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Autore: Callie_Stephanides    30/08/2011    8 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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3.
L’ultimo grano della clessidra

C’è la convinzione diffusa che il mutamento sia una deflagrazione; che la rivoluzione rovesci l’orizzonte noto, sottraendoti riferimenti e prospettive.
Il cambiamento, invece, è una metamorfosi costante e lentissima.
È il quotidiano che ti sorprende all’improvviso e che ti costringe a fare i conti con la tua cecità.
 
L’evento più importante della storia di Trier, di quell’evo che avevo inaugurato proprio io, prima donna a presiedere un consiglio di guerra, si annunciò con un pianto sommesso, quasi il mugolio di un gattino. Mentre l’armata dei liocorni neri si preparava a mordere i confini della Capitale, nasceva Lukas, figlio di un dracomanno e di un’eleutheride. Nasceva il figlio di Rael.
La maledizione del sangue che intrideva di sé la storia di Elithia, dalla Genesi alle guerre che avevano insanguinato l’Eumene, moriva tra le cosce di una donna che non aveva paura della vita.

*

Melian accolse nel proprio ventre il frutto di una notte orribile come l’ennesimo pegno d’amore.
 
“E se mi somigliasse?”
 
La voce di Rael era intrisa di un desolato senso di colpa. Negli occhi della figlia di Luthien, tuttavia, c’era già l’infinito delle madri: l’oceano di un bene senza condizioni.
“È quello che spero.”

*

A lungo ho creduto che sua fosse la serenità dell’idiozia: scivolava sulla superficie della vita, Melian, senza pensieri e senza paura. Possedeva invece una saggezza uterina, la voce di un istinto che non aveva bisogno di prove per saggiare la sostanza delle cose.
Melian aveva spiato la vita da un cantuccio nascosto, sperimentando la crudeltà delle parole e dei pregiudizi. Gli eleutheridi non erano migliori di chi chiamavano nemico, né la guerra era solo un polveroso campo di battaglia. C’era, piuttosto, nel taglio di una spada, l’onestà che sfuggiva alle facili meschinerie del pettegolezzo.
Relegata ai margini della società per un difetto di nascita, Melian scopriva nella maternità la legittimazione che cercava: era la nuova Dendre. Era colei che ricomponeva il sangue.
 
“Non so cosa accadrà. Potresti morire, lo sai?”
Mio padre scelse di affrontarla mentre Rael comandava un drappello di soldati ai confini di Trier.
“Non appartenete alla stessa razza, Melian. È triste ricordarlo, ma…”
“Qualcuno dovrà pur cominciare. Io non ho paura.”
 
Io non ho paura: al contrario di me, che ringhiavo perché temevo tutto, Melian credeva nell’invisibile coraggio della quotidianità.

*

Quella gravidanza, che aveva qualcosa di empio e santo insieme, monopolizzò le chiacchiere della Capitale per settimane, ma quasi non me ne accorsi. Quanto fagocitava la mia attenzione, era piuttosto un antico, sbiadito arazzo. Se ne stava là, sulla parete principale del Consiglio di Trier, a irridermi e accusarmi: riproduceva l’Eumene com’era alla fine del Primo Evo.
Raccontava l’Eleutheria che non esisteva più.
Dopo la conquista di Thula, stazione commerciale di fondamentale importanza strategica, Vinus aveva assunto anche il controllo del porto di Loch. Ci aveva chiuso gli approvvigionamenti via mare, il cane: sapeva che la fame avrebbe vinto dove non era concesso al suo esercito.
Le labbra strette, metabolizzavo la mia disfatta e mi chiedevo umiliata come guadagnarmi la testa del Drago Nero. Era lui che volevo, non Koiros, perché, prima ancora della libertà, inseguivo la vendetta.
Ero infelice e patetica.
Poi nacque un nuovo Lukas: e la clessidra del mio Tempo vomitò l’ultimo grano.

