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Autore: Callie_Stephanides    08/09/2011    11 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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4.
Il giorno del Giudizio

Ai tempi in cui ero ancora innocente e languivo, annoiata, sui banchi dell’Accademia, la Catottrica costituiva solo una delle innumerevoli discipline cui sarei stata iniziata.
A fondarla, come testimoniavano le pergamene custodite nel cuore della Biblioteca del Consiglio, Magister Jakob.
Padre venerabile d’Eleutheria, mistico e scienziato, Jakob di Trier era stato il primo a interrogarsi sulle proprietà ottiche degli specchi, osservando come certuni fossero in grado di concentrare in un unico punto – che chiamò foco – i raggi della stella.
L’ottica delle lenti ustorie, ripresa dai suoi successori, fu perfezionata da mio padre, che votò allo studio degli Specula buona parte della vita. Studiando le proprietà focali della parabola, Leonar scoprì che il fuoco di un paraboloide di rotazione corrispondeva al punto di riflessione dei raggi solari paralleli all’asse di simmetria, e che dunque uno specchio parabolico era una variante più efficace del comune specchio piano.
La criticità dei suoi studi, tuttavia, stava nella realizzazione, poiché la bassa malleabilità dei metalli e delle leghe note rendeva improbabile, se non impossibile, la produzione di una lente di dimensioni utili. Perché, nei fatti, lo specchio ustorio riuscisse offensivo, il suo raggio doveva possedere un’ampiezza sufficiente a coprire, sulla distanza, una o due leghe.
Le misurazioni di Leonar rimasero a lungo oggetto di disquisizioni puramente accademiche, senza che nessuno percepisse l’urgenza di tradurle in una realtà di morte: la pace armata che aveva stabilizzato l’Eumene non imponeva la costruzione di nuove armi, quanto l’osservanza degli storici confini.
L’avvento di Koiros mutò ogni cosa.
La terribile guerra che avrebbe insanguinato il mio Paese, soprattutto, mutò me: fui io la regina degli Specula, io sciolsi i nodi che la pace aveva lasciato insoluti, costruendo un’arma implacabile come la mia sete di vendetta.
Con la scoperta del glythanium, il problema della laminazione delle lenti poté dirsi risolto: la nuova lega era resistente come l’adamanto, ma conservava dell’argento l’alta conducibilità termica e il massimo grado di riflettanza, era inoltre malleabile appena meno dell’oro, il che consentiva di usarla per forgiare specchi parabolici di grandi dimensioni.
Era già un successo, che preludeva a felici esiti tattici, ma non mi fermai. Non mi accontentavo della certezza di colpire: volevo che la cenere di Lukas fosse vendicata da un rogo prodigioso.
Uno specchio ustorio di grandi dimensioni, tuttavia, non poteva essere orientato da meno di dieci uomini; cominciai dunque a interrogarmi sull’utilità di un’arma che in azione si mostrava lenta e assai poco maneggevole.
L’armata dei liocorni neri era un’insidia cinetica; il punto di forza di Vinus, l’incredibile rapidità con cui scartava un avversario per trucidarne dieci. Un sistema di Specula fissi non poteva essere la risposta alla mia sete di vendetta: dovevo progettare una macchina di morte che mutasse di continuo angolo e bersaglio.
Approntai il Pentacolo con una tempestività profetica, poiché la mia ultima arma vide la luce un pugno d’albe prima che l’armata di Vinus inghiottisse l’orizzonte.
La struttura era composta di venticinque specchi piani, disposti su di un graticcio rotante pentagonale infisso su di un perno. La lente centrale serviva a dirigere il raggio riflesso sull’obiettivo, mentre un sistema di cinghie vi faceva convergere gli specchi laterali; il fascio così ottenuto aveva una potenza sufficiente a incendiare una torre mobile di venti piedi.

*

Quando l’assedio ebbe inizio, le mura di Trier erano tutte un rifulgere di specchi.
Il lucore del glythanium mi abbagliava, ma i miei occhi non lacrimavano; piuttosto, asciutti e rapaci, fissavano la piana e la polvere del nemico. Nephyl di Thula aveva ragione e tutto l’orgoglio del mondo non mi avrebbe permesso di smentirlo: il Pentacolo era un’arma efficace solo sulla distanza, né avrebbe risparmiato ai nostri soldati la mattanza dello scontro diretto.
Era quello che Vinus cercava, perché era un pazzo, sanguinario assassino; perché, soprattutto, sapeva di poter vincere.
 
