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Autore: Callie_Stephanides    24/08/2011    10 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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2.
Pelle

Quello della pelle non è un lessico segreto ma rubato.
Non c’è nulla come una carezza che possa rivelare di te a chi osa; non c’è niente come una ferita, una cicatrice che pianga con altrettanta forza le mille, vergognose sconfitte che vorresti nascondere persino a te stesso.
La pelle urla, non inganna.
La pelle è un velo che dovrebbe nascondere, ma al dunque pone solo accenti rovinosi.
La mia, di pelle, secca e fredda, diceva di una donna che aveva rinunciato a vivere. Quella di Vinus, percorsa da cordoli rossastri e faglie incise nel suo orgoglio autolesionista, l’atlante di una storia d’errori e di orrori.
Mordevamo come lupi, ma eravamo due perdenti; lucidi al punto, per altro, da riconoscerlo per primi. Eppure non potevamo accettarlo, dunque combattevamo senza requie: l’uno contro l’altra e, soprattutto, l’uno per l’altra. Era contro uno specchio inaccettabile che puntavamo la lama, ora lo so: l’ho capito, forse, nel momento in cui, davanti alla possibilità di trapassarmi il cuore, Vinus distolse lo sguardo e mi diede le spalle. Non per pietà, né generosità, né misericordia: fu la paura a impedirgli di uccidermi. La paura di cancellare il se stesso che aveva colto negli occhi verdi della donna uccello.

*

Fu ancora la pelle a raccontarmi della prima, terribile sconfitta di Rael; a dirmi di un fratello segreto, che avevo sfiorato con lo sguardo, posseduto con l’egoismo di una bambina e istruito con l’arroganza della Makemagistra di Trier, eppure mai compreso.
A un’orribile cicatrice devo destinare l’ennesimo rivolo di questa storia, perché fu di carne la consapevolezza che investì all’improvviso il figlio di Freil, e gli fece male come neppure la spada di Vinus. Nell’orrore della donna che amava, nelle sue lacrime umiliate e deluse, Rael incontrò il dracomanno che era – che non poteva accettare di essere.
La guerra ostinata e crudele che combattevo nel nome della memoria fu una brezza persino gentile, se paragonata all’inferno che divorò il cuore di mio fratello. Come per Lukas, tuttavia, non potei fare nulla per aiutarlo: chiusa in un piccolo mondo sterile, non vedevo altri che me stessa.
Era un curioso quanto tragico destino: davanti agli uomini della mia vita, ero inerme e inutile.
Poi, l’ho già detto, è arrivato Vinus.
È arrivato anche il mio riscatto.

*

Melian era la figlia dei piaceri di una notte e di una donna che Trier aveva giudicato e condannato.
Prima di diventare la nostra cuoca, Luthien era stata una puttana. Si vendeva agli angoli bui della piazza del mercato, poiché quello era il luogo deputato ai commerci: che fossero armi o sogni, dignità o carne, tutto aveva il suo prezzo.
Non parlava volentieri di quel passato, ma non se ne vergognava. “Vendere è sempre meglio di rubare,” mi disse una volta. Il suo sguardo era fermo e limpido. Sospetto che mio padre ne abbia fiutata la dignità regale oltre un pugno di stracci, e abbia amato la possibilità prima ancora della redenzione.
Un giorno dei suoi trent’anni, come le piaceva raccontare, incontrò il suo ultimo cliente: il padre di Melian.
Luthien era una cortigiana esperta, ma il Destino vinse ogni precauzione: un minuscolo seme le germogliò dentro.
Che valore ha un figlio, tuttavia, se sai che non potrai crescerlo?
Che ti toglierà il pane di bocca, prima di tutto, perché nessuno cavalca una femmina sformata da un parassita?
Non appena seppe del bambino, Luthien fece il possibile per sbarazzarsene, ricorrendo ai rimedi surreali che le puttane si tramandavano con l’esperienza di mille angiporti.
Digitale e funghi, lavande velenose, scongiuri alla dea: nulla vinse la tenacia di un minuscolo girino di carne.
L’ennesimo, disgraziato tentativo di aborto fu anche quanto la portò davanti a mio padre.
“Magister, c’è una donna che sta morendo,” gli riferì la moglie del vasaio.
All’epoca avevo cinque anni e l’egoismo di una pietra; l’imbarazzo della vicina mi scivolò addosso, come la premura con cui si sostituì a mio padre, impegnato a salvare Luthien.
Volevo la barba di Leonar e le sue favole: che per qualcuno la vita fosse veleno era un problema che non mi riguardava.

