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Autore: Onigiri    15/09/2011    1 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Legame
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(Le pietre blu) 











Capitolo 12









Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino

Victor Hugo





“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Il bambino rosso di Mila sparì presto e completamente dalla sua vista quanto dalle sue paure.

La pioggia se ne andò in fretta com’era venuta, ma i due giorni che seguirono continuarono a rimanere umidi come spugne. Passò una settimana esatta da quando Mila e Daniela erano arrivate a casa dello zio Amos, e il sole tornò più bollente che mai, con lo stesso effetto di un phon su un panno bagnato.

L’albero a due facce  –che in realtà era un giovane e comune castagno, e che di giorno non faceva affatto paura-  sembrava essersi rinvigorito dopo tutta quell’acqua, e quando ogni tanto sgattaiolava fuori uno sbuffo di vento più forte lo si poteva vedere scollarsi le gocce di dosso come la schiena di un cane peloso.

Se quei primi due giorni di umida calura sembrarono essere una manna dal cielo dopo tutto il freddo che aveva fatto, il terzo fu talmente intriso di aria secca e afosa da far ripetere continuamente a Monica che quasi quasi si preferiva il temporale.

Mila non soffriva molto il caldo, ma seguendo l’esempio di Monica aveva iniziato anche lei a lamentarsene in continuazione, ripetendo quegli stessi “Uffa, uffa, uffa!” che le aveva sentito sbuffare quando credeva di non essere ascoltata da nessuno.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Con un verso lamentoso, Mila tralasciò i suoi UffaUffaUffa! e quello che stava facendo per grattarsi nervosamente il braccio e le punture di zanzara che più le davano fastidio, ignorando la voce ormai lontana di Daniela che le diceva di non farlo: poi riprese da dove aveva interrotto, portando un piede all’indietro e saltellando con l’altro su e giù per le scale dell’ingresso. a volte preferiva alternare i passi tra la luce caldissima e gli angoli più ombrosi della scalinata, alla ricerca del fresco, Sebbene in testa avesse il suo cappellino per proteggerla dal sole, lo stesso che aveva portato il giorno in cui era arrivata a casa dello zio. Anche il vestito che aveva indosso era lo stesso: quello verde con un nastro a forma di fiocco cucito sul petto, quello buono. Solo che, al posto delle scarpe di vernice, aveva convinto sua madre a farle mettere delle ciabatte di gomma. Se muoveva velocemente le gambe in avanti e indietro, sentiva l’aria fresca attraversarle le dita dei piedi e farle il solletico: Mila scoprì subito di adorare quella sensazione e si ritrovò a far dondolare spessissimo le gambe per sollevare anche la gonna dalle ginocchia.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Poi di nuovo si fermò a metà gioco e si grattò un braccio, e quando il prurito serpeggiò fino alla caviglia si sedette per grattarsi anche quella. Cercò anzi di avvicinarsi il piede alla bocca per potersi mordere il punto fastidioso, e se sugli inizi riuscì anche nel suo intento la posizione risultò un po’ troppo scomoda per continuare a lungo.  Sbatté le mani sulle ginocchia con stizza, sbuffando ancora di fastidio –UffaUffaUffa!-  sia per il dolore, sia per il ricordo non piacevole del ronzio di zanzara che quella notte l’aveva mezzo svegliata innumerevoli volte. Nella tasca della valigia avevano lo spray anti-zanzare, ma prima di allora non c’era mai stato bisogno di usarlo, e quindi né Mila né Daniela aveva pensato di spalmarsene un po’ prima di andare a letto. Per fortuna in quella stessa tasca c’era anche uno stick per le punture: per fortuna solo in teoria, perché in pratica lo stick non funzionò affatto.

 

In effetti, era proprio quello stick la causa del nuvoloso malumore di sua madre. Se Oliver aveva il compito di raccontarle le favole, Daniela aveva quello di cantarle le canzoncine per bambini: e non c’era volta, quando una puntura di zanzara faceva piagnucolare e infuriare sua figlia, che lei non iniziasse a intonare un motivetto che sulle prime la faceva arrabbiare ancora di più, ma poi la contagiava e la faceva ridere con quelle parole dolci che le piacevano tanto.


 Era una zanzara in abito da sera,

se l’era messo per far bella figura

e se volava intorno ad una culla

una culla bella, con un fiocco rosa.

 E invece, quella mattina, a Daniela non era venuta nessuna voglia di cantare: Mila l’aveva raggiunta in bagno e l’aveva vista guardarsi allo specchio con lo stick rotto stretto tra le dita, e quando aveva provato a intonare i primi “Zinz Zinz” che comprendevano tutto il ritornello della canzone, Daniela l’aveva ammonita con una tale occhiata da Adesso non ho voglia di giocare con te! da zittirla quasi all’istante. Era rimasta ancora affacciata alla porta, osservando la figura di sua madre muoversi nervosamente dal lavandino al beautycase sul bordo della vasca da bagno, seguita sempre da un ombra di malumore che le faceva storcere i lineamenti in una brutta smorfia nervosa. Mila allora aveva riaperto la bocca per cantare di nuovo, forse pensando che questo avrebbe potuto farla tornare allegra: ma il  “Tesoro, vai a giocare!” che si sentì subito rivolgere fu così carico di nervosismo, come un palloncino in procinto di esplodere nel suo terribile boato, che le ghiacciò sul nascere qualsiasi parola sul fondo della gola. Un po’ delusa, un po’ arrabbiata, un po’ vogliosa di piangere, era uscita dal bagno e anche dalla camera, aveva superato il corridoio e le scale per finire senza accorgersene fuori anche dalla casa dello zio Amos.

Era rimasta seduta per qualche tempo su un gradino dell’ingresso senza far nulla, se non grattarsi le punture sul braccio e la caviglia, col mento sorretto sulle ginocchia e gli occhi rivolti al nulla.

Le ci era voluto un po’ per rendersi conto di trovarsi fuori di casa, all’aria aperta, dopo giorni in cui il massimo che aveva visto al di fuori della sua camera era stato il nido di rondini di Sofia. Sua madre aveva avuto un tale terrore di una ricaduta che da quando le era passata quella strana e brutta febbre non le aveva permesso di uscire neanche quando la pioggia se ne era andata: l’aria era ancora fredda, e bastava una piccola nuvoletta a coprire il sole per sentire la temperatura cadere a precipizio fino a far accapponare la pelle. Mila aveva trascorso quattro giorni (escluso quello in cui era ancora ammalata e l’unica cosa che aveva mangiato era stato un cucchiaio di sciroppo alla banana) rinchiusa in casa, respirando aria che sapeva soprattutto di corridoi chiusi e mobili antichi, e nemmeno se ne era accorta.

Ma ritrovandosi all’aperto e scoprendo quanto tempo era passato da quando aveva varcato quella soglia l’ultima volta, le si era gonfiato il petto di felicità. Presa da una frizzante frenesia era balzata in piedi e si era messa a correre per il sentiero che conduceva fino al cancello, e l’avrebbe percorso tutto se a metà strada il sole cocente non l’avesse convinta a tornare indietro per rifugiarsi all’ombra. La testa le aveva girato: non molto, ma abbastanza da convincerla a sedersi e passarsi le mani sulla faccia per togliersi di dosso il sudore. Poi lo stomaco aveva brontolato, perché a colazione aveva mangiato solo qualche biscotto e l’ora di pranzo si faceva sempre più vicina. Alla fine, quando si era sentita abbastanza meglio anche per ignorare la fame, si era alzata in piedi e aveva ricominciato a cantare.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”


Così volando però ve lo assicuro

aveva in mente un tenero pensiero:

voleva fare la serenata

ad una bimba che si era addormentata.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz!”


“Buongiorno, Massimiliana.”

