. Pansy si chiese cosa sarebbe successo se uno dei due avesse incrociato lo sguardo di chi una volta li aveva quasi traditi, e se ai     bravi ragazzi fosse concesso di odiare.
 
 
*
 
 
    Odiare non era mai stato nelle corde di Teddy Lupin. Si considerava un ragazzo dall’indole pacifica, Tassorosso fino al midollo, perciò quel che fece quel giorno sorprese lui stesso per primo.
    Era stata tutta colpa di quel troll totale di Towler. Teddy stava rientrando dal parco dopo quella che, gli piaceva credere, era stata una fruttuosa giornata di ripasso in vista degli esami – il fatto che non si riuscisse a convincere delle proprie parole neanche da solo era tutto un altro discorso.
    Era andato tutto benissimo fin quando proprio lì, nei pressi del campo da Quidditch, aveva visto Towler con Victoire. Un po’ troppo con Victoire.
    Teddy aveva sentito immediatamente virare il colore dei capelli ad un rosso pallido, ma aveva fatto finta di nulla. Del resto, essere stato il baby-sitter e successivamente compagno di giochi di Victoire fin dalla tenera età di otto anni non gli dava assolutamente nessun diritto su di lei. Giusto il dovere di essere un tantino geloso nel giudicare le scelte – criticabilissime, a parere di Teddy – riguardanti le sue compagnie maschili.
    Stava già per passare oltre, quando il suo istinto – nient’altro, davvero – gli suggerì di buttare un’altra occhiata alla coppietta. Per notare che Victoire non aveva affatto gradito l’eccessiva vicinanza di Towler.
    «Provaci di nuovo e ti affatturo» la sentì minacciare, spintonando l’altro. Altro che, tuttavia, parve non prenderla troppo sul serio.
    Per Teddy, abbandonare ogni pacifico proposito di non-gelosia e accorrere in difesa della ragazza fu un tutt’uno.
   Towler, intanto, non aveva lasciato la presa su un braccio di Victoire. Teddy capì che, per gli allenamenti di Quidditch, lei aveva lasciato la sua bacchetta su nella Torre di Corvonero – mossa nient’affatto intelligente, ma, come diceva lei, ‘Quell’affare la impacciava quando giocava’. Mai conosciuta una Corvonero più imprudente.
    «Problemi?» chiese Teddy pacatamente, quando ebbe raggiunto i due. Neanche tanto pacatamente a dir la verità, a giudicare dalla breve occhiata preoccupata che gli lanciò Towler. Victoire si limitò a strappare il suo polso alla presa dell’altro.
    Towler storse la bocca.
   «No. Solo questa stupida» disse, facendo per andarsene a grandi passi alla vista del Caposcuola Lupin. Ci sarebbe riuscito, se solo Teddy non l’avesse afferrato per un braccio.
    «Come?» chiese tranquillo, sentendo però che i capelli avevano di nuovo cambiato colore. «Credo di non aver capito».
Towler sembrò non fiutare il pericolo.
    «Ho detto che è solo la tua amichetta facile il problema» sbottò. A quel punto, però, fece in tempo solo a fiutare i guai, perché Teddy, a differenza di Victoire, la bacchetta ce l’aveva.
    Teddy sentì confusamente Victoire cercare di trattenerlo, ma a quel punto aveva già affatturato Towler.
    Quando, circa tre ore dopo, Towler se la cavò con un richiamo mentre a lui toccò una punizione più la neanche tanto velata minaccia della requisizione della spilla, Teddy capì che ciò che sentiva per quel ragazzo era quanto di più simile all’odio avesse mai provato.
 