*

Il figlio di Rael vide la luce che l’inverno era alla fine. L’antica Leya avrebbe salutato con sollievo il rinnovato verdeggiare della pianura e lo schiudersi dei primi, timidi fiori.
La Makemagistra di Trier pensava piuttosto che sarebbero tornati i giorni di guerra.
Se il fango e la neve rendevano disagevoli le marce, infatti, il buon clima di Eleutheria avrebbe incoraggiato gli avanzamenti dell’armata di Koiros.
Come Vinus mi aveva dato modo d’intuire per tempo, quello sarebbe stato il nostro ultimo anno da nemici: del mio Paese non restavano che briciole strette attorno alla Capitale.
 
Lukas era bruttino come tutti i neonati ma nulla del suo aspetto tradiva il sangue che portava, se non gli occhi: ambrati come quelli del padre, ospitavano l’inquietante pupilla verticale degli ophelidi. Piccolo e fragile tra le braccia di mio fratello, era il miracolo che aspettavo da eoni, eppure mi concedevo d’ignorarlo, perché in quel nome – Lukas – si concentravano ora gli incubi di una donna sconfitta e sola.
Ogni nascita era un promesso lutto: avrei sognato volentieri un’Eleutheria sterile per non sentire sul cuore il peso di un’altra vita.
Se Rael aveva scelto di donare al figlio il nome di un morto, tuttavia, era per ragioni di ben altro segno: cercava il riscatto, mio fratello, e, combattendo per quel fragile fiore, pretendeva di volgere la clessidra che aveva inghiottito i miei anni più belli.
Sbagliavamo entrambi, però, perché i morti non tornano mai: siamo noi le loro tombe; noi li seppelliamo tra le pieghe del futuro che è stato loro sottratto. I morti passeggiano nelle Terre del Ricordo, dimentichi di quello che sono stati e di quelli che restano. È una legge crudele ma piena di buonsenso: la stessa per cui avrei dovuto accettare che del mio primo amore non restasse che cenere.
 
Diventare padre offrì a Rael una forza del tutto nuova. Se fino a quel momento aveva combattuto per un antico quanto improbabile debito di riconoscenza, ospite di una storia e di un nome che non gli appartenevano di diritto, dalla nascita di Lukas prese a considerarsi un vero eleutheride e a scendere in campo come tale, perché oltre le mura di Trier non c’era più solo un ospite pietoso ma un intero mondo: la sua famiglia.
Al contrario di me, tuttavia, conosceva l’anima profonda della guerra, e non ne fu mai succube.
 
“Chi non ha avvertito su di sé almeno una volta il puzzo del sangue, del fango e della merda, non ha il diritto di chiamarsi soldato.”
 
Erano le parole di Ruben di Trier.
Erano le parole che avevano cresciuto in Rael non solo la distruttività del dracomanno, ma la sensibilità dell’uomo.
Erano anche le parole con cui non potevo accettare di misurarmi, poiché era facile, dall’alto dei bastioni, guidare un massacro senza guardare negli occhi le vittime.
Mio fratello, invece, quel disturbo se l’era preso da che era un ragazzo, imparando il valore della pietà.
Rael era letale, ma non crudele. A cavallo di uno Shire d’oltre due metri, irrompeva nella mischia con la violenza deflagrante di un fortunale oceanico. Era il primo a sguainare la spada, l’ultimo a riporla; dai suoi uomini pretendeva obbedienza, ma prevedeva le insubordinazioni con l’invincibile fascino del suo carisma.
Era un drago, era un uomo, era la migliore macchina da guerra al mio servizio ed io lo sapevo: lo pensavo persino il terribile giorno in cui Vinus mi umiliò per l’ennesima volta, massacrandolo.