Come una belva che balza sulla preda, l a voce dello zio Amos l’aggredì alle spalle, e Mila s’irrigidì sul gradino e si voltò di scatto verso la porta dell’ingresso. Amos era sulla soglia, ancora riparato dall’ombra e dall’aria fresca che si sentiva provenire da dentro la casa, con una mano sulla maniglia della porta e l’altra che reggeva un pacchetto di carta verdognola, di quelli da pasticceria. Le sorrise docile e Mila, con un nodo alla gola, si immobilizzò e cercò di farsi piccola fino a sparire nel suo stesso vestito: avrebbe voluto abbracciare Kala Nag e brandirlo come uno scudo, ma lo aveva lasciato qualche gradino più in basso, a fare la guardia al cappellino che non aveva più avuto voglia di indossare. Non riuscì a girarsi, a raggiungere il peluche e chinarsi per prenderlo: lo zio Amos aveva inclinato la testa verso una spalla, come faceva di solito, come per volerla guardare in obliquo, e Mila, di fronte a quel movimento insignificante, si sentì pietrificata come un topolino dallo sguardo di un cobra. “Cosa stai cantando?” le chiese, con quella sua amabile voce di miele e il sorriso caldo come una torcia, aspettando una risposta che però non arrivò. In effetti, se anche avesse voluto, Mila non avrebbe avuto nemmeno il tempo di aprir bocca senza essere interrotta dalla voce lontana di Daniela “…Mila? Mila è lì?”

Amos si scostò per far passare la cognata, ma non distolse lo sguardo da Mila fino a quando non fu Daniela a catturare la sua attenzione. La vide uscire con lo sguardo basso e una mano stretta tra i capelli della frangia, fermandosi oltre la soglia quando rimase abbagliata dalla luce troppo forte della mattina.

Non appena Daniela fu fuori dalla casa, Mila si lanciò contro le sue gambe con un urletto leggero e affondò il naso tra le sue ginocchia nude, così in fretta e così all’improvviso che sua madre per poco non perse l’equilibrio. “Mila, no! Mi fai cadere” esclamò, ma a cadere davvero fu solo la sua borsetta. Daniela si inginocchiò per raccoglierla, facendo staccare la figlia dalle sue ginocchia: l’aprì in fretta borbottando qualcosa tra sé e sé, frugandoci dentro fino a quando non tirò fuori il cellulare e rimase per un po’ a fissare insistentemente lo schermo. Quando si assicurò che non si era rotto, sospirò di sollievo e lo rimise a posto chiudendo per bene la zip della borsetta. Poi sollevò lo sguardo verso Mila, con ancora le mani aggrappate agli orli della sua gonna e le labbra contorte in una smorfia forse dispiaciuta,o forse solo capricciosa. Daniela sospirò una seconda volta e le accarezzò una guancia “Guarda come sei diventata rossa. Dove hai lasciato il tuo cappello?”

 Guardò Mila pensarci un momento, e poi voltarsi e trotterellare sui gradini fino a dove aveva lasciato Kala Nag. Non appena la vide mettersi malamente il cappellino in testa la raggiunse per aggiustarglielo. “Allora, siete pronte ad affrontare il sole?” Amos  si affiancò a Daniela e le sorrise dall’alto. Ma lei, non appena lo sentì avvicinarsi troppo, si alzò subito in piedi e abbassò subito lo sguardo nella direzione opposta. Nervosamente si portò una mano sulla frangia e tirò i capelli verso l’occhio destro, rispondendo al cognato solo con un cenno del capo. “Perfetto” esclamò Amos, non badando a quella reazione forse un po’ brusca. Iniziò a incamminarsi verso il cancello seguito da Daniela che teneva Mila per mano, e Mila che con la mano libera reggeva la proboscide di Kala Nag.

Se anche Amos doveva star scherzando, stare sotto quel sole cocente si rivelò davvero un’impresa: Mila, soprattutto, era stata coperta sopra il vestito con un’altra maglietta a maniche corte, maglietta che Daniela non le permise di togliere neanche quando lei iniziò a lamentarsene con sbuffi sempre più forti. Persino con Natalie, quando quella mattina si erano incrociate nel corridoio e lei le aveva detto d’aver visto Mila uscire dalla camera e che forse i vestiti che aveva indosso erano troppo pensanti, Daniela aveva risposto con un secco “E se si riammala?”.

Camminando a fianco del cognato con i capelli puntati a coprirle metà faccia, e ripensando a quella breve conversazione con Natalie, si sentiva troppo nervosa per pensare di essere stata ingiustamente aspra con la donna. Era ancora nervosa: non solo per il suo stick rotto, o perché aveva dormito poco, o perché il Dottor Diana di cui le aveva parlato Amos gli aveva telefonato dicendo che non sarebbe potuto venire in quella settimana a causa di un chissà quale impegno personale.

Era per l’incubo che aveva fatto.

Nel sogno aveva nove o dieci anni, suo padre giocava a carte con la zia Manuela e la signora Titti. Ma la signora Titti era anche la morte: l’aveva capito dal com’era vestita, con un mantello nero col cappuccio che le lasciava scoperta solamente la punta del naso. Non le aveva visto gli occhi, ma sapeva che erano lì, nel buio tetro del cappuccio, vacui e severi come li ricordava: ne aveva percepito la stessa carezza squamosa di un tempo, quando si era voltata verso di lei e l’aveva osservata. “Finisci la tua gazzosa, piccina, che poi vengo da te e ti do un bacio”

“Perché?” aveva chiesto lei, ancora bambina ma con la sua solita voce da adulta. Allora la stanza si era tinta di bianco, come se stesse nevicando dentro casa, e la morte aveva riso battendo forte i denti come fossero stati tamburi. Suo padre e la zia Manuela, muti e tranquilli, si erano messi a bere il caffè passandosi a vicenda le zollette di zucchero, e cercando, così facendo, di sbirciare ognuno le carte dell’altro. Senza badare assolutamente a loro, la morte si era alzata con un sibilo lunghissimo, rovesciando all’indietro la sua sedia che però cadendo sul pavimento non aveva fatto nessun rumore. Le si era portata di fronte, alta come un gigante, e aveva riso ancora mentre la neve diventava nera e si mischiava col colore del suo mantello, leggero e librante nell’aria come ali di farfalla. Si era abbassata su di lei, alitandole sul viso l’odore di lavanda e formaggio che accompagnava sempre i passi della signora Titti. Con una lenta, innaturale scossa del capo si era scoperta il volto. Non era la signora Titti.
La morte era Oliver.

Quando si era svegliata, un mal di testa fortissimo aveva minacciato di spaccarle il cranio. Ma era passato non appena era riuscita a mettere i piedi fuori dal letto per cercare un’aspirina nella valigia. Mentre sua figlia dormiva ancora, si era tuffata in bagno con un passo barcollante, si era aggrappata al lavandino e aveva immerso la faccia nell’acqua ghiacciata. Guardandosi allo specchio con le guance ancora gocciolanti, si era sentita confusa, poi spaventata. Poi, semplicemente, nervosa. 

Era nervosa, ed evidentemente anche Amos se ne accorse quando tirò fuori dalla tasca il telecomando per aprire il cancello “Stanotte sono stato sveglio a causa di una zanzara” spiegò, aspettando che Daniela alzasse lo sguardo verso di lui prima di  continuare “non mi ha punto, ma ho avuto il mio bel da fare a cacciarla via.”


Povere zanzare, non sono mai gradite

anche se sono in abito da sera.

E sul muro bianco ecco all’improvviso

 l’ombra di una mano, una grande mano.

A Mila tornò in mente la sua canzone, e per un momento in cui riuscì a ignorare il caldo riniziò a ripeterne il motivetto da dentro le labbra serrate. Cercò lo sguardo di sua madre, come sperando che anche  a lei venisse voglia di cantare, ma Daniela aveva già voltato il capo in un’altra direzione senza guardare nessuno, la mano sempre stretta tra i capelli che le coprivano un occhio.