    Pranzare a Villa Conchiglia non gli era mai parso più difficile.
  Conosceva Bill e Fleur da una vita. Era stata proprio Fleur ad invitarlo lì le prime volte, ed era stato sotto lo sguardo di Bill che aveva imparato a giocare a Quidditch; aveva passato in quella casa più notti estive di quante ne potesse ricordare, insieme al semi-parentado Weasley; eppure non si era mai trovato più a disagio, perché un conto era essere ‘l’amico di Victoire’, un altro era essere ‘il ragazzo di Victoire’ e un altro ancora, probabilmente il peggiore, ‘il fidanzato di Victoire’. E quella era la sua prima cena da fidanzato.
    Fleur non sembrava trattarlo in modo diverso dal solito. In compenso Teddy si era sentito addosso lo sguardo di Bill fin da prima che entrasse in casa, e nonostante si ripetesse che era una cosa del tutto normale da parte di un padre, Teddy non poteva fare a meno di chiedersi se si sarebbe comportanto in quel modo con chiunque o se fosse lui che stava sbagliando qualcosa.
    Victoire, dall’altro lato della tavola – disposizione dei posti voluta ed organizzata da Bill in persona – lo riscosse dai suoi pensieri rivolgendogli un bel sorriso. Teddy cercò di ricambiare, sentendosi di nuovo addosso lo sguardo di Bill, alla sua sinistra, cosa che lo spinse a sorriderle di più.
    Si chiese vagamente cosa avrebbe fatto Bill se a fidanzarsi con Victoire fosse stato un completo sconosciuto, invece di qualcuno che vedeva girare per casa da una vita.
 
    «Quindi ti sposi davvero».
    Teddy alzò lo sguardo da quello che, come aveva appena scoperto, era il prototipo delle partecipazioni che sarebbero state inviate a troppe persone di lì a poco. L’aveva scelto Fleur, e Teddy stava ancora ringraziando Merlino per il fatto che Victoire fosse riuscita a limitare il gusto prettamente francese di sua madre per gli svolazzi e i rifinimenti. Ovviamente ce n’erano, ma in quantità ridotta.
    Alzò le sopracciglia.
    «A quanto pare» si limitò a rispondere, accennando ai festoni che Fleur, sempre lei, aveva già pensato di ammucchiare in un angolo della stanza.
James sembrò per qualche motivo irritato. Era un comportamento quantomeno curioso da parte di qualcuno che aspettava con ansia ogni tipo di festeggiamenti solo per far baccano. Teddy si sarebbe aspettato che facesse i salti di gioia al pensiero di un matrimonio in arrivo.
    Per qualche motivo ancora più curioso, James lasciò la stanza senza dire un’altra parola, sbattendosi con troppa violenza la porta alle spalle. Teddy rimase in silenzio ad osservare quella che fino a poco prima era stata la vetrata di una delle porte di Villa Conchiglia e che, in quel momento, era solo una pozza di vetri rotti.
 
 
*
 
 
    Rotti tutti i vecchi legami, per Draco non era comunque stato facile cominciare di nuovo dopo la guerra.
     Sospettava di essere il primo Malfoy dopo generazioni a lavorare davvero al Ministero. Uno studio discretamente elegante, una scrivania dietro la quale firmare carte e mandare istruzioni, una montagna di cose da riprendere in mano ed aggiustare. Tutto l’occorrente per presentare al mondo magico un nuovo se stesso, e tanto tempo per potersi rigenerare, nell’ombra di quella stanza dalle finestre incantate.
    Ogni giorno si trovava misteriosamente ad incrociare la strada di Potter. Ogni giorno distoglieva lo sguardo, sentendosi addosso gli occhi del Salvatore o di come diavolo lo chiamavano da dopo la sconfitta di Lord Voldemort. Da un po’ di tempo, però, Potter aveva cominciato a salutarlo prima che Draco potesse far finta di niente.
     E la cosa lo turbava.
 
    Stava peggiorando. Stava peggiorando, ma ciò che lo preoccupava di più che era il fatto che non avesse la più pallida idea di come fare a rimediare.
    Anche quella, come tutte le sue situazioni sentimentali, gli stava sfuggendo di mano. Si disse che avrebbe ormai dovuto imparare da tempo a convivere con la consapevolezza di essere un perfetto imbecille in non poche situazioni, nonostante potesse vantare nel curriculum vitae cose come il salvataggio del mondo magico ed altre inezie dello stesso genere, perché in qualsiasi caso si fosse trovato davanti dinamiche di quel tipo si era sempre, semplicemente, immobilizzato. E dopo aver accettato la triste realtà, qualcosa gli suggeriva che avrebbe fatto meglio anche a porre rimedio alla cosa; così, nell’eventualità che succedesse quello che effettivamente stava accadendo proprio in quel momento, avrebbe saputo come comportarsi.
    Mantenendosi fedele ai suoi principi, però, stava tenendo duro sulla sua linea difensiva. Peccato avesse visto sia con Cho che con Ginny che quella era una tattica brillantemente suicida. Del resto, una parte dell’orgoglio di Harry protestava che con loro due era finita per motivi ben diversi – per un unico motivo in verità, anche piuttosto semplice – e gli piaceva credere che presto sarebbe tornato tutto alla normalità.
    Una vera disdetta che non riuscisse più a convincersene; non da quando Draco se ne era andato da quella che era stata casa loro per tanto tempo.
 