*

Luthien entrò nella nostra casa come uno di quei bastardi rognosi che raccogli per strada: diffidente, muta e ingrigita dall’infelicità dapprima, poi devota e fedele come solo un cane.
Leonar, uomo di cuore e di cervello, le propose di restare almeno sino alla nascita del bambino. Erano le prove generali di ben altro affido, ma non lo sapeva ancora: sospettavano entrambi, piuttosto, che non se ne sarebbe più andata.
Luthien era stata splendida, ma la strada l’aveva consumata; incanutita precocemente, sformata dalla gravidanza, l’avresti detta una robusta contadina di cinquant’anni, non certo la regina delle notti di Trier. Se fosse stata una donna vanitosa – e non lo era – avrebbe tratto dalle sue miserie un’ulteriore ragione per detestare la creatura che portava in grembo, invece la nascita imminente l’aiutò a scoprire quanto di sé aveva soffocato nelle infinite notti da predatrice e preda: un’inesauribile vena d’amore.
Ne aveva per chiunque, Luthien; ne aveva al punto da accogliere tra le braccia il figlio del nemico.
 
“Non puoi dire che la vita è cattiva, quando incontri un uomo giusto.”
 
La saggezza di Luthien aveva la solidità di un monolite; l’aveva nutrita la miseria, la notte e la strada: non c’era pergamena che valesse altrettanto.
Mio padre le aveva insegnato il valore della solidarietà e della fiducia; Luthien lo trasmise a sua figlia, come le ingiunse di camminare sempre a testa alta, esibendo l’orgoglio d’esserci quasi fosse una bandiera.
Dire di Melian mi è difficile, perché non l’ho mai amata. Il lustro che ci divide, d’altra parte, è poca cosa rispetto a tutto quel che fa di noi due universi incomunicabili.
Melian era (è) tutto quel che Leya di Trier non sarebbe mai stata: bellissima, femminile, seducente. E silenziosa. E dolce. E fertile.
Una donna vera.
Per oltre dieci anni mi concessi il lusso d’ignorarla – era la figlia della cuoca, un arredo domestico e nulla più – poi fui costretta a guardarla con gli occhi del mio primo amore, e il tarlo della gelosia quasi mi uccise.
 
“Quanto è cresciuta la piccola Melian…”
 
Lukas mi amava, ma nei suoi occhi c’era l’ombra del desiderio che pretendevo per me. Per me sola.
Fu come se fosse nata in quel momento, finalmente evidente ai miei occhi.
Aveva pelle di miele e boccoli d’ebano; labbra carnose e occhi bellissimi. I lacci del corsetto stentavano a contenere l’esuberanza di un seno tutt’altro che adolescenziale, come non vi era più nulla d’infantile nelle occhiate che le lanciava Rael, colme, in eguale misura, di voglia e imbarazzo e paura.
Al suo cospetto, ero sbiadita, inconsistente, brutta. Odiarla sarebbe stato facile; amarla, molto oltre le mie possibilità. Infine prevalse il buonsenso della donna che stavo diventando.
Eravamo diverse, noi due, persino antitetiche, perché opposti erano i destini che la Storia ci aveva riservato.
Io ero figlia di un uomo solo, non conoscevo le morbidezze della femminilità e, sebbene in modo embrionale e confuso, disprezzavo il sesso cui appartenevo. Mio padre mi aveva riempito la testa di sogni e d’illusioni che la realtà condannava: poiché non ero nata maschio, le mie ambizioni non avrebbero mai trovato coronamento. Ero egoista e superficiale, almeno quanto fortunata: a sapere cosa avrebbe implicato trasformarsi in un uomo, avrei continuato a desiderare con accanimento la metamorfosi?
Ora posso rispondere ‘no’.
Ora posso dire che rinunciare al mio sesso fu rinunciare alla vita stessa e a tutto quello che essere donna rappresentava: amare, fare l’amore, essere felice.
Melian moveva da premesse che si collocavano agli antipodi. Ai suoi occhi, i maschi erano creature inutili e dannose. Erano le donne – fianchi larghi, seno generoso, sangue caldo – l’unico e vero motore della Storia.
Erano le donne che stringevano i denti e andavano avanti. Gli uomini erano un mucchio di belle parole, promesse mai mantenute e solitudini egoiste.
Melian era fiera di essere una donna, almeno quanto sapeva che non avrebbe mai amato – fino a mio fratello, almeno: non un uomo, ma un dracomanno.