Il cancello si aprì con uno stridulo metallico che fece scappare due uccellini dall’albero più vicino. Come il giorno in cui erano arrivate con taxi, la strada fuori era ombreggiata da un tetto di foglie intrecciate tra loro come se si stessero abbracciando, e così senza vento rimanevano dritte e immobili sui loro rami come cani che puntano una volpe. Il caldo non diminuì molto, ma abbastanza per far tirare sia a Mila che a Daniela un sospiro di sollievo. Amos, al contrario, non ne sembrò sentire la differenza: in effetti, nonostante la sua camicia avesse le maniche arrotolate poco sotto i gomiti e il colletto aperto per due o tre bottoni, Daniela non riusciva a capire come facesse a non provare comunque del caldo, o come la sua pelle non sembrasse avere nemmeno un grammo di sudore o una macchia di abbronzatura. Quando cercò di ricordarsi se anche Oliver non soffriva mai il caldo –e trovò strano il non riuscire a ricordarlo- , si accorse che Amos la stava osservando “Voi avete avuto zanzare?” le chiese, docile.

E lei avrebbe voluto sparire mentre annuiva e abbassava lo sguardo, e cercava ancora una volta di coprirsi l’occhio con i capelli –perché proprio sulla palpebra doveva essere punta? Perché proprio quel giorno che andavano a trovare delle persone l’occhio destro doveva gonfiarsi come una pallina da golf?

Si vergognava che Amos la vedesse in quello stato.

Si vergognava del fatto che non voleva che Amos la vedesse in quello stato.

“Sì… ci hanno tenuto un po’ sveglie, e ci hanno anche punto” poi cercò di metterla sul ridere e di alzare lo sguardo, ma senza togliere la mano dalla frangia “mia nonna diceva che se non ti pizzicano almeno un po’, allora non sei buono neanche di spirito.”

 “Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”


Ma la zanzara, più furba e più spedita

riuscì a sfuggire a quelle cinque dita,

e dopo un poco, indovinate!,

la serenata la volle fare a me.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Mila camminò saltellando sulla punta delle ciabatte e con Kala Nag ben sorretto per il lungo naso di stoffa, fino a quando il caldo non tornò a prendere il sopravento e a farle sfumare la più piccola voglia di muoversi. E se Amos e Daniela sembravano avere tutta l’intenzione di passare quel tragitto chiacchierando, il più delle volte lei non glielo permise: si lamentò perché voleva togliere la maglietta, perché aveva sete e le faceva male un dito, e ogni tanto inchiodava i piedi sull’asfalto e tirava il braccio di sua madre che la stava tenendo per mano. Dopo molte lamentele e diverse occhiate esasperate rivolte al cielo, alla fine Daniela l’aveva presa in braccio, e dall’alto Mila aveva potuto guardarsi attorno con maggiore attenzione. Non c’erano sempre alberi sul ciglio della strada, ma a volte a far loro ombra erano i muretti più alti delle case che stavano sorpassando. Da dietro una rete a rombi verdi Mila riconobbe una villetta che aveva visto da dentro il taxi nel viaggio di andata, quella dalla strana forma squadrata e con la piscina in giardino. Riuscì persino a intravedere una poltrona di gomma rosa dondolare nell’acqua, e qualcuno –un uomo, a giudicare dal taglio del costume-  avvicinarsi al trampolino con un asciugamano sotto braccio. Venne anche a lei voglia di tuffarsi in piscina: provò a guardare sua madre per chiederle se potevano andare anche loro, ma tutto ciò che le scappò dalla bocca fu uno sbadiglio piuttosto rumoroso, che attirò comunque la sua attenzione. Daniela studiò la sua espressione un po’ stanca e le sfiorò il naso con un bacio. “Non hai dormito bene? Hai sognato che le zanzare ti mangiavano tutta?” scherzò. Le tornò subito in mente l’incubo che aveva fatto, con il rumore dei denti della morte che ancora le suonava dentro le orecchie, e sentì le ginocchia tremarle al solo ricordo.

“No” rispose Mila, distraendola da quei pensieri, e poi scosse il capo. “io ho sognato che, uhm… c’era tipo una signora che stava piangendo.”

Daniela alzò un sopraciglio. ‘Di nuovo?’, avrebbe voluto chiedere, perché era almeno la seconda volta che sentiva sua figlia dire d’aver sognato una donna che piangeva. Ma il “Siamo arrivati” di Amos frenò ogni sua domanda sul nascere.

Daniela rallentò il passo e si voltò verso dove le sembrava che Amos stesse indicando “Che bella casa” commentò, dirigendosi verso un cancello. Ma Amos le sfiorò un braccio per fermarla. “Non questa, Daniela. Casa Masini è quest’altra” e indicò il muretto di pietre dall’altra parte della strada, con un sorriso bonario sul volto. Daniela arrossì all’istante. Avrebbe voluto ripetere il “Che bella casa” anche per quella giusta, ma preferì seguire il cognato senza fiatare.

Casa Masini era circondata da un prato di margheritine di campagna, con una panchina, uno scivolo arrugginito, due tricicli e altri giocattoli dall’aria vecchia sparsi qua e là in modo disordinato. La casa, da lontano, sembrava una specie di cubo schiacciato, e con quello strano colore giallognolo pareva fatta più di pan di spagna che di mattoni. In effetti, con le serrande rosse ai lati delle finestre e la punta di due ombrelloni che spuntavano dal terrazzo del tetto, a Daniela dette quasi l’impressione di una torta con le candele e le ciliegine. Si rivolse ad Amos per fargli notare quel particolare, ma la scoccata del cancello appena aperto la interruppe prima ancora che riuscisse ad aprir bocca.

Il signor Orazio Masini andò loro incontro con una mano sepolta tra la barba del mento e gli occhi socchiusi per via della luce troppo forte. Indossava solo una canottiera e dei pantaloncini che, un tempo, dovevano essere stati arancioni, insieme a delle ciabatte di gomma che cigolavano in un forte e fastidioso gnekgnek ad ogni passo sull’asfalto. Orazio Masini era vecchio, e in un certo senso aveva anche qualcosa di minaccioso: forse per quelle profonde rughe rivolte all’ingiù, o per i capelli bianchi che sembravano tagliati con un coltello. Ma erano le braccia pelose e magre con i gomiti sporgenti, e la schiena curva come un uncino i particolari che più risaltavano del suo aspetto. In un istante, nel guardarlo zoppicare verso di loro, a Mila tornò in mente la caverna piena di cose, la girandola di fuoco, il signor Moccio. Ma fu un momento così breve che quasi dubitò ci fosse mai stato.

Orazio li raggiunse, si fermò e rimase in silenzio, dette un colpo di tosse e solo allora parlò, con una voce profondamente catarrosa “Scusate, ma io ora devo uscire. Se andate dritto forse trovate Federica.”

“Buon pomeriggio, Orazio. Come stai?”

Orazio Masini non rispose alla domanda di Amos, né si scomodò per salutarne la cognata o la nipote: con un cenno della testa e quello che sembrava un incrocio tra un altro colpo di tosse e un grugnito, li superò e si avviò per il sentiero, verso la parte opposta dalla quale loro erano arrivati. Daniela, fissandolo allontanarsi senza dir nulla, rimase così interdetta da quella scena che per un attimo credette di essersi immaginata tutto. Guardò Amos, senza parole, cercando una spiegazione che però lui non le dette: si limitò a mostrarle un sorriso paziente, come per dire che “Ha sempre fatto così!”, e a incamminarsi verso la casa con passo tranquillo, come se nulla fosse successo. Daniela lo seguì titubante con ancora sua figlia in braccio “Ma… dov’è andato?”

“Ti dirò la verità, non ne ho idea. Forse ce lo spiegherà Federica: è quella laggiù.”

 

E proprio nel momento in cui Amos indicò la casa, dalla porta in lontananza sbucò fuori una donna, che subito corse loro incontro in barcollante equilibrio su delle ciabatte troppo grandi per lei. “La figlia di Orazio” spiegò Amos all’orecchio di Daniela, prima di fare un passo avanti e allargare le braccia. “Se diventi così bella ogni estate dovrei farvi visita più spesso.” “Oh, Amos, sei il solito!” Federica lo raggiunse e si lasciò abbracciare, senza far caso a Mila o a Daniela che nel frattempo stavano studiando la sua figura da lontano. Era una donna alta e bionda, probabilmente bella: non riuscirono a capirlo subito, perché se cercavano di soffermare lo sguardo sul suo viso, entrambe venivano sempre distratte dal forte luccichio dei suoi enormi orecchini dorati. Di certo era più grande di Daniela, almeno di una decina d’anni: più che dal viso, lo si poteva vedere dalle vene troppo gonfie sul dorso delle sue mani.