    «Ti pare il caso?»
    Harry non si fece certo scoraggiare dal tono annoiato dell’altro. Forse per il fatto che nessuno, nei suoi primi undici anni di vita, aveva mai festeggiato il suo compleanno, Harry adorava festeggiare quelli degli altri. La giustificazione che i traumi infantili sono estremamente difficili da superare non soddisfaceva nessuno, però.
    «Mi pare» ribatté felice, Appellando il regalo dallo sgabuzzino.
Draco roteò gli occhi al rumore della porta che si apriva sbattendo e delle cataste di oggetti in disuso che si schiantavano sul pavimento. Harry ebbe il buongusto di apparire imbarazzato.
    «Addirittura un regalo?» strascicò Draco, per nulla impressionato.
    Il sorriso di Harry si spense. L’altro alzò per l’ennesima volta gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sospiro tra i denti. Non era fatto per rendere felici i bravi bambini.
    «Sai che non avresti dovuto» provò a obiettare, in un estremo tentativo di evitare di scartare quel – dannato – pacco sotto gli occhi impazienti di Harry.
   «Sai che dovevo» ribatté l’altro, pratico. «Non me ne importa niente se non vuoi festeggiare. Io lo voglio. E sai che me lo devi» concluse, con un’occhiata allusiva.
    «E ora aprilo, o il prossimo anno te ne farò di più».
    Raggelato dalla prospettiva, Draco cedette al ricatto, sentendo inspiegabilmente risollevarsi il suo umore.
 
 
*
 
 
    «Umore nero?»
    Andromeda sbatté la borsa piena di libri sul tavolo della biblioteca. Fu sicura di essersi appena attirata l’ira funesta di Madama Pince, ma non si diede la pena di controllare.
    Doreen succhiò la piuma con cui stava scrivendo quello che avrebbe dovuto essere un tema di Difesa, e che era invece diventato uno schizzo di quello che somigliava in maniera sorprendente al Prefetto di Corvonero Peter Corner. Solo che il vero Prefetto non sarebbe andato sicuramente in giro con gli addominali così in mostra.
    «Ouch. Umore temporalesco» si corresse, posando la piuma e stiracchiandosi pigramente.
    Andromeda cominciò a tirare fuori uno dopo l’altro i libri che aveva portato, imprecando in un sibilo quando vide di aver rotto la boccetta di inchiostro.
    Doreen si portò un dito al mento con aria falsamente cogitabonda. «No, direi... Bellatrixesco» ritentò, prima della seconda – e più sonora – imprecazione di Andromeda, stavolta rivolta alla pergamena completamente macchiata in seguito alla rottura della boccetta in questione.
    Andromeda si sedette al tavolo con le guance ancora arrossate. L’amica picchiettò la bacchetta su rotolo e libri per asciugarli, poi incrociò le braccia e la guardò con fare incoraggiante, pensando che un giorno Andromeda le avrebbe dovuto restituire molti favori.
    «È così... stupida!» esclamò quella con foga, non curandosi di mantenere bassa la voce. Parecchie teste si voltarono infastidite. «E poi critica me nelle sue stupide lettere! Ma lo sai cosa fa lei? Oh, ma certo che lo sai, tutto il castello sa che quella...»
    «Zuccherino, per quanto possa essere terapeutico per te sfogarti, ti ricordo che qui dentro c’è almeno una persona disposta a tagliarti la testa se continui a urlare così» la bloccò Doreen con calma, accennando ad una Madama Pince che aveva assottigliato gli occhi tanto da ridurli a fessure scure. Forse anche con riflessi rossastri.
   Funzionò. Al solo sentirsi chiamare ‘Zuccherino’, Andromeda era ammutolita dall’orrore. Doreen seppe approfittare del vantaggio – di cui aveva già ampiamente abusato nei sei anni precedenti. Agitò con aria vaga la bacchetta in un tintinnio di bracciali, e tutte le cose sparse sul tavolo tornarono – più o meno ordinatamente – all’interno delle borse.
    «Ora: seguimi fuori di qui, così potrai urlare in tutta tranquillità contro chiunque ti abbia pistato i piedini, d’accordo?» proseguì, prendendo Andromeda sottobraccio e portandola fuori. Per allora, però, la voglia di urlare dell’amica sembrava passata. In quel momento sembrava più disposta ad uccidere a sangue freddo e senza nessun tipo di rimorso.
    «Non ce la faccio più con lei» mugugnò con voce funerea. «Vorrei soltanto che non si impicciasse».
    Doreen non rispose. Per quel che la riguardava, la possibilità che la famiglia tentacolare di Andromeda non si impicciasse di quello che stava succedendo tra lei e Tonks era pari più o meno a quella che Bellatrix si mettesse a regalare caramelle e pupazzi agli orfani Babbani.
    «Zuccherino» sospirò, beccandosi un’occhiata torva di Andromeda e sentendosi stritolare il braccio nella sua presa, «vedila così: vorrà dire che prenderò io il posto di damigella d’onore al tuo matrimonio, al posto suo».
    Andromeda storse la bocca.
    «Non se ne parla neanche. Verresti vestita in rosa shocking e piume di fenicottero. Con Merlino solo sa cosa in testa» aggiunse, dopo aver esitato qualche istante.
    «Pensavo più ad una tonalità sul confetto, ma se preferisci...» suggerì Doreen in tono eccessivamente dolce.
    Per quello dovette incassare una gomitata nelle costole. Ma poi vide Andromeda accennare un sorriso.
 