*

Il mattino fatale profumava di luce, eppure seguiva una notte in cui ero stata funestata da mille incubi. Mi ero svegliata che il sole non era ancora sorto, lucida e terrorizzata, poiché avevo imparato a confidare nell’istinto prima ancora che negli occhi: in quell’alba primaverile, il nucleo più primitivo – dunque ricettivo – della Makemagistra di Trier ululava.
Mi ero abbigliata senza cura particolare, annodata i capelli alla nuca e avviata per le scale che conducevano alla Torre del Consiglio. Era il punto di osservazione più alto della Capitale ed era anche il luogo in cui avevo cominciato a rifugiarmi quando ne avevo abbastanza di tutto – dei miei fallimenti, in particolar modo.
Avevo rinunciato a tornare a casa: ero una creatura del Collegio, una dittatrice di rovine.
Respiravo avide boccate di un’aria ancora incontaminata con gli occhi chiusi. Non ero mai stata sul golfo di Loch, né forse avrei mai visto il mare, ma la mia immaginazione correva libera com’era stata, secoli prima, la fantasia di Leonar.
Avevo nostalgia di quei miti e dell’impudenza della Leya bambina; mi mancava l’ottimismo sconsiderato dell’età, la prepotenza di una mano sempre tesa. I miei, di palmi, erano invece rimasti vuoti.
Come un letto troppo freddo.
Come un cuore avvizzito precocemente.
Strinsi i denti, poi mi rilassai; convivevo con la tetraggine di quei pensieri da tanto tempo che ero ormai abituata a considerarli parte di me. Avevo fatto l’amore con un uomo, poi con il suo ricordo; infine mi ero portata a letto il fantasma scheletrito di un’improbabile vendetta: anche quella era Leya di Trier.
Forse era tutto quel che il Destino aveva stabilito che diventassi.
 
Invece no.
 
A sorprendermi, all’improvviso, fu un rumore sordo: un brontolio chioccio, di quelli che preparano i rovinosi acquazzoni estivi.
Sollevai le palpebre, il cuore in gola e il fiato corto.
Chiunque abbia avuto in sorte un presente di guerra, sa che l’esercito non lo misuri dai capi, ma dalla polvere, poiché quella è la prima immagine del nemico che colpisce i tuoi sensi.
E polvere fu: un’impenetrabile coltre di rena rossastra.
Rimasi a fissarla immobile, impietrita dall’orrore prima ancora che dalla sorpresa, poiché la cupa livrea del Drago Nero, ancora invisibile sulla distanza, era un fantasma onnipresente ai miei occhi.
 
Io sono la Magistra. Io sono la rocca di Trier.
 
Quel pensiero mi folgorò, risvegliando l’orgoglio. Senza indugiare, riparai nel mio studiolo, indossai la cotta di glythanium e mi assicurai alla vita il pugnale che Rael mi aveva donato davanti alla pira di Lukas. Doveva bere il sangue di mio fratello, ma io l’avevo nutrito d’odio: più che un’arma, era un terribile memento.
Ovunque, frattanto, risuonavano le grida delle sentinelle.
Trier era disseminata di postazioni di guardia, poiché contro l’armata di Koiros l’unica risorsa spendibile era una disperata difesa. Avevo speso mesi a studiare un sistema di allerta efficace, affinché la popolazione potesse trovare per tempo riparo; avrei dovuto compiacermi del mio ingegno e della mia previdenza, ma non ero impazzita sino a quel punto: a me spettava guidare l’esercito alla vittoria o alla morte.
“Puntate gli specchi ustori,” ruggii, dopo aver raggiunto la Torre di Mezzanotte – quella, cioè, che affacciava sul fronte da cui giungeva il nemico.
I liocorni erano un’unica massa mugghiante. I loro lunghi e possenti colli si tendevano al cielo, mentre nell’aria esplodeva un suono che somigliava ora al ruggito di una fiera, ora al bramito di un cervo.
A cavalcarli, impalpabili fantasmi.
“Demoni delle falesie,” sibilò Nephyl di Thula, primo generale dell’esercito di Eleutheria. “Il fuoco non basterà.”
 