*

La figlia di Luthien era stata una bambina timida e taciturna. Percepiva lo stigma che l’accompagnava con l’istinto quasi animalesco che solo l’età erode, dunque si allontanava di rado dalla madre. Se quest’ultima la conduceva con sé al mercato, si aggrappava alle sue gonne, nascondendosi in quelle ampie volute come una bestiolina ferita.
Da adolescente, la sua sfacciata bellezza la trasformò in una creatura ancora più schiva e sfuggente, perché nei mille occhi che la frugavano, leggeva la strisciante crudeltà del pregiudizio.
“La figlia di una puttana non può che essere…”
In Rael, prima del compagno di una vita, trovò un fratello, un amico, un simile: entrambi erano nati dalla parte sbagliata della Storia; entrambi erano sopravvissuti per un atto di carità e di giustizia.
Che s’innamorassero fin da giovanissimi, converrete, era scontato.
Che quell’amore potesse coprirli di ferite – metaforiche e non solo – no, non l’avrei mai detto.
 
Accadde ad appena qualche giorno di distanza dalla mia elezione a Makemagistra.
Il verdetto del Collegio era stato pressoché unanime ma quel plebiscito non inorgoglì nessuno; non i miei familiari, almeno, che mi vedevano scivolare lungo la china di una lucidissima follia e non sapevano rassegnarsi. Quel titolo non era un tributo ai miei studi e alla mia intelligenza, quanto alla mia infelicità: non tornavo più a casa, non mangiavo, non dormivo, quasi non respiravo. Più che parlare, bestemmiavo o berciavo ordini.
Avevo passato mesi a perfezionare gli Specula, notti intere a studiare le interazioni dell’adamanto e dell’argento. Quando – era l’alba del mio ventiseiesimo anno – realizzai che il residuo alchemico di un esperimento già dato per fallito era una nuova, indistruttibile lega, risi come non facevo più da secoli.
Un riso malato.
La stessa risata di Vinus.
Non divenni Makemagistra perché ero la più colta del Collegio, la più intelligente, la più sensibile ai precari equilibri degli anni di guerra, ma per la mia determinazione a uccidere.
Li volevo morti.
Tutti.
Se il Drago Nero costituiva il cuneo di sfondamento di Koiros, Leya di Trier sarebbe stata la fortezza di Eleutheria.
I miei occhi s’intorbidarono. I capelli erano stoppie bruciacchiate. Ero orribile e non m’importava, poiché mi si era seccato il cuore e tra le cosce pulsava la ferita di un irrimediabile lutto.
Rael cominciò a sfuggirmi, benché fossi un suo diretto superiore: più che l’arroganza delle mie ingiunzioni, non sopportava di vedere quel che ero diventata.
Lukas era morto davanti ai suoi occhi e non aveva potuto impedirlo; non aveva colpa di niente, eppure sentiva d’essere il responsabile di tutto.
Era un dracomanno e la sua gente mi aveva raso al suolo.
Non era più un bambino, ma rifiutava di giudicarmi, perché l’affetto del fratello vinceva sul giudizio del soldato.
A vent’anni non era ancora all’apice della potenza distruttiva, ma si era già fatto un nome tra i nemici: lo chiamavano il Rosso, dal colore che tingeva la sua corazza sul campo di battaglia. Era rapido e letale, spietato come una fiera, eppure lucidissimo. La guerra era l’elemento naturale della sua razza, e alla guerra si abbandonava con una leggerezza che avresti detto respingente, se solo non fosse stato Rael di Trier, figlio di un Ygeo e di un olocausto.
Tra le braccia di Melian, tuttavia, tornava la creatura mite e remissiva che Leonar aveva cresciuto; un ragazzo pieno d’amore e di sogni. Se non avessi annegato il cuore in un lago di bile rabbiosa, forse avrei provato sollievo nel vederli, loro due, passeggiare abbracciati per le vie della Capitale, incuranti degli sguardi invidiosi di chi li spiava, così giovani e belli, consumare il più raro e puro dei sentimenti. Indifferente alla vita, invece, ricordavo a Rael di non cercare distrazioni, perché il Drago Nero ci alitava sul collo e pretendevo la sua testa.
Mi arrogavo la parte di Dendre: al dunque, invece, tutto quel che sapevo fare era distruggere. Melian, al contrario, era pronta a diventare la bandiera della riconciliazione: voleva sbocciare tra le braccia di mio fratello e regalargli il suo sangue.
Rael la desiderava in modo tanto rovinoso che mi sono chiesta mille volte come sia riuscito a trattenersi per oltre un lustro. La risposta era, al contempo, banale e straordinaria: l’amava più di se stesso, dunque avrebbe aspettato una vita intera, se gliel’avesse domandato. Melian, tuttavia, sapeva quanto ingorda ed egoista fosse una puttana chiamata ‘guerra’, e non avrebbe mai accettato di abbandonarle Rael senza reclamarne prima per sé la parte migliore.
Per la figlia di Luthien il sesso era un’indicibile violenza, come un sacrificio della pelle e dell’amore: più che concedersi a Rael, s’immolava nella speranza di salvarlo da tutto, forse anche da se stesso.
Le sue preghiere, però, rimasero inascoltate.