    Vedendola da fuori, quella casa non sembrava neanche lontanamente opprimente come Andromeda l’aveva sentita negli ultimi tempi.
    Mostrava la tranquilla malinconia di un qualunque edificio della città. Visibile a pochi, protetta agli sguardi dei più, custodiva in sé segreti e sussurri che nessuno avrebbe mai potuto strapparle.
    Forse per quella colpa Andromeda era costretta ad andarsene: non avrebbe mai potuto accettare di non affacciarsi alla finestra della propria vita, di vivere per qualcun altro e di lasciarsi opprimere da una coltre tanto fitta di menzogne, inganni e progetti di vendetta.
    Il suo baule non pesava nulla. In effetti, avrebbe persino potuto non portarlo, pensò amaramente.
    Quando, tanti anni dopo, tornò in quella stanza, lo trovò ancora lì, ai piedi dei suo letto, una delle ultime reliquie di un passato che avrebbe voluto dimenticare.
 
    « Zucchero?»
    Andromeda si decise ad aprire gli occhi di uno spiraglio solamente quando il profumo di cannella riuscì a farsi strada persino attraverso i suoi sensi ancora addormentati.

    «Ted, è presto» sbadigliò nel cuscino, tirandosi le coperte fin sopra le orecchie.
    Bofonchiò irritata quando si sentì scoprire di nuovo, le coperte cacciate in fondo al letto. A quel punto dovette aprire gli occhi davvero.
    Il suo primo pensiero coerente fu che si fosse dimenticata di qualcosa di importante: Ted non si sarebbe certo scomodato a portarle la colazione a letto, altrimenti – figurarsi, non l’aveva fatto neanche in luna di miele. A quello seguì il pensiero che dovesse essere un’occasione: una ricorrenza? L’anniversario? No, per quello c’era ancora tempo, ma c’era sicuramente qualcosa.
    E così arrivò con orrore alla conclusione che non si era neanche ricordata del regalo – qualsiasi cosa Ted stesse festeggiando.
    Ted le fece planare dolcemente in grembo il vassoio: il profumo di cannella e arancia si fece più intenso, ma questo non fece sciogliere il nodo allo stomaco di Andromeda.
    Si portò le mani alla faccia e cercò di trattenere uno sbadiglio in modo dignitoso. Dalle imposte non filtrava luce: doveva essere ancora presto.
    Peggio ancora: era una cosa molto importante.
    Ted ripetè la domanda: era ancora spettinato, in vestaglia, e Andromeda pensò con un pizzico di malizia che non sembrava molto più sveglio di lei.
«Zucchero?».
    Andromeda alzò gli occhi al cielo.
    «Sì, grazie» mormorò, osservando il cucchiaino affaccendarsi intorno alla zuccheriera.
    Quando alzò lo sguardo, Ted la stava osservando con una punta di divertimento.
    Andromeda sorseggiò il suo tè. Era piacevolmente caldo. Forse fu quello a farla svegliare veramente.
    «Mi hai preparato la colazione per il mio compleanno, Ted?» chiese, sgranando gli occhi. Non sapeva se a sorprenderla fosse più il pensiero di suo marito ai fornelli – anche solo per riscaldare un po’ d’acqua e infornare i biscotti che facevano bella mostra di sé sul vassoio – o il fatto che la cucina non fosse andata a fuoco.
    Ted era visibilmente compiaciuto. Si passò una mano tra i capelli, arruffandoseli ancora di più, e alzò le spalle.