“Morire non è il peggiore dei destini. Se da perdere non hai niente, è quasi un sollievo.”
 
Non lo conoscevo abbastanza da leggere nei suoi occhi quell’atroce verità. Se l’avessi fatto, forse avrei imparato a temerlo per tempo.

*

L’erede di Lephtys era una macchia nera, avvolta da fuoco e polvere. Colpiti, i demoni delle falesie ardevano con facilità estrema, consumandosi in corsa come candele. Nessuno, tuttavia, accennava a ritirarsi.
Di loro sapevo ch’erano creature dall’aspetto umanoide, ma dalle percezioni rudimentali; dei cinque sensi, non ne possedevano che tre: la vista, l’udito e l’olfatto.
Non provavano dolore, dunque erano immuni al suo naturale corollario – la paura.
Chi non ti teme, tuttavia, è un nemico che non puoi sperare di vincere.
Inghiottii quel pensiero come un fiotto di bile, senza allontanare lo sguardo dal campo di battaglia. Cominciavo a distinguere i liocorni del fronte più avanzato – le froge frementi, la bava sanguinolenta che schiumava ai lati delle fauci.
“Ritirate gli Specula,” ordinai. “Sono troppo vicini.”
Avevo sperato in una ritirata strategica, come già ve n’erano state in passato.
Quell’illusione, però, era durata un battito di ciglia: mi era bastato portare di nuovo lo sguardo alla polvere.
Erano troppi.
Koiros aveva emesso una condanna a morte.
 
Davanti alle porte, i picchieri serrarono i ranghi e si mossero come un unico muro di carne e glythanium.
Li spiavo dall’alto, lucidi insetti corazzati, e mi chiedevo quale legge della guerra avrebbe prevalso. Non potevo ignorare il valore dirompente della carica ma fidavo negli uomini di Nephyl.
“Mirate alle cavalcature,” ingiunsi ai balestrieri. “Se mettiamo in fuga i liocorni, neutralizzeremo il loro fronte.”
L’avremmo fatto, almeno, se quello fosse stato un esercito di esseri umani; purtroppo per noi, non lo era.
Non vi era nulla di prevedibile nella furia dell’Icengard.
Un suono metallico attraversò l’aria, costringendomi a proteggere le orecchie. Contro l’azzurro del cielo, spaventose quanto inaspettate, si profilarono dense ombre nere.
“Viverne!” urlarono terrorizzate le sentinelle, mentre il clangore delle armi cresceva, annunciando l’imminenza dell’ultimo, definitivo cozzo.
“Non distraetevi!” gridai, benché fossi la prima a tremare sotto lo sguardo di quegli orrendi rettili bipedi. “Usate gli arpioni e abbattetene quante più potete!”
Le ruote dentate dei carri coperti, frattanto, macellavano ai fianchi della fanteria i demoni tanto sfacciati da sfidare il genio della Makemagistra. Eppure non bastava, perché il Drago Nero era ancora là, in prima linea: intoccato.
“Servitemi la sua testa,” ringhiai, strattonando senza grazia un giovane arciere. “Lo vedi? È lui che voglio!”

*

Accecata dall’odio, mi spogliavo della dignità di un titolo con ignobile leggerezza. Una domanda, una semplice domanda mi avrebbe stretto alle corde della mia vulnerabilità: e poi, Leya? Quando sarà morto, tu cosa otterrai?
Nessuno, tuttavia, me la pose.
Non allora, almeno.

*

“Ma… Magistra, rischio di colpire il Capitano!” replicò il soldato.
Fu solo allora che me ne accorsi: Rael era ormai alle spalle del Drago Nero.
Vinus ne percepì la presenza e si volse con circospetta lentezza. La sua feroce cavalcatura ne assecondò gli intenti, completando un mezzo giro.
L’enorme Shire di mio fratello arretrò sbuffando, non appena il liocorno protese la chiostra dei denti acuminati per strappargli le labbra.
“Non avere paura.”
La voce di Rael era controllata e soffice.
Vinus sollevò il capo nella mia direzione. Il suo sguardo mi attraversò come un dardo, benché ci dividessero oltre cento piedi. Più che vederlo, lo sentivo: me lo sentivo addosso.
“Ci rivediamo, traditore.”
Rael non mosse un muscolo. Come i cavalieri alle sue spalle sguainarono le spade, stese il braccio e fece loro segno di riporle. “No, non è per voi.”
I suoi occhi dorati cercavano quelli di Vinus senza paura.
“Possiamo risparmiare tempo e uomini, se ci battiamo noi due soli.”
L’erede di Lephtys rise: un suono stridulo, raggelante come il sibilo delle viverne.
“Un duello?”
Rael annuì.
Un campione per ciascun partito. Un drago nero e un drago rosso.
 