“Ma dov’è mio padre?” Federica accettò il pacchetto di pasticceria da Amos e si guardò attorno “Non vi avrà lasciato venire fin qui da soli?” “Orazio aveva un impegno, a detta sua. Ma non preoccuparti, come vedi non ci siamo persi” Amos esibì un sorriso smagliante che però lei non ricambiò affatto. Scosse la testa “E’ il solito. Scusatelo” e per la prima volta si rivolse a Daniela e sua figlia “E’ uno di quei trogloditi uomini di campagna che non sanno neanche cosa sia il galateo.” “…come mio padre. Ma lui era cittadino.”

Federica rise della battuta di Daniela e le si avvicinò portandosi la treccia dietro una spalla. Nel guardarla meglio in viso, anche se era bionda, a Mila ricordò moltissimo il cartone animato di Anna dai capelli rossi. “Molto piacere. Io sono F-“

Si bloccò, e a Daniela non servì nemmeno seguire il suo sguardo per capire cosa l’avesse fatta fermare.

Entrambe, con un’identica espressione sorpresa dipinta sul volto, si accorsero di star indossando una gonna dello stesso colore azzurro. Dalle stesse pieghe un po’ all’insù sugli orli, dalla stessa tasca a forma di fiocco sul fianco sinistro, della stessa marca e, probabilmente, della stessa identica misura. Federica e Daniela studiarono ciascuna la gonna dell’altra, poi la propria. Poi si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere quasi nello stesso momento. “Oh, cara, a quanto pare frequentiamo lo stesso negozio senza saperlo” “No, in realtà la mia è un regalo. Non ho idea da dove me l’abbiano comprata…”

Seguì una risata divertita, poi un po’ nervosa: alla fine, entrambe tacquero e nell’aria, per poco tempo, ci fu una specie di insopportabile silenzio imbarazzato.

“E tu chi sei?”

 Federica lasciò subito perdere la gonna di Daniela (ma solo dopo un’altra occhiata attenta, come cercando un qualche dettaglio che non la rendesse più tanto uguale alla sua) e abbassò lo sguardo verso Mila: le sorrise, dandole una leggerissima carezza sulla guancia, e Mila arrossì cercando di ritirarsi meglio tra le braccia della madre. Fu Amos a rispondere per lei: “Federica, lei è la mia bellissima nipote di cui ti ho parlato: Massimiliana.”

“Oh, e bellissima lo è davvero” esclamò Federica, esagerando con i complimenti che però risultarono graditi.

“Sai, Massimiliana, io ho una figlia della tua età.”

“Davvero?”

“Sì, davvero.”

“E ce l’avete la piscina?”

Mila!”

“…a dire il vero fino a ieri avevamo una piscina giocattolo, sapete, quelle di gomma, per bambini. Però si è bucata e papà l’ha dovuta buttare” Federica raddrizzò il busto e con la mano indicò la porta di casa “Ma non stiamo qui, che c’è caldo. Accomodatevi, così vi offriamo qualcosa da bere.”

Federica Masini aveva tre figli, due femmine e un bambino di nove mesi e mezzo, tutti quanti con i suoi stessi capelli biondo sabbia. Suo marito era sardo, aveva un accento sardo e persino un nome tipicamente sardo: Baingio. Baingio Delogu.

Baingio gestiva un bar a Cagliari, qualcosa di poco più grande di un chiosco costruito su una di quelle strade che si affacciavano sul mare e su un pezzo di porto. Non era sempre facile per lui fare soldi, nemmeno in estate quando i turisti arrivavano a grandinate ed erano in molti ad apprezzare le sue macchinette fotografiche giocattolo, con dentro l’obiettivo le immagini già pronte dei luoghi più famosi del posto: anche per questo Baingio era un uomo abituato al lavoro quasi forzato, e concedeva alla sua famiglia appena due visite all’anno al nonno Orazio  -una a natale e l’altra, giusto per non litigare con Federica, tra luglio e agosto-  e mai che durassero più di sette giorni ciascuna.

In realtà, che fosse un barista e che fosse anche piuttosto attaccato al suo lavoro, poteva essere quasi intuibile dal modo in cui si presentò a Daniela dopo averle stretto la mano.

“Oh, Benvenuti! Che piacere. Prego, entrate pure, entrate. Sedetevi qui, che è più comodo: vi da fastidio l’aria condizionata? Allora, che cosa possiamo offrirvi? Acqua, aranciata, un po’ di succo di frutta? O un bicchiere di vino, che ne dite? Abbiamo anche dell’ottimo Cannonau rosso, dovete assolutamente assaggiarlo. Carmen! Ce la porti la bottiglia sul tavolo della cucina e qualche bicchiere? …Carmen, insomma, spegni quell’affare! Non vedi che abbiamo ospiti?”

Se non fosse stato per quella sua maglietta blu scuro, che stonava e risaltava fino a far male agli occhi coi colori autunnali delle poltrone, a malapena si riusciva ad accorgersi della silenziosa presenza di Carmen nella stanza. Non si era mossa di un centimetro dalla poltrona quando loro erano entrati, e a malapena aveva alzato il naso dal televisore per salutarli con un’occhiata quasi impercettibile. La voce di suo padre le fece trattenere a malapena uno sbuffo scocciato dentro la bocca: non spense la TV ma abbassò il volume di tre tacche, nascose il telecomando tra i cuscini e, senza dir nulla, si diresse a passo pesante verso quella che doveva essere la porta della cucina.

“No, aspetta un momento” la fermò Federica mentre sollevava Alessandro dal passeggino e lo faceva smettere di piangere ficcandogli un ciuccio in bocca. Mila studiò quel gesto rimanendo ancora nascosta dietro Daniela: l’impressione che le dava quel bambino era quella di una sorta di grosso, morbido bambolotto parlante, e il desiderio di giocarci si fece tale che dovette stringere con più forza Kala Nag per compensare almeno in parte quella voglia.  

“Penso io a servire da bere, tesoro. Torna a sederti”

“Carmen non muore mica se ogni tanto alza un vassoio.”

Federica lanciò un’occhiataccia in direzione del marito “Non dire sciocchezze. È estate anche per lei, poverina.” poi si rivolse agli ospiti con un sorriso cordiale “Accomodatevi pure, io torno subito”.

Amos fu il primo a sedersi sul divano, e Daniela imitò quasi subito trascinando Mila sulle sue ginocchia. Quando Carmen stava per tornare alla sua poltrona, il padre la raggiunse e artigliò il telecomando prima che lei riuscisse ad allungare la mano per sfiorarlo “Signorina!” la chiamò, spegnendo il televisore nello stesso tempo “Ora voglio che vai in cucina e aiuti tua madre a fare quello che deve fare. Siamo intesi?”

“Ma lei ha detto ch-” “Non replicare!” la ammonì alzando la voce “Fila ora! E prendi i bicchieri che sono nella credenza, non quelli sul tavolo.”

Carmen, senza essere vista dal padre, alzò gli occhi al cielo e gonfiò le guance come se stesse trattenendo uno sbuffo: non appena fu sparita oltre la porta, Baingio tornò a rivolgersi ai suoi ospiti.

“Scusate tanto” sorrise, imbarazzato “Sapete, gli adolescenti…”

Amos rise “Eh, che daremo noi per tornare così giovani, Baingio?”

“Lascia perdere, l’unica cosa che mi manca dell’essere giovane è sapere che ci vorranno anni prima di diventare vecchio.”.

Daniela ascoltò appena quel discorso, quando la sua attenzione si era già quasi tutta concentrata sulla figlia maggiore di Federica. La guardò sparire da dietro una porta e poi abbassò gli occhi verso Mila, togliendole il cappellino per accarezzarle i capelli. Provò ad immaginare sua figlia a dodici anni: la immaginò con le unghie colorate, l’ombretto un po’ sbavato, l’ombelico scoperto e lo stesso sguardo annoiato che prima Carmen aveva a malapena staccato dal televisore. Pensò a queste cose, aspettando un qualche brivido di ribrezzo che però non si presentò. Lasciò perdere quelle considerazioni per studiare meglio l’ambiente in cui si trovava.