    «Non è poi tanto male... mi basta non usare la magia per evitare di incendiare qualcosa».
    «Allora potrebbe diventare un’abitudine» suggerì Andromeda, assaggiando un biscotto. Salato.
    Fece una smorfia e ingoiò controvoglia.
    Ripensandoci, le piaceva festeggiare solo una volta all’anno.
    Ted, che l’aveva imitata nell’assaggiare le sue creazioni, parve arrivare alla stessa conclusione.
    «Direi» cominciò, posando cautamente il biscotto iniziato sul vassoio, «direi che ho avuto una buona intuizione a comprare la torta».
    Andromeda inarcò le sopracciglia.
    «Una torta? Addirittura?» chiese, sentendosi sorridere.
    Ted annuì. «Ventuno anni sono importanti. Mi è sempre piaciuto il numero ventuno, sai?»
    Andromeda scostò il vassoio, avvicinandoglisi un po’.
    «Come mai?»
    «Beh, ho diverse buone ragioni: la prima è che ventuno è multiplo di tre, che per i Babbani è il numero della perfezione» cominciò, contando sulla punta delle dita.
    Andromeda non disse niente, ma si portò una mano al ventre.
    «La seconda è che ventuno è anche multiplo di sette; e, come ben saprai, sette è il numero magico più potente».
    Andromeda annuì.
   «E l’ultima è che il ventuno è l’ottavo componente della cosiddetta ‘Sequenza di Fibonacci’. Una cosa molto Babbana e molto divertente» concluse Ted in tono pratico.
    Andromeda aggrottò le sopracciglia, perplessa.
    «E questo cosa c’entra?»
    «Oh» rispose Ted, quasi sovrappensiero «con noi poco. Direi quasi niente».
    Non aveva l’aria di volersi spiegare meglio, così Andromeda si tenne le sue perplessità. Fu a quel punto che Ted, quasi casualmente, agitò la bacchetta: una torta piccola ma dall’aspetto delizioso attraversò lentamente la stanza, andando a prendere il posto che era stato occupato dal vassoio in grembo ad Andromeda.
    Sapeva che Ted forse non avrebbe capito, ma la ragazza si sentì salire le lacrime agli occhi: quella era decisamente la torta migliore che avesse mai visto. E quello era il compleanno migliore che avesse mai festeggiato.
    «Ora, signorina...» le sussurrò Ted all’orecchio «esprima un desiderio. E poi soffi più forte che può: sono abbastanza» e qui si interruppe a causa della gomitata di un’Andromeda piuttosto offesa, «ma deve spegnerle tutte».
    Andromeda chiuse gli occhi. Aveva bene in mente il suo desiderio. Soffiò.
    Le fiammelle tremolarono e poi si spensero tutte.
    Nella penombra cercò Ted, e si sentì abbracciare.
    E si chiese se di lì a sette mesi avrebbe considerato ancora il numero tre come quello della perfezione, o se avrebbe rimpianto la tranquillità priva di infantili pianti notturni a cui si erano abituati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-         Bill e Fleur
-         Petunia
-         Pansy e Draco e Pansy e George
-         Teddy e Victoire - e Sequenza di Fibonacci
-         Andromeda e Ted
 
 
 
 
 
Ventuno sono le lettere dell’alfabeto, queste flash ed i tuoi anni.
Sette è il numero magico più potente e quello dei tuoi personaggi preferiti.
Mille sono gli auguri che ti faccio io oggi.

 

 

 

   
 
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