*

So poco di quel che accadde quella notte, e non furono certo i protagonisti a raccontarmelo.
A parlare, settimane dopo, fu piuttosto la terribile cicatrice che avrebbe sfregiato per sempre la carne immacolata di una donna coraggiosa.
Non Leya di Trier ma Melian, figlia di Luthien, conosceva l’autentico prezzo dell’amore: e l’accettò comunque.

*

S’incontrarono sulle rive del fiume, sotto una pioggia di stelle. L’aria era calda e sciami brillanti di lucciole li restituivano ai giorni in cui, bambini, cacciavano rane guidati dalla luna: dei nanerottoli sempre infangati di allora non restava più traccia. Come i girini che studiavano curiosi, come le larve repellenti che raccoglievano con infinita cura, avevano cambiato pelle, loro due: si erano inseguiti negli anni solo per arrivare a quel momento.
Il desiderio li aveva avvolti in una bolla vischiosa, ottundendo ogni suono che non fosse il battito tumultuoso dei loro cuori. Appartenevano a mondi che la Storia pretendeva nemici, ma avevano scelto di amarsi e scrivere da soli una nuova, sorprendente pagina.
L’inchiostro, però, sarebbe stato il sangue di Melian.
 
Rapidi nembi velavano la luna, proiettando ombre lattescenti sul grosso seno della figlia di Luthien. Nuda e fremente, era splendida come la Dendre del mito.
Rael rimase a fissarla ipnotizzato, mentre sfiorava le linee di un corpo che era cresciuto con lui e per lui.
“Io sono qui.”
La voce di Melian era un rapido sospiro, spezzato dall’imbarazzo e dalla paura.
Mio fratello chiuse gli occhi e cominciò a baciarla come non aveva mai osato prima: quasi respirasse la vita dalle sue labbra.
Aveva combattuto e ucciso nel nome di Eleutheria, perché quello era il suo debito; perché era il relitto di un mondo morto e qualcuno l’aveva voluto. Tra le braccia di Melian, invece, scopriva di appartenere a Trier con la profondità di una predestinazione: era nato per lei, per una donna di miele e giaietto, per l’umidore dell’erba bagnata e di un’irresistibile voglia.
Melian era Eleutheria e tutto il suo futuro.
Fu l’intensità di quell’emozione a perderlo, perché il sangue che gli ribolliva nelle vene prese il sopravvento.
I baci divennero morsi; le carezze, artigliate rabbiose.
Melian sollevò le palpebre, atterrita: Rael la fissava con l’intensità omicida del predatore. I suoi occhi gialli rilucevano di bagliori sinistri, dalle labbra dischiuse s’intravedeva, spettrale, il biancore dei canini acuminati.
La coda del dracomanno, lunga e robusta, la stringeva alla vita in una morsa implacabile.
“Rael?”
 
L’ultimo alito di Melian morì soffocato da un singhiozzo, mentre la bestia che si era sostituita a mio fratello la rovesciava sotto di sé, la schiacciava e la mordeva con violenza inumana alla base della nuca.
La figlia di Luthien dischiuse le labbra solo per assaporare il gusto ferroso del sangue e della terra che le invadeva la bocca, mentre Rael la penetrava senza la minima cura.
Senza un bacio.
Senza guardarla in faccia.
E mordeva, mio fratello, mordeva quasi dovesse staccarle la testa.
Era così che gli ophelidi marchiavano la compagna di una vita, ma nessuno dei due lo sapeva: nessuno dei due era davvero preparato a scoprire quanto in profondità la Storia di cui erano figli li avesse condannati.
Il sangue unisce. Il sangue divide.
 
Quando quel bestiale amplesso si concluse, Melian era uno straccio insanguinato. La luna, algida e spettrale, ascoltò indifferente le urla di Rael, il suo pianto disperato e inconsolabile.
Il giorno seguente, mio fratello chiese d’essere inviato alla piana di Mizar: preferiva morire per mano di un dracomanno, che non vivere con lo stigma di una razza maledetta.
A fermarlo, però, fu mio padre. “Lei ha capito,” gli disse.
Melian aveva letto sulla propria pelle le parole della devozione di mio fratello: un amore maldestro, feroce, istintivo, eppure puro; un sentimento crudele e autentico come forse non vi era nulla al mondo. Quella cicatrice che la sfregiava per sempre era quanto sua madre non aveva mai avuto: un uomo.
Un uomo vero.

   
 
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