La casa, come Daniela aveva intuito guardandola dall’esterno, aveva un unico piano, ma era molto spaziosa. Osservandosi attorno non era neanche difficile immaginare che, se anche a viverci era suo padre, probabilmente era stata Federica ad occuparsi dell’arredamento: non solo non sembrava esserci davanzale o mobiletto senza sopra un vaso di fiori, ma anche le poltrone, le tendine, i cuscini, le abatjour, i due quadretti appesi dietro il televisore e persino il lampadario avevano forme o disegni di fiori dai colori di innumerevoli sfumature rosse e arancioni. Solo portandosi al centro del salotto, l’impatto con quell’arredamento fu tale che sia Daniela che Mila ebbero quasi l’impressione di essere entrate in una serra.

Baingio poi si piazzò d’un tratto di fronte a loro, catturandone subito tutta l’attenzione. “Oh, lei è Daniela?”

Daniela tolse Mila dalle sue gambe e si alzò frettolosamente dal divano. Di fronte a Baingio si ricordò della puntura di zanzara sull’occhio, e come aveva già fatto con Amos si affrettò a portare una mano tra i capelli della frangia per coprirsela.

“Sì, piacere.”

“…ecco cos’altro mi manca dell’essere giovane, il fatto che ero libero di conoscere belle donne come lei senza una moglie che rompesse le scatole!”

Il Ti ho sentito! che provenì dalla cucina fece ridere tutti, tranne Mila, che ancora nascosta dietro la gonna della madre stava ancora studiando la casa, e in particolare il passeggino vuoto e abbandonato di Alessandro, dove avrebbe voluto mettere Kala Nag e fargli fare un giro di tutto il salotto.

Baingio notò la sua occhiata distratta e si abbassò verso di lei. “E tu chi sei?”

“…Mila”

“Piacere” le accarezzò la testa con forze un po’ troppa forza “Quanti anni hai, Mila?”

“Ho sei anni e tre quarti!”

Baingio scoppiò a ridere. La sua risata era grossa e contagiosa, tanto che anche a Mila scappò subito un sorriso, seppur incerto “Ah, ma tu sei grande. Allora senti, te lo posso chiedere un favore di enorme responsabilità, Mila?”

Lei annuì subito: quell’enorme responsabilità le fece venire dei forti e piacevolissimi brividi fin dentro lo stomaco. Baingio la avvicinò a sé prendendola per la schiena e le indicò il corridoio che si vedeva da oltre la porta del salotto “Allora, fai attenzione: la vedi quella porta laggiù, quella marrone chiaro?” Mila annuì “Bene: lì dentro c’è mia figlia Bianca. Ha cinque anni e nove settimi. Ora, devi andare da Bianca e presentarti, e chiederle se potete fare un gioco insieme. Il destino della serata dei giochi è nelle tue mani, Mila: pensi di farcela?”

Mila non capì bene tutte le parole, ma le sembrarono buffe e rise. Poi girò il collo per guardare sua madre, che la incoraggiò subito “Vai Tesoro. Io ti aspetto qui.”

E Mila, con il suo elefantino stretto contro il petto e quell’enorme responsabilità che ancora le ronzava piacevolmente nelle orecchie, si ritrovò nel corridoio prima ancora di rendersi conto d’aver camminato.

In quel corridoio c’erano quattro porte in tutto, tutte socchiuse e tutte dall’aria troppo simile perché Mila riuscisse a capire quale fosse quella giusta. Girò su sé stessa guardandole una per una, spaventata e al contempo affascinata da quel posto nuovo illuminato appena da una finestra minuscola. Ma le bastò seguire la voce di Bianca per capire quale fosse la porta giusta..

“…un quadruplicante salto mortale eeeee giù nel cannone che Booom! lo fa volare e fa altri dieci salti e va nella rete, e tutti urlano yeeeee!

Mila si affacciò alla porta, e la prima cosa che la colpì furono i colori vivaci di una camera per bambini. Poi, di nuovo, la voce di Bianca.

“E ora arrivano gli animali feroci, guaaarg!, il coraggioso domatore arriva con la frusta prima che si mangino il pubblico: indietro bestiacce, nella gabbia, ma il coccodrillo scappa e cerca di mangiarsi lui, ma lui no, lo ferma col cannone e gli spacca i denti così gli fa mangiare le carote. Ma che succede? I panda sono finiti e bisogna volare in Africa per prenderne altri! Mieeeeeeeww! Si parte, a bordo, tra due mesi siamo in Africa!”

Ai piedi di due letti identici, sul pavimento legnoso c’erano due file ordinate di giocattoli: in totale c’erano due peluche, un trenino di legno, una Barbie, un mappamondo, un coccodrillo di gomma, una macchinina e uno zainetto con cucito sopra un pelosissimo orsacchiotto di stoffa. Bianca stava finendo di sistemare proprio quello zainetto, prima di accorgersi di Mila e fermarsi all’improvviso.

A guardarla, con quei capelli cortissimi e i pantaloncini, si sarebbe potuta scambiare benissimo per un bambino: con le gambe così sottili e le braccia lunghissime, poi, sembrava una specie di grillo, tanto da fare quasi impressione. Come vide Mila, la studiò da lontano come per essere sicura che non le saltasse addosso o all’improvviso non corresse per rubarle i giocattoli. Poi, in un modo un po’ sospettoso, provò ad alzare la mano e a salutarla. “Ciao”

“Ciao”

“Come ti chiami?”

“Mila.”

“E tua mamma?”

Mila si girò e allungò il dito per indicare la porta del salotto. Poi, guardando Bianca negli occhi e preso un poco di coraggio, provò a fare lei qualche domanda. “Tu hai davvero cinque anni e nove… settecimi?”

“Bho? Che cosa vuol dire?”

“Vuol dire che… uhm… che tuo papà mi ha mandato qui per giocare con te!”

“Ah!” Bianca annuì come se avesse appena compreso un qualche problema molto difficile. Poi, con un cenno della testa, indicò i giocattoli che aveva accuratamente posizionato sul pavimento “Lo vuoi fare l’aereo con me?”

 

Dopo un imbarazzato primo approccio, Bianca e Mila scoprirono presto di avere un’ottima intesa nello giocare insieme: subito si ritrovarono a fare le hostess in un aereo che aveva per passeggeri Kala Nag e altri otto giocattoli diversi, e Bianca si rivelò immediatamente essere un piccolo tornado di inventiva in fatto di giochi: quando fu servito il caffè a un panda fece finta che gli fosse andato di traverso e improvvisò subito una sorta di massaggio cardiaco, e l’aeroplano si trasformò immediatamente in un pronto soccorso. Non appena Mila, cercando un termometro per il mal di pancia, tirò fuori dall’armadio due vecchie e bellissime bambole di porcellana, la sala d’attesa dell’ospedale si tramutò in una piattaforma per sfilate di moda. Quando poi Bianca nascose la bambola che le piaceva di meno sotto il cuscino e gridò che una delle modelle era stata rapita dagli ufo, i pastelli che stavano usando come microfono divennero delle pistole a raggi fotonici d’ultima tecnologia, e il panda che prima avevano curato prese il ruolo di capo supremo degli alieni malvagi.

Aahh!” Bianca cadde teatralmente all’indietro quando il panda riuscì a spararle a una spalla “Muoio, per la barba di Merlino, mi ha morto dritto al cuore!” 

“Capitano, ti fa male il cuore?”

“Tantissimissimo. Ma se io ho ragione, e ho ragione” a Mila piacque tanto quell’ultima frase che decise di conservarsela per la prima occasione possibile  “la tua pistola ammazza gli alieni perché sono cattivi, ma noi siamo buone e a noi ci guarisce le ferite. Puntala qui così guarisco anch’io, qui, ecco!” 