Nella stasi imprevista del campo di battaglia, le parole salivano al cielo sospinte dal vento.
“Non dire idiozie, fratello! La Makemagistra sono io e te lo nego!” urlai, sporgendomi dalla torre.
“Ascolta la donna uccello, traditore,” sibilò Vinus, “e forse sarai l’ultimo a morire.”
Rael, per tutta risposta, si sfilò l’elmo e scese da cavallo; la possente coda bruna tracciò in terra un ampio cerchio. “Non ho tradito il nostro sangue più di quanto non lo abbia fatto tu. Io, almeno, non combatto per l’assassino di mio padre.”
Aprii la bocca, ma non ne uscì un suono. Rael mi guardò: un’occhiata che non avrei mai dimenticato.
“Questa non è la tua guerra, Leya. Io non combatto per te.”
 
Se mi avesse schiaffeggiato, non avrei sentito altrettanto dolore.
 
In quel momento, una delle viverne vomitò nella mia direzione una colossale palla di fuoco. Qualcuno mi spinse a terra, schiacciandomi con una rapidità provvidenziale.
Era Jail.
“Sei la nostra Magistra, Leya, e questo non è il tuo posto. Tu devi vivere.”
Sembravano trascorsi secoli dai giorni in cui mi corteggiava con terribili, smielati sonetti, e forse era vero, perché dei ragazzi di allora non restava niente; non c’era più l’ottimismo scanzonato di Jail, come non c’era il sorriso impudente di Leya: il rogo di Lukas ci aveva consumato.
Indurii la mascella, pronta a berciare un nuovo ordine. La viverna, ritta come una gargolla sulla merlatura della torre, maciullava uno dei balestrieri. Più che le grida del soldato, a minare il mio coraggio fu il rumore d’ossa e cartilagini spappolate.
Non fui più in grado di parlare, perché mi piegai sulle ginocchia e vomitai tutto il mio orgoglio.
“Ripara nel palazzo dell’Accademia e comunica attraverso le staffette. Noi ti obbediremo, Magistra.”
Io ti obbedirò, Leya: sulle sue labbra, fioriva un’ultima dichiarazione d’amore.
Chiusi gli occhi e annuii. Ero una vigliacca, ma non volevo morire.
Quello mai.
 
Frattanto, Vinus accoglieva la provocazione di Rael e accettava il duello.
 
“Ti pentirai d’ogni tua parola, traditore,” disse, prima di smontare dal liocorno. Accarezzò il muso dell’orribile bestia, poi portò lo sguardo allo squadrone che rumoreggiava alle sue spalle. “Che nessuno intervenga. Avrete carne in abbondanza come avrò massacrato questo povero idiota.”
Rael non permise alle parole del Drago Nero di colpirlo: rimaneva immobile, in attesa. Nephyl e i suoi, intanto, si affrettavano a raggiungere il dongione e i camminamenti minacciati dalle viverne. Il fronte restava aperto, benché un duello fosse il cuore della strategia bellica di mio fratello.
 
Era pazzo, Rael?
Davvero credeva di poter uccidere Vinus in un paio di colpi?
No: era un dracomanno. A guidarlo, questa volta, era la voce della razza.
Gli ophelidi erano feroci, ingordi, primitivi, ma si nutrivano dell’etica della guerra e dell’eccellenza. Rael guardò – lui sì, lo fece – negli occhi di Vinus e vi riconobbe un istinto che era anche il suo: la fame di un rivale degno di questo nome.
 