Capelli d’argento e penetranti occhi neri, era uno dei pochi soldati che non mi apostrofasse con un misto di timore e di rispetto. Più che l’alto grado e l’esperienza, a pesare era il mio sesso: ai suoi occhi ero una donna arrogante, presuntuosa e tanto pazza da voler giostrare con la Morte.
Be’, forse l’istinto non l’ingannava del tutto, ma non gli aveva comunque raccontato abbastanza di me.
Ero arrogante, sì, ma appassionata. Presuntuosa ma capace.
Pazza, d’accordo, eppure determinata.
Soprattutto, odiavo quel maledetto dracomanno con un’intensità che nessun altro condivideva.
“Sarà pur sempre qualcosa.”
Nephyl mi fissò ostile. Sostenni il suo sguardo, sprezzante.
“I demoni delle falesie non avvertono il dolore. Non li fermeremo mai, se…”
Indurii la mascella. “Voglio vederli bruciare come torce. Il dolore… Arriverà poi.”
Nephyl aprì la bocca, ma non liberò un suono.
I miei occhi si perdevano lontano, là dove la polvere si rarefaceva poco a poco modellando i contorni della mia nemesi.
Eccolo, il Drago Nero. Stava arrivando.
“La falange dei picchieri in prima linea e due carri coperti. Uno dal lato destro, l’altro sul fianco mancino.”
Il Generale annuì e si fece più attento.
“Per nessuna ragione si spezzino le fila; l’unica garanzia che abbiamo di risparmiare uomini, è che il muro di carne non lasci intravedere crepe.”
Mi espressi con respingente freddezza, quasi stessi parlando di fango e sassi.
Sulla mia lingua, la Morte era già arrivata.
“Arretrata, si schiererà la cavalleria; se quel cane di Venusya sfonderà il primo avamposto, lo chiuderemo a tenaglia.”
Non vedevo uomini ma pedoni sacrificabili. La mia mente obnubilata dall’odio ragionava secondo direttrici che non chiamavano in conto il cuore, ma un raffinato, astrattissimo calcolo.
Nephyl inghiottì ogni pregiudizio e decise di piegarsi al mio volere: di una donna non avevo più nulla. Neppure l’odore.
“Gli arcieri prendano posizione,” ingiunsi ancora, misurando l’ideale perimetro del campo di battaglia. Non dovevo permettere al nemico di raggiungere le porte di Trier: ne andava del mio orgoglio.
“Cominciate ad accendere i fuochi.”
Il mio cuore pompava con un’energia che credevo di aver dimenticato. Il sangue mi affluiva alle guance, restituendomi colori che avevo perduto. Non era l’eccitazione dell’amore, ma di un sentimento altrettanto divorante.
Vinus mi restituiva alla vita, per quanto terribile fosse ammetterlo.
Lo vedevo, ora, lontano eppure vicino.
L’armata dei liocorni neri distava appena una lega: l’ultima sosta prima
del cozzo.
L’ultimo respiro prima della fine.

*

“Eleutheria!” gridai dall’alto della Torre. Ai miei piedi, l’esercito schierato.
“Che siano demoni o uomini, che ci maledicano o ci trafiggano, non passeranno!”
Il vento soffiò più forte. Il nodo dei miei capelli si sciolse, liberando in un cielo dall’azzurro irreale ciocche rosse come il sangue che sarebbe stato versato.
Non avevo più paura.
L’ultimo grano della clessidra era caduto, svuotandomi d’ogni sentimento – se non l’odio.
“Soldati! Al vostro fianco combatterò fino all’ultimo alito, aspetterò la notte e ne spierò le ombre senza paura. Nel giorno del Giudizio; nel nostro ultimo giorno, Eleutheria, insieme marceremo ancora su terre libere, o ci arrenderemo alla morte.”
Chiusi gli occhi, respirando quell’aria salmastra che sapeva di sole e di lacrime, poi sguainai il pugnale, puntandolo al cielo.
“Eleutheria!” urlai.
A quel punto, Vinus sollevò la spada di Zauror. La spada che mi aveva rubato Lukas.
Eravamo pronti a cavarci il cuore.

   
 
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