Con quello stratagemma Bianca e Mila sopravvissero da immaginarie malattie incurabili almeno quattro o cinque volte ciascuna. Il gioco degli alieni, che includeva anche il saltare sul letto con le scarpe e raccogliere pezzetti di Lego dalla scatola per lanciarli su tutto il pavimento, fu quello che durò più degli altri, anche dopo che il panda fu fatto malamente sconfiggere da Kala Nag a furia di colpi di proboscide. Fu Carmen, e il suo grido quasi isterico che soffiò dalla soglia della porta a mettere fine al gioco. “Ma che cavolo di casino hai combinato?!”

Carmen, immobile sulla porta con le mani artigliate sui fianchi, osservava la stanza e sembrava quasi lanciare fulmini dagli occhi. Mila e Bianca, che erano sedute su un letto e stavano usando i cuscini come scudo, si fermarono immediatamente e saltarono giù dal materasso quasi nello stesso momento. La navicella aliena nella quale si stavano improvvisando i protagonisti di Star Wars tornò ad essere una semplice camera da letto immersa in un disordine terrificante. Carmen strinse le labbra e assunse un cipiglio ancor più minaccioso. Quando poi aprì la bocca per dire qualcosa si bloccò a metà parola, e il volto si scolorò d’un tratto.

Entrando nella stanza calciò con rabbia ogni giocattolo che le capitava tra i piedi, e allora Mila si affrettò a recuperare il suo elefante per nasconderselo dietro la schiena e impedirle di prendere anche lui.

“Queste…” Carmen si chinò per raccogliere una di quelle bambole che Mila aveva scovato in fondo all’armadio, e che ora era rimasta sul pavimento senza cappellino e con il vestito brutalmente sgualcito. Mila, sentendosi come un imputato in balia di un giudice spaventoso, indietreggiò appena e incassò la testa tra e spalle, pronta a beccarsi un rimprovero terribile. Invece, quando Carmen alzò lo sguardo dalla bambola, fu con Bianca che se la prese  “Queste sono mie! Quante volte te l’ho detto che non devi toccare la mia roba, Mostro?” 

“Non sono tue!” si difese Bianca alzando la voce con coraggio “Papà ha detto che non ti servono e che ci posso giocare io.”

“E invece sono mie, hai capito Mostro? E se le tocchi un’altra volta giuro che ti ammazzo!”

Carmen alzò la mano, come per darle uno schiaffo, ma Bianca le fece la linguaccia e, presa per mano Mila, la trascinò velocemente fuori dalla camera.

Corsero fino a quando non notarono le loro madri dalla porta della cucina, e allora ci si infilarono dentro, fiondandosi ognuna verso la sua per cercare un nascondiglio dietro le loro gambe.

 

Federica era andata a prendere la tovaglia per apparecchiare e Daniela l’aveva seguita poco dopo. Si era quasi abituata alla presenza delle domestiche di Amos che si occupavano di tutte queste cose, e per un attimo le era persino sembrato strano il non vedere Sofia o Monica con una pila di piatti sorretta tra le braccia passarle davanti per raggiungere il salotto. Aiutò Federica a scolare la pasta, a contare quante forchette occorressero, e a decidere se fosse meglio servire l’antipasto con le fette di prosciutto avvolte nei grissini o se nei rettangoli di formaggio. In tutto quel tempo, se anche la loro attenzione poteva sembrare rivolta a tutt’altra cosa, in realtà nessuna riusciva quasi mai a staccare lo sguardo l’una dalla gonna dell’altra. Fu come un continuo chiedersi a chi stesse meglio, a chi più donava l’azzurro, quale delle due sembrava più fresca d’acquisto e chi fosse riuscita a trovare delle scarpe che si intonassero di più con quel colore. Fu dietro quelle gonne identiche che Mila e Bianca andarono a nascondersi urlando e tirandone la stoffa.

“…Mila!” Daniela, che non si aspettava l’apparizione della figlia, quasi andò a sbattere contro il tavolo tanto fu lo spavento che prese. Federica sembrava essere più abituata di lei a queste entrate in scena, perché le bastò giusto sentire i passi delle bambine da lontano per lasciare il mestolo nella pentola e aggrapparsi al bordo del piano di cottura per non lasciare che Bianca le facesse perdere l’equilibrio. Con un sospiro abbassò lo sguardo verso la minore delle sue figlie “Bianca, che state combinando?”

“È stata Carmen!” piagnucolò lei sollevando la testa “ha detto che le bambole sono sue e invece me le ha date papà a me!”

“Sii gentile con tua sorella. Lo sai che è arrabbiata per Lucciola.”

Federica accarezzò il braccio della figlia, come per dirle di non starle così appiccicata alle gambe. Poi si rivolse a Daniela.

“Il cane” spiegò scuotendo il capo “è scappato l’altro giorno, mio padre lo sta cercando perché ha paura che sia ferito o che morda qualcuno. Carmen gli è molto affezionata, per questo è di cattivo umore”

A sentire quel racconto, Mila storse la bocca: lei odiava i cani.

Non ricordava bene, ma era sicura che una volta un cane avesse cercato di morderla, mentre era da sola con suo padre da qualche parte.

Bianca tirò di nuovo la gonna della madre “Mamma, ma le bambole sono mie anche se Lucciola è scappato, vero?”

“Bianca, per favore! Perché non accompagni Mila a lavarsi le mani? Tanto qui è quasi pronto.”

 

 

Dopo qualche parere discordante da parte dei due coniugi, finirono con lo mangiare in giardino, coperti da un enorme ombrellone che però poteva proteggere ben poco dal vento quando mandava loro addosso una delle sue poche soffiate bollenti.

Il pranzo comprendeva un antipasto di affettati e formaggio, gnocchi sardi al sugo che Daniela adorò subito, agnello al forno, pesce spada ai ferri e salmone al pepe rosa, lattuga e pomodori e un vassoio colmo di mele, arance, kiwi e banane.

Fu dopo poco l’arrivo a tavola degli gnocchi che Baingio iniziò a parlare del cane.

“Un bel weimaraner di quattro anni, lo dovreste vedere, è uno spettacolo! Orazio non voleva un cane di razza, dice che i meticci sono molto più fedeli e robusti”  rimase un momento in silenzio, come aspettando una risposta del suocero al suo commento: ma visto che Orazio continuava a mangiare senza neanche dar l’impressione di star ascoltando, Baingio proseguì “in effetti credevamo fosse un bastardino quando lo abbiamo trovato. E’ stato qui vicino, era dentro uno scatolone con altri due cuccioli già morti. Abbandonati, ovvio: certa gente tratta gli animali come fossero spazzatura.”

“Perché?” Mila allungò una mano verso il braccio di sua madre e le si avvicinò abbassando la voce “Perché come spazzatura?”

Daniela si limitò a risponderle passandole il tovagliolo sulla bocca per toglierle tutti gli sbavi di sugo. Anche Federica partecipava poco alla conversazione per stare appresso ai figli più piccoli, cercando di far stare Bianca composta a tavola e alzandosi ogni volta che Alessandro, che aveva già mangiato, piagnucolava dal passeggino senza avere alcuna intenzione di dormire.

“Com’è scappato?” domandò Amos bevendo un altro sorso di vino. Baingio scosse il capo “Non ne siamo sicuri, ma abbiamo trovato una fossa scavata vicino al cancello. Sembra strano a tutti che sia passato da lì, però non riusciamo a trovare altre spiegazioni. Non capiamo bene neanche il perché sarebbe dovuto scappare.” 

“Stai tranquilla, cara” Federica allungò una mano per accarezzare la guancia della figlia maggiore “vedrai che Lucciola tornerà a casa”. Carmen si scostò bruscamente da quella carezza e continuò a mangiare in silenzio, guadagnandosi una bruttissima occhiata che il padre le lanciò dall’altra parte del tavolo. “Comunque” continuò lui, staccando forzatamente lo sguardo da Carmen “Avete visto l’acquazzone di questi giorni? Non sembrava neanche estate” 

“Però a me manca un po’ il fresco” si intromise la moglie mentre avvicinava il bicchiere d’acqua alla bocca di Bianca “oggi c’è troppo caldo”

“Io preferisco così” Daniela mangiò un altro boccone e poi continuò “voglio dire, c’è caldo, ma è normale in estate: e almeno possiamo uscire e goderci un po’ il sole.”