Il principe di Lephtys si sfilò l’elmo; sulla lorica d’adamanto, le chiome scivolarono in rivoli mercuriali. La pupilla, sottile sino al punto d’essere quasi invisibile, fissava l’avversario con indicibile ferocia.
Nascosta nella rientranza di una caditoia, a soli nove, dieci piedi dai duellanti, potevo ora osservarlo come mai mi era stato concesso sino a quel momento.
Il Drago Nero era un fantasma, un demone del Mito, un obiettivo: pretendevo che fosse ripugnante, perché ero una donna immatura e superficiale. Odiare un mostro mi pareva facile, buono e giusto.
L’ennesimo colpo che Vinus inferse al mio orgoglio, fu costringermi ad ammettere che sì, era un maschio bellissimo.
Il Male aveva il sangue nello sguardo e il ferro nel braccio.

*

“Sono pronto,” ruggì e caricò Rael.
Mio fratello si preparò al cozzo come Ruben gli aveva insegnato: impugnando la spada con entrambe le mani e abbassando il baricentro.
Nonostante tutto, la potenza del colpo infertogli da Vinus lo fece indietreggiare di un paio di passi.
“Non sarà un primo sangue… Lo sai, vero?”
 
Al riparo dell’angusta nicchia, mi sentii mancare il fiato. Nutrivo una cieca fiducia nella forza di Rael, ma era anche vero che, sino a quel momento, l’avevo visto confrontarsi solo con eleutheridi. Non avevo una percezione realistica del potenziale distruttivo di un dracomanno, perché mio fratello per primo non era mai stato costretto ad attingervi.
Ora scoprivo com’era fatto un autentico ophelide: e tremavo.
 
“Non era nelle mie intenzioni,” rispose Rael, liberando la spada e pensandomi, forse, con gratitudine: se non avessi inventato il glythanium, a difenderlo sarebbe rimasto appena il moncone dell’elsa.
Scartò di lato, lungo il bordo del cerchio che aveva tracciato. La coda di Vinus ondeggiava alle sue spalle, quasi fosse dotata di vita propria. A differenza di mio fratello, che era stato allevato da esseri umani, il Drago Nero conosceva appieno le potenzialità di un corpo nato per combattere, e si preparava a sfruttarle – tutte.
Quanto in Rael discendeva dall’istinto, nel principe di Lephtys era calcolo: lo scontro non poteva che essere impari, perché impari erano le premesse da cui movevano gli attori principali.
 
Me ne accorsi, purtroppo, prima di mio fratello.
 
Gli avversari rimasero immobili per un pugno d’istanti, poi la coda di Vinus si abbatté sulla nuda terra, sferzandola con violenza. Una nube di sassi e polvere investì in pieno Rael, accecandolo.
A raggiungerlo, infine, fu la spada di Zauror.
 
“No, Rael, no!” gridai con un impeto che mi sorprese, poiché l’odio era stato un anestetico tanto potente che non riuscivo più a capacitarmi della violenza di una simile emozione.
Il dolore mi cadde addosso come una coperta bagnata, risvegliando quel nucleo tenero e sensibile che il gelo della vendetta aveva costretto a un sonno letargico.
Abbandonai la caditoia, divorando a rotta di collo le scale che aprivano sul barbacane; poi, sotto lo sguardo sgomento dei miei stessi uomini, oltrepassai la seconda cinta di mura e irruppi oltre la porta.
Frattanto, Vinus estraeva la spada dalle viscere di Rael.
Mio fratello cadde in ginocchio, sboccando un fiotto di sangue densissimo e quasi nero. Il Drago Nero passò la lingua lungo la lama, suggendone la traccia viscosa, poi afferrò per i capelli la sua preda.
“Non meriti di somigliare a Freil,” sibilò, posando il taglio sulla giugulare di mio fratello.
L’armata di Koiros rumoreggiava.
Gli uomini di Nephyl, invece, fissavano impietriti il massacro del loro campione.

*

“Lascialo, cane.”
 
La mia voce era appena un sussurro, i miei occhi, colmi di lacrime.
La balestra che avevo strappato a un soldato mi spezzava le braccia, né sapevo come indirizzare il colpo: tutto quel che vedevo, ancora una volta, era il rogo di Lukas.
Non potevo accettare un’altra pira.
Vinus mi squadrò. Le punte dei suoi candidi capelli erano quasi nere, zuppe del sangue di mio fratello.
Fece cadere la spada e aprì le braccia.
 
“Coraggio, donna uccello.”
 
Non eravamo mai stati così vicini.

   
 
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