“Giusto, Daniela. Sono d’accordo con te”

“Baingio ama il caldo solo perché la sete attira più clienti nel suo bar” scherzò Federica, e tutti, compresa Carmen ed escluso Orazio, si misero a ridere. Baingio alzò gli occhi al soffitto.

“In realtà” Daniela poggiò la forchetta dentro il piatto, provocando senza volerlo un lieve tintin che attirò subito l’attenzione di tutti  “lo capisco: io lavoro in un ristorante, e d’estate compriamo valanghe di gelato. Se non fa molto caldo e il gelato non vende, la proprietaria perde la testa. E’ capace di costringerci a farlo mangiare a familiari e amici con la forza pur di sbarazzarsene.”

Baingio annuì, facendo intendere che capiva perfettamente la situazione. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma la moglie lo precedette “E tuo marito?” domandò, sporgendosi verso Daniela  “anche lui lavorava in un ristorante?”

Mila, al sentire suo padre intromesso così bruscamente nel discorso, alzò di scatto il naso verso Daniela, guardandola bere un sorso d’acqua e poi scuotere il capo mentre poggiava il bicchiere sulla tovaglia “No” spiegò, tranquilla e sorridente. “Oliver faceva…”

A parte Alessandro, che dal passeggino aveva ricominciato a piagnucolare perché il suo koala di pezza gli era caduto a terra, tutti si zittirono, come se l’improvviso silenzio di Daniela avesse contagiato tutta la tavola. Con lo sguardo ancora fisso su Federica, aprì la bocca, la socchiuse, la riaprì ancora. E all’improvviso, abbassando la testa e girandola in un’altra direzione, iniziò a tossire con così tanta forza che Mila, al suo fianco, sussultò per lo spavento. “Oh, cielo!” Federica le accarezzò la schiena e la guardò premere le mani contro le labbra, sentendo sotto le dita le spalle brutalmente scosse dalla tosse. Amos, dall’altra parte del tavolo e con le mani intrecciate davanti al piatto, fissò la scena con attenzione, senza dire o far nulla. “Cara” insistette Federica, che si alzò dalla sedia insieme a Baingio e a Orazio, entrambi dallo sguardo spaventato. “Va tutto bene?”

“S...” Daniela scosse il capo, il volto coperto dai capelli e il petto che, pian piano tornava a respirare normalmente. Quando sentì che la tosse era passata, alzò il viso: tutta la faccia era completamente rossa, e se non fosse stato per il suo sorriso tranquillo si sarebbe potuto pensare che stesse per sentirsi male “…scusate… m-mi è andata l’acqua di traverso…” e rise, facendo intendere di star meglio, mentre l’imbarazzo le colorava ancor più le guance di rosso.

 

Bianca, che aveva osservato la scena con enorme curiosità, si voltò verso la sorella e la chiamò tirandole la maglietta “Ma sta per morire?” chiese. Carmen le lanciò uno schiaffo sul capo che la fece piagnucolare un po’, e le dette della cretina.

Baingio, come intuendo che la conversazione stava prendendo una piega indesiderata, cercò un’alta volta di cambiare discorso. “…non è questione di bar o gelato, comunque: se è estate deve far caldo, perché è così che deve essere!” e si rivolse alla persona sedutagli vicino “Amos, anche tu sei d’accordo, vero?”

“Veramente, ho sempre avuto una predilezione per i temporali” spiegò lui incrociando le mani sul tavolo. Il suo tono di voce era così ammaliante che tutti smisero di mangiare per ascoltarlo: tranne Mila, che quando incrociò lo sguardo dello zio ebbe quasi l’impulso di scivolare dalla sedia e nascondersi sotto il tavolo.

“Da ragazzo mi affascinavano molto. Mi dicevano di non avvicinarmi mai agli alberi quando c’erano i fulmini, ma era proprio lì che andavo: credo mi stuzzicasse l’idea di vederne uno prendere fuoco a causa di un fulmine”

“Da rimanerci arrosto” commentò Federica, ridacchiando, accompagnata da un leggero mormorio di consensi.

“Infatti, a volte ripensando a quello che facevo mi chiedo ancora come abbia fatto a rimanere tutto intero fino ad oggi. Poi, ovviamente, i temporali finivano e io ci rimanevo male. Niente più tuoni, niente più pioggia. Vedevo che tutto tornava in ordine, come sarebbe dovuto essere, e l’ho sempre trovato…” Amos si grattò il mento, come se stesse cercando la parola giusta da dare “…noioso.”

Noioso?” ripeté Baingio brandendo la sua forchetta “Perché mai? Come hai detto tu, torna tutto in ordine. Come dovrebbe essere. Cosa accidenti ci trovi di noioso?”

Amos non ebbe il tempo di rispondere, sebbene dal sorriso enigmatico che esibì non sembrava neanche molto intenzionato a farlo: Federica si alzò da tavola per ritirare i piatti vuoti e Daniela le dette una mano. “Baingio, hai tagliato la carne, vero? A quanti di voi piace l’agnello?”

 

 

Il pranzo si concluse con il caffè e i pasticcini al cioccolato che Amos aveva portato, insieme a un barattolo pieno di piccole palline gialle e rossicce alle quali Daniela non seppe dare un nome. “Polline” spiegò Federica aprendo il coperchio “Le ragazze ed io ne andiamo matte. Volete provare un cucchiaio?”

Mila aveva osservato quel barattolo di palline con gran scetticismo nello sguardo: l’aspetto le risultò molto poco invitante, e non avrebbe voluto neanche assaggiarlo se Bianca, che si infilava in bocca il suo cucchiaio come se fosse pieno di gelato, non l’avesse convinta a provarlo. Federica la imboccò proprio come aveva fatto con sua figlia, e il sapore che Mila sentì fu un po’ granuloso, non buonissimo ma nemmeno cattivo, di qualcosa che a tratti le ricordava l’arancia. A differenza di Carmen e Bianca decise di non accettare una seconda porzione. “Caspita” esclamò Daniela dopo che fu il suo turno di assaggiarlo  “Non sapevo fosse così buono. In realtà non credevo nemmeno che il polline si potesse mangiare.”

“Oh, anche noi lo abbiamo scoperto da poco” Federica ridacchiò  “Contiene molte vitamine e dopo pranzo fa bene alla digestione. E almeno è molto meglio di quelle porcherie piene di grassi che mangiano i ragazzini al giorno d’oggi”

“Spero che non ti riferisca ai miei pasticcini, Federica”

“Tranquillo, Amos” Baingio allungò la mano per afferrare il vassoio dei dolci e trascinarselo di fronte al piatto “per i miei figli che mangiano solo porcherie, posso sacrificarmi e mangiarmeli tutti io”

Bianca si alzò rumorosamente dalla sedia e aggirò il tavolo di corsa, fino a ritrovarsi dietro il padre e cercare di salirgli sulle ginocchia aggrappandosi alla maglietta. Baingio la sollevò da terra e lei iniziò a schiaffeggiarlo sulla testa gridando una serie di “No, no, anche io la voglio, la voglio la cioccolata!”.

La scena risultò abbastanza comica per sollevare una risata da quasi tutta la tavola. Sia Orazio che Daniela si limitarono a un sorriso divertito, senza esporsi troppo.

Mila, invece, guardò il tutto con un groppo incastrato in gola.

Veloce, afferrò un lembo di camicetta della mamma e la tirò a sé fino a quando Daniela non si accorse che la stava cercando “Tesoro, cosa c’è?”

“Pipì.”

Daniela si morse il labbro e si sporse verso Federica “Scusa, dov’è il…”

“Bianca!” esclamò lei senza prestarle attenzione “Ora lascia stare papà, e basta con quei dolci. Prendine uno e torna a sederti”

“Fede, non mi sta mica dando fastidio”  la ammonì il marito facendo accomodare meglio Bianca sulle sue ginocchia “e poi mica puoi pretendere di allevarla a polline. E’ una bambina, non un insetto.”

Federica gli lanciò un’occhiata furente: fece per ribattere, ma poi sembrò ricordarsi che Daniela la stava cercando. Così si girò verso di lei regalandole un largo sorriso “scusami… stavi dicendo?”

“Ehm, il bagno, per Mil-!”

“Certo, certo” Federica, senza lasciarla concludere, indicò la porta che dava all’interno della casa “andate dal salotto nel corridoio, quello dove c’è la cucina. Il bagno è in fondo, è quello con le figurine di Bianca attaccate dappertutto.”

“Forse manca la carta igienica.”

“No Baingio, l’ho appena messa io. Daniela, preferisci che ti accompagni?”

Lei scosse il capo e fece alzare Mila dalla sedia “No, grazie. Torniamo subito” disse. E tornarono davvero subito, ancor prima di avere il tempo di raggiungere la porta: il chachachichachà che proveniva dalla borsetta di Daniela la fece prima irrigidire sul posto, e poi correre subito verso il tavolo per recuperare il cellulare.

Non aveva dubbi su chi la stesse cercando: non tanto perché erano in pochi ad avere il suo numero, quanto perché era tipico della sua amica Vincenza cercarla all’ora di pranzo o quando era il momento meno adatto per ricevere una chiamata. E infatti fu proprio il nome Vincy ad apparirle sullo schermo e farle scappare un sospiro un po’ scocciato.

Federica, ancora seduta al suo posto, alzò un sopraciglio e si rivolse al marito “Non è la stessa suoneria del telefono di tua sorella?”

“Naaa, scherzi? Lucia non sa neanche di averlo il cellulare, se lo tiene in borsa con la vibrazione e non lo tocca più: a volte mi chiedo perché diavolo gliene abbiamo regalato uno.”

“Scusate…” Daniela recuperò frettolosamente il telefono e con la mano libera trascinò la figlia dentro casa. l’ultima cosa che Mila riuscì a sentire fu la voce di Bianca mentre si rivolgeva al padre: “Io al bagno ci vado già da sola.”

Daniela, con una mano che accompagnava la figlia e l’altra che cercava di trafficare coi tasti del cellulare per farlo star zitto, si accorse di aver raggiunto la porta del bagno solo quando Mila la fermò per le ginocchia e si fiondò oltre la porta. “Non vuoi che ti aiuti?” le chiese: ma lei scosse il capo con forza e, senza degnarla neanche di uno sguardo, le sbatté la porta in faccia senza complimenti.

La verità era che Mila non aveva davvero bisogno del bagno: solo, come ogni volta che il ricordo di suo padre si faceva più vivido, le era venuta voglia di nascondersi e stare da sola. Sedendosi sul pavimento, col mento poggiato sulle ginocchia e le braccia strette intorno alle gambe, normalmente sarebbe rimasta in silenzio, a guardare il nulla, e poi forse avrebbe pianto: ma quando alzò lo sguardo dalle sue ciabatte, i colori sgargianti di quel bagno sconosciuto la disorientarono tanto da farle quasi dimenticare il perché si fosse rifugiata lì. Soprattutto, la cosa che immediatamente catturò la sua attenzione fu quel lampadario assurdo e penzolante, a forma di bambola e con la lampadina sotto la gonna simile a un imbuto, che dall’alto la osservava con gli occhi appena storti e il sorriso simile a un bacio. Poi, c’era l’odore di limone, così forte e pungente che Mila ebbe quasi l’impressione di essersi seduta su del sorbetto. Per il resto, invece, non era poi molto dissimile da quello di casa sua: di forma quasi quadrata, con la finestra accanto al water e le tende della doccia dall’aria spessa come coperte. Per certi versi, se non alzava troppo spesso lo sguardo verso quella lampada strana, poteva anche far finta di essere nel suo bagno. Ma scoprì molto presto di non riuscire a farne a meno: quella forma la incuriosiva tantissimo, e le faceva chiedere se si potesse staccare dal soffitto per poterci giocare. Senza nemmeno accorgersene si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, provando a studiarla da una diversa angolazione. Ma tenendo il naso così sollevato non si rese conto nemmeno di dove stava andando, e in meno di quattro passi sbatté con la schiena contro il cassetto di un mobile. Dall’alto del mobile cadde giù un rotolo di carta igienica, che rotolò su tutto il pavimento in una lunga lingua rosa, fermandosi solo quando andò a sbattere contro la doccia. Nel guardare la scena, a Mila sfuggì un Ops! intimorito. Gettò un’occhiata alla porta chiusa, come per assicurarsi che sua madre non avesse sentito nulla: quando fu certa che nessuno si fosse accorto di nulla, si inginocchiò e cercò di rimediare a quel piccolo pasticcio. Più di una volta, tirando e recuperando la carta igienica, finiva col farla srotolare ancora più di prima, ma alla fine riuscì a raccoglierla tutta in un cumolo stropicciato e disordinato. Soddisfatta, Mila tornò indietro per rimettere tutto sul mobile, ma si accorse subito che era troppo alto. Allora aprì il cassetto più vicino e cercò di infilare tutto lì dentro, ignorando il fatto che fosse già colmo di asciugamani e che così facendo non si sarebbe chiuso neanche se lo avesse forzato. Quando cercò di spostare il rotolo nell’angolo più vuoto del cassetto, le sfuggì di mano e ruzzolò un’altra volta verso la doccia. Mila emise un mugolio infastidito e cercò subito di recuperarlo.

Le tendine della doccia si mossero da sole, e Mila si immobilizzò a metà strada.

In realtà non si erano proprio mosse: più che altro, avevano tremato, come se ogni nuvoletta disegnata sul tessuto di plastica fosse stata scossa da un minuscolo brivido di freddo. Poi nulla. Tornò tutto così normalmente fermo che quelle stesse nuvole che Mila era sicura d’aver visto muoversi, ora sembravano come guardarla per chiederle che cosa mai avesse visto di tanto bizzarro da fare quella faccia. Mila le osservò di rimando e arcuò un sopraciglio; fece un passo in avanti, poi ci ripensò e tornò subito dove si trovava, come temendo che la mattonella davanti a lei avrebbe potuto mangiarle un piede. Da oltre la porta chiusa sentì la voce di sua madre, e il pensiero che le sarebbe bastato chiamarla per farla accorrere nel bagno la tranquillizzò. Tornò a guardare la doccia, immobile come una qualsiasi altra doccia normale.  

Le tende sono rotte, fu la conclusione più ovvia a cui riuscì ad arrivare. L’idea di chiamare davvero sua madre per dirglielo le sembrò sempre più buona. “Mamma?” tentò, rivolgendosi alla porta chiusa: ma la voce che le uscì fuori dalla gola fu poco più di un pigolio, e lei stessa faticò a sentirsi parlare.

E poi, come se un vento che non c’era avesse appena starnutito dentro la doccia, le tendine si gonfiarono e si spostarono tutte d’un lato con uno stridulissimo rumore. Mila se ne spaventò e indietreggiò velocemente fino a incontrare la porta con la schiena, con la bocca mezza a perta e pronta a cacciare un grido potentissimo. Dopo un lungo e terribile momento di panico, alla paura si sostituì lo stupore.

Esattamente come aveva visto nella cucina di suo zio Amos, dentro la doccia, dal nulla, apparve una scala.





















 


 






Onigiri






note autrice:





La canzone che canta Mila all'inizio del capitolo è dello zecchino d'oro, datata 1963, e la potete ascoltare qui: La zanzara.


Detto questo, devo chiedere scusa: per il ritardo, innanzitutto. sono in periodo di esami e madama ispirazione ha deciso di prolungare le sue vacanze estive, a quanto sembra >>
Chiedo anche scusa a  
darllenwr   se stavolta non lo ringrazio come si deve per il suo gentilissimo commento, per quanto davvero lo abbia apprezzato! In generale, mi scuso se stavolta sono tanto sbrigativa.
Chiedo scusa anche per quest'altro noioso capitolo, ma posso garantire che è proprio tra gli ultimi: tra poco sarà azione a tutto spiano, prometto!

Infine, ringrazio tantissimo chi sta seguendo questa storia. Spero che abbiate tutti passato delle bellissime vacanze ^_^!



Grazie ancora, e alla prossima!
*onigiri





   